In un interno con divano e giradischi, una Madre (Milvia Marigliano) e un Figlio (Dario De Luca) parlano: si accordano per un lavoro, discutono del passato, rievocano i momenti felici e quelli tristi, ricordano chi non c’è più, recriminano, si commuovono, discorrono del tempo. Se non fosse che l’incarico che assegna la Madre al Figlio sia quello di procurarle la morte, non si coglierebbe la tragedia ben celata, nelle tinte medie e eleganti, dell’apparente dramma borghese Lo psicopompo (2019). La produzione di Scena Verticale, che vede De Luca nella triplice veste di drammaturgo, regista e attore, è stata presentata a Cosenza, in anteprima nazionale per Primavera dei Teatri, nella versione site specific all’interno della residenza artistica dei BoCs Art, in un allestimento con fruizione in cuffia che ne ha valorizzato il progetto sonoro di Hubert Westkemper (Premio UBU 2019) e ne ha accentuato la dimensione metalinguistica.

De Luca recupera della tragedia classica la struttura che converge su un interrogativo cardine, e propone il suo quesito irrisolvibile alla luce degli strumenti etici e legislativi della contemporaneità, nonché frutto delle particolari condizioni, culturali, sociali e politiche della medesima epoca. Qual è il tempo giusto per morire? Quale il tempo per vivere? I protagonisti, legati dal più invincibile rapporto di sangue, affrontano, ognuno con le peculiarità del proprio carattere e della propria esperienza, il trauma della perdita di una persona cara dopo una lunga malattia. È proprio la morte del figlio per la Madre e del fratello per Michele a dare ad entrambi la possibilità di definirsi come personaggi teatrali per cui, in un rovesciamento ironico dei Sei personaggi in cerca d’autore, la spinta vitalistica ad esistere delle creature pirandelliane si inverte in una altrettanto tenace tensione di morte a cui, con modalità diverse, ambiscono i sopravvissuti.

Tutta la messa in scena si articola su un registro di medietà, De Luca allestisce una dimensione che esteticamente rifugge il tragico e lo straordinario, orientandola a un’ordinarietà del quotidiano che però non disinnesca la questione centrale di desiderare la morte, anzi la inquadra in un discorso di possibilità, da una parte normalizzandola, dall’altro lasciando che la mostruosità del desiderio emerga senza clamore. E mentre da una parte il dibattito sul fine vita, legato a casi specifici e situazioni controverse, è nella cronaca dell’oggi, urgente per quanto corrotto dalle semplificazioni e dalle strumentalizzazioni della comunicazione massmediatica, dall’altra esso certifica quanto la morte sia stata allontanata dalla vita, esclusa dal suo naturale legame con essa, estromessa dai luoghi e dai ritmi del vivere quotidiano, relegata all’istituzione ospedaliera, costretta al collasso della sfera privata negli spazi pubblici.

Nel momento in cui il morire si trasferisce negli spazi pubblici si materializza quello che può apparire un paradosso, l’occultamento della morte, che in realtà nasce dalla sua scomparsa dal quotidiano, dalla vita d’ogni giorno, da una sua gestione immersa nel flusso delle altre relazioni sociali, dal suo svolgersi negli stessi ambienti dove altrimenti si dorme, si fa l’amore. La morte viene allontanata dalla vita, se ne separa (Rodotà 2009, p. 261).

Ne Lo psicopompo sono aspetti diversi di questo paradosso sia la Madre che il Figlio, ed infatti entrambi intrattengono un rapporto esclusivo e speciale con la morte. La Madre vuole morire e, pur non essendo malata, rivendica il suo diritto a poter scegliere la morte “non come via di fuga, ma come fine”. Il Figlio è il traghettatore di anime, un infermiere professionista che assiste chi vuole togliersi la vita, aiuta la gente malata a fare il passo. Entrambi sono sopravvissuti alla morte che, scegliendo l’amato figlio e fratello maggiore, non ha scelto loro, lasciandoli soli in una vita diventata insostenibile. Tante volte ripete la Madre di essere stufa, una parola priva anch’essa di tragicità, ridicola nella sua banalità, ma che prende nell’interpretazione straordinaria di Milvia Marigliano accenti dolorosi, una credibilità feroce, a segno di una misura che da tempo è stata superata. C’è una grande consapevolezza in questa donna che la salute del corpo costringe ad essere viva, ad essere il niente che rimane dopo la morte di un figlio. C’è una ingenuità travestita da cinismo nel Figlio quando spiega che nella solitudine che si è costruito, nella funzione che si è attribuito, ci sia il riparo dal dolore perché sta “senza ideali come gli animali e immobile e grato come le piante”.

È vero, l’osservazione del mondo circostante mostra la ciclicità di vita e morte, di creazione e distruzione, ma ciò che è percepito come naturale in animali e vegetali acquista la fisionomia di uno scontro ostinato se interessa gli esseri umani:

Vita e morte, venire e andare: queste innanzitutto sono costanti naturali, battiti secondo un ritmo in cui il dato prevale su quanto viene aggiunto. Nella storia della nostra civiltà, tuttavia, il rapporto tra accettazione e azione, tra patire e fare slitta anche rispetto all’esperienza della morte. Quel che appariva un aspetto dei ritmi naturali diventa invece, nelle società più evolute, una lotta sempre più radicale e sempre più tenace tra la vita e la morte. E allora la morte non è più tanto un risultato, assolutamente ininfluenzabile, bensì qualcosa che reca il marchio della nostra forza, del nostro arbitrio. La sua immagine primaria non è più l’inevitabile approdare alla fine o il lieve, placido spegnersi della fiamma vitale, ma piuttosto un evento combattuto, terribile e imbevuto del sospetto di violenza e assassinio. Tanto più gli esseri umani pensano la morte come un venir assassinati e non come un pacifico autospegnimento, tanto più possentemente va di necessità a ingrossarsi la marea tanatofobica (Sloterdijk 2013, pp. 199-200).

In questo contesto Lo psicopompo è uno spettacolo coraggioso non tanto per ciò che dice sulla morte, quanto per l’aver scelto la morte come soggetto teatrale e aver trovato un linguaggio credibile per rappresentarla, nell’epoca della sovraesposizione, della pornografia del corpo morto, dilaniato, esploso che imperversa sui media della riproduzione audiovisiva, si tratti di cinema, televisione o web. De Luca costruisce due personaggi che pur nella disumanità della situazione in cui agiscono e, soprattutto, parlano, mantengono una umanità, fatta di sofferenza ma anche di nostalgia per quando credevano di essere stati felici. E infine dopo il buio, per l’ultimo atto del teatro che è la loro vita, Madre e Figlio sono pronti, per l’occasione indossano entrambi la giacca: per la donna è il completo dell’inizio, per l’uomo è un’anacronistica felpa con cappuccio. Congelati nei ruoli dell’incomunicabilità fra generazioni, per sempre madri, per sempre figli, fino all’estrema battuta lasciata senza risposta. Vestiti per affrontare il viaggio, inadeguati per la vita, perfetti per la morte.

Riferimenti bibliografici
L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore – Enrico IV, Mondadori, Milano 1948.
S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Laterza, Roma-Bari 2009.
S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2015.
P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica, Raffaello Cortina, Milano 2013.

*Le immagini presenti nell’articolo sono foto di Angelo Maggio. 

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