Naturalezza, realismo, comicità, ma soprattutto la quotidianità, la sincronia e i costumi sociali: tutto questo, stando ai manuali e alle impressioni di lettori e spettatori, riassume con puntualità pragmatica gran parte dell’universo di Molière. Ma quando si ambisce a restituire un orizzonte sociale e storico, può capitare di volerlo abbellire, oppure di presentarne il lato migliore, quello più favorevole, attraente e leggero. Che la comicità si allei di fatto a una visione che si ritiene tenda all’onestà e al realismo non stupisce.

Tuttavia, ad approfondire le ragioni di uno pseudonimo, quello appunto di “Molière”, adottato da Jean-Baptiste Poquelin (alias Molière appunto), si può rimanere sorpresi e incuriositi. Poquelin adotta il cognome di un poligrafo, traduttore, romanziere e poeta, morto nel 1624, ossia due anni dopo la propria nascita. Il nome completo di quello scrittore era François-Hugues de Molière, sieur d’Essertines, nato intorno al 1600. Considerato dai contemporanei un raffinato prosatore o piuttosto colui che ha conferito al francese letterario una perfezione che ancora non aveva conseguito, d’altro lato attesa e auspicabile dopo il Cinquecento (a coronamento dell’interesse rinascimentale per la sobrietà classica), François de Molière non morì in duello, come alcuni riferirono, ma fu assassinato da un amico.

Rileggendo un passo di una pagina consacrata al Molière omonimo da J-P. Camus, suo mentore e protettore, si comprende che la lingua che egli ha contribuito ad approntare, per la quale ha meritato encomi, presenta delle caratteristiche lodevoli ma un po’ bizzarre:

La façon de parler y est égale, pleine, polie, la glace d’un miroir, à mon jugement, n’étant point plus terse que ce langage est lissé. Mais après tout c’est de la crème battue, qui fait montre d’un grand corps et qui a peu de substance; c’est une élégance molle et flouette, qui ressemble à une beauté féminine, qui ne consiste qu’en un teint si frais et si délié, en une peau si blanche et si mince que les veines y paraissent distinctement; où les nerfs sont cachés dans la chair arrondie de graisse et égalée comme de l’ivoire élaboré autour.

Lo stile di Molière è piano, levigato, senza asperità né intoppi, liscio insomma, addirittura trasparente, se non fosse che così diventa anche un corpo di donna, un’idealizzazione plastica, ancorché del tutto inconsistente. Quel corpo femminile era perciò leggero e ingombrante; Camus lo paragona alla panna montata (“crème battue”). Di conseguenza, la scrittura di Molière è elegante ma del pari voluminosa, spaziosa ma fragile, divisa cioè tra il produrre volume e, sul lato opposto, una limpidezza che tradisce la fatale mancanza di materia, di un’autentica carne.

Il vapore lattescente e fresco di quella prosa è forse paragonabile a certe nuvole cariche di tempesta di Hugo, vere montagne ambulanti, immense e buie se i lampi, di tanto in tanto, non le illuminassero, svelandone le profonde, inviolabili e spesso violente architetture. Fulmini che qui sono semmai rappresentati dalle linee di una bellezza ideale. Con François de Molière la lingua letteraria compie infine un salto di qualità, diventa post-rinascimentale e sembra cambiare di genere. Diventa femminile, attraente come un corpo immaginato, che non si può toccare. Anche perché quel corpo si delinea mano a mano che la lettura lo rende distinguibile.

La lettura e la scrittura accolgono una specie di Venere “verbale”, che sorge dalla schiuma così ampia che quel prosatore ha saputo approntare. Poi, dopo alcune prove felici, la sfortuna e il tradimento, il sigillo infausto che chiude i destini di François. Qualcuno lo sorprende di notte mentre riposa a letto; il giovane promettente è ucciso da un amico nel quale riponeva fiducia. Si conclude l’esistenza di un autore che sembrava avere convertito la fiducia nel prossimo nella trasparenza della scrittura a cui ha volutamente affidato i tratti di una donna perfetta e irreale.

Quel miraggio femminile dentro la scrittura sembra trovare spazio nei testi teatrali di Jean-Baptiste Poquelin che, come abbiamo già ricordato, ha adottato come pseudonimo parte del nome di famiglia di François. Il miraggio si traduce qui in un sistema di dosaggi emotivi che tende a proteggere il corpo dagli eccessi in cui potrebbe incorrere. Poquelin-Molière declina l’osservazione e l’interesse per i caratteri sociali attraverso una comicità contenuta, aggraziata, non priva di delicatezza e riserbo, a dispetto della verità e dell’immediatezza delle vicende e dei ruoli rappresentati. Poquelin, noto ormai come Molière, costruisce i personaggi evitando di guardarli da vicino. O meglio, essi trattengono forze impellenti, che appunto restano racchiuse in una misura plastica, quella del corpo, misura che – si faccia attenzione – sostituisce l’iperbole all’espressione fisica, piena e diretta, tangibile se descritta nei mutamenti della fisionomia umana, delle emozioni.

Un indizio in tal senso è l’utilizzo che Poquelin-Molière fa del lessema joie. La gioia oltrepassa i confini del corpo. È una forza che si esprime al di là del corpo, ma senza propriamente attraversarlo e scuoterlo dal “di dentro” al “di fuori”, sicché il corpo appare come una sagoma non completamente sensibile o reattiva. Per un verso, infatti, la gioia è entière e grande; dall’altro, se éclate, ovvero quando è chiamata a “detonare”, crea una nuvola iperbolica che si raggruppa intorno a chi vive l’emozione, quasi fosse un nimbo amniotico posto a presidio del corpo, da intendere a sua volta come l’autentico nucleo identitario del personaggio: incroyable / inconcevable / extrême / excessive / triomphante ecc.

La gioia è quindi intorno al corpo e al suo interno, sicché il corpo equivale, se si vuole, ai “lampi” di Hugo. È cioè una sagoma che affiora mentre si fa attorniare da quel nimbo di gioia, fuoriuscito come per proteggerne le linee, a difendere l’inviolata apparenza e l’equilibrio della persona. Il corpo è insomma il “tesoro” plastico protetto dall’iperbole; esso vuole rimanere intatto e solido e perciò risente poco di quelle forze che pure si muovono più in profondità.

Un’analoga simbiosi di iperbole e misura si ha in corrispondenza del lessema antonimico: douleur. Il dolore si divide infatti tra due serie concorrenti, con l’iperbole, di nuovo, a fare da “guscio” protettivo del corpo. Da un lato, quindi, la douleur è mortelle / extrême / inconcevable / nonpareille, dall’altro, si fa contenere da una ponderabilità che ne traccia i bordi, proteggendone così al contempo l’apparenza: vive / grande / juste / sensible / couverte.

Ma che ne è del viso, degli sguardi o degli occhi? Gli occhi dei caratteri di Poquelin-Molière sono frontali e integri – beaux / brillants / ouverts; e tuttavia, solo in un caso sono adorables. Negli altri, prevale piuttosto l’emorragia delle forze interne, che defluiscono oltre il corpo facendo appunto sfilare le loro minacce. Pertanto, gli occhi sono: étranges / traîtres / maudits / furibonds / farouches / extravagants / méchants. L’occhio, allora, promette una sorta di “detonazione”, annuncia la fine della simbiosi tra il corpo e le iperboli che lo avvolgono senza deformarlo. A questi pericoli, lo sappiamo già, si vorranno esporre con generosità miriadi di scrittori disincantati e curiosi, in Francia e altrove.

Riferimenti bibliografici
F. Orlando, Due letture freudiane: Fedra e il Misantropo, Einaudi, Torino 1971.
F. Rey, Molière et le Roi. L’Affaire Tartuffe, Le Seuil, Paris 2007.

Molière, pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin, Parigi 1622 – Parigi 1673.

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