Con Abbas Kiarostami è inevitabile tentare un esercizio tanto impossibile quanto necessario: chiedersi dove si trovi il “vero” Kiarostami. Esiste uno stile, un “tocco Kiarostami” che qualsiasi spettatore attento trova inconfondibile. Ma se andiamo a scomporre i suoi singoli film, ci accorgiamo della molteplicità di interessi, soluzioni estetiche e tecniche, temi, luoghi, tipi di personaggi. Anche a limitarci ai film di ambientazione iraniana – che costituiscono comunque il corpus principale della sua opera – emergono le differenze. Ci sono i film, come la trilogia che ha dato a Kiarostami fama mondiale, ambientati nel Nord dell’Iran, tra paesaggi di montagna, immersi in un mondo contadino. È per certi versi un ritorno alle origini, mai nostalgico e compiaciuto. Kiarostami è nato nel 1940 a Tehran, ma la sua famiglia proviene proprio da quelle regioni. Non sono le radici della cultura alta, di cui pure Kiarostami si è imbevuto (in particolare della poesia). Forse non del tutto a ragione si è detto che Kiarostami ha portato nel cinema iraniano le forme della miniatura persiana. Ma a quello spazio delimitato, a quella natura stilizzata, le immagini di film come E la vita continua o Sotto gli ulivi sembrano preferire il campo lungo e la costruzione di uno sguardo che si perde immaginando il fuori campo.
Ma chi è il regista che ha raccolto questi frammenti della tradizione del suo paese? Si potrebbe dire che Kiarostami è figlio di un paese che ha vissuto e vive tuttora una tanto rapida quanto contraddittoria corsa verso la modernizzazione. Kiarostami appare allora come il regista di film “di città”, come Close up, Ten, o Il sapore della ciliegia (che però si muove soprattutto nei bordi della città): tutti film ambientati a Tehran, città natale del regista ma soprattutto la metropoli della crescita, delle contraddizioni sociali, dell’emarginazione. È anche la città che ispira al regista uno sguardo più “stretto” sulle cose, spesso attraverso un filtro, come nei tre film appena citati, dove l’automobile offre il cui punto di vista da cui vedere e comprendere il mondo. È un caso se in Taxi Tehran Jafar Panahi, allievo di Kiarostami, abbia scelto un taxi come escamotage per denunciare i problemi dell’Iran, quando le autorità gli avevano vietato qualsiasi attività? Sta di fatto che questo dispositivo, già definito come una boîte à caméra, ha permesso allo stesso Kiarostami di esplicitare in modo più netto uno sguardo politico sulle cose.
Nei due film su cui vorrei concentrarmi sono le figure emarginate (ragazze abbandonate, bambini, disoccupati, prostitute, divorziate) a diventare i protagonisti non solo delle storie ma degli sguardi. Guardiamo con i loro occhi (da un’automobile o dentro un’automobile) oppure li guardiamo attraverso il filtro del mondo opprimente che li circonda. La cosa più notevole è che bisogna tornare molto indietro nella sua produzione per trovare le prime tracce di questo altro Kiarostami, che non è più “vero” del Kiarostami diventato celebre con la trilogia, ma che introduce elementi di disturbo nella rappresentazione del regista immerso nei paesaggi del suo immaginario poetico. Si tratta dei cortometraggi realizzati dal giovane regista per il Kanun, l’ente di promozione dell’educazione dell’infanzia voluto dall’allora imperatrice Farah Pahlavi. I protagonisti sono quasi sempre bambini poveri, alle prese con i problemi quotidiani della sopravvivenza e dell’oppressione che sentono provenire dal mondo degli adulti e dei loro compagni. C’è come un ritorno, anche se in altre forme e in altri modi, a questo modo di sentire in uno degli ultimi film di Kiarostami, Ten, girato nel 2001. Senza alcuna pretesa di storicizzare l’opera di Kiarostami, vorrei proporre un confronto tra questo film e il cortometraggio La ricreazione (Zang-e tafrih, 1972).
Zang-e tafrih inizia con una trovata molto originale. Vediamo un bambino di profilo in piedi, le spalle contro il muro del corridoio della sua scuola, di fronte a una vetrata. L’inquadratura cambia e siamo di fronte a lui, dal lato della vetrata. Da qui assistiamo alla sua punizione: vediamo solo la mano del maestro che brandisce la bacchetta con cui il piccolo è punito. Il suo volto si contorce di dolore e vergogna. Una didascalia spiega che è stato punito perché giocando ha rotto un vetro. E così, giocando sulla messa a fuoco dell’obiettivo ci accorgiamo che tra il nostro sguardo e il piccolo protagonista c’è un filtro: è il vetro rotto, di cui ci accorgiamo quando la messa a fuoco ci fa vedere come fino a quel momento abbiamo visto il volto del bambino attraverso la spaccatura che ha procurato nel vetro. La sua immagine è inquadrata dalla sua colpa. La sequenza dà il tono a tutto il film. Nuova sequenza, i bambini escono da scuola. Il piccolo attraversa i vicoli della città. Si ritrova in una piazzetta dove altri ragazzi giocano a pallone. Il tempo di inserirsi nella mischia dei giocatori, tira un colpo e il pallone finisce nel cortile di una casa. Inizia l’inseguimento di un altro ragazzo, imbestialito contro il piccolo, il quale riuscirà a salvarsi ma sempre più affranto per il suo destino di combinaguai. Finirà anche lui, come anni dopo il protagonista del Sapore della ciliegia, in un luogo senza identità, una campagna che non è più tale ai margini della città, tra strade a scorrimento veloce, dove tra le rocce troverà il suo rifugio.
All’opposto sta Ten, film che si costruisce attorno all’imposizione di vincoli all’immagine, svolgendosi tutto all’interno dell’automobile di una donna divorziata, che accoglie di volta in volta il figlio, la sorella, un’amica, una ragazza, un’anziana devota, una prostituta. Tutto è ripreso da due camere fisse poste sopra il cruscotto dell’automobile: si tratta tra l’altro di uno dei primi tentativi di impiegare in modo creativo le nuove apparecchiature leggeri allora disponibili. Ancora una volta guardiamo i volti attraverso una ripresa fissa, circoscritta, che non dà scampo. Il fuori di queste immagini è limitatissimo, i pochi scambi che avvengono attraverso il finestrino. Tutto si gioca dentro questo dispositivo, questa boîte à caméra che sembra anticipare la riflessione contemporanea sugli ambienti mediali.
Nell’azione che si dispiega dentro l’inquadratura non c’è più spazio per le vie di fuga e le idealizzazioni offerte dai campi lunghi, dal montaggio e dal fuori campo. Siamo costretti a vedere i tic del bambino che diventa isterico discutendo con la madre o l’insofferenza di lei. I toni delle parole o le espressioni dei volti – o il loro oscuramento, come nel dialogo notturno con la prostituta – sono amplificati. E paradossalmente non c’è liberazione salvo che dentro questa inquadratura “costretta”, buona metafora di un paese dove la teocrazia impone un rigido codice di comportamento pubblico e tollera l’infrazione solo nel privato. Così il gesto di togliersi il velo da parte della ragazza, che dopo essere stata abbandonata dal fidanzato si è rasata, poteva essere fatto solo a condizione che avvenisse nel chiuso di una macchina e che la ragazza non avesse più quei capelli che, essendo fonte di turbamento erotico, vanno coperti. In qualche modo è come se Kiarostami avesse reso giustizia fino in fondo, a trent’anni di distanza, all’insopprimibile senso di angoscia che proviamo per il bambino punito, visto attraverso la stretta cornice del vetro rotto.
Riferimenti bibliografici
D. Cecchi, Abbas Kiarostami. Immaginare la vita, Ente dello Spettacolo, Roma 2013.
M. Dalla Gassa, Abbas Kiarostami, Le Mani, Recco 2000.
P. Montani, L’immaginazione narrativa, Guerini, Milano 1999.