Lo storico P. Adams Sitney individua nella seconda metà degli anni sessanta una svolta cruciale nell’evoluzione del cinema sperimentale americano, con lo sviluppo di un modello antitetico a quello dominante nei due decenni precedenti. Pur intraprendendo percorsi dissimili, registi come Kenneth Anger con The Inauguration of the Pleasure Dome (1954), Stan Brakhage con Anticipation of the Night (1958) o Gregory Markopoulos con Twice a Man (1963) presentano ancora un lirismo visivo, una complessità ora formale ora contenutistica, che deriva dal segno lasciato nell’ambito sperimentale dal cinema di Maya Deren. Di contro, opere come Wavelenght (1967) di Michael Snow, Lemon (1969) di Hollis Frampton o Serene Velocity (1970) di Ernie Gehr iniziano a delineare una via minimale che Sitney definisce structural cinema, in cui «la forma dell’intero film è predeterminata e semplificata» (Sitney 2002, p. 347, trad. mia) e in cui è proprio questa forma «che costituisce l’impressione primordiale del film» (ibidem).
Con i primi lavori negli anni settanta, James Benning si inserisce in questo panorama come uno degli ultimi grandi nomi, se non l’ultimo, formatosi direttamente sulla scia del cinema strutturale. L’influenza esercitata da Snow e Frampton non a caso è ricordata spesso dal regista nelle numerose interviste rilasciate nel corso degli anni (MacDonald 2019, pp. 401-422). La maggior parte dei suoi film si caratterizzano da lunghe inquadrature realizzate da una camera fissa, immobile, impegnata a riprendere un soggetto statico contaminato a volte da elementi dinamici: una strada isolata attraversata da un veicolo; un lago in cui compare una barca a vela. A differenza di Wavelenght, Lemon o Serene Velocity, tuttavia, le lunghe riprese non vivono in autonomia, ma diventano tasselli di un insieme. Fondamentale nel suo cinema – a parte rari casi come Nightfall (2012), BNSF (2013) o glory (2018) – è difatti il ruolo che assume la struttura complessiva, intesa come composizione o meglio giustapposizione di più inquadrature e suoni.
È l’accostamento dato dal montaggio che in 11 x 14 (1977) e in Landscape Suicide (1987) suggerisce allo spettatore la presenza di una pseudo-narrazione dietro a quell’eterogeneità di immagini apparentemente indipendenti; oppure che in 10 Skies (2004) e in 13 Lakes (2004) dà vita a un’esperienza sì minimale, ma frutto di un preciso lavoro antologico di combinazione e ripetizione di immagini basate su un tema specifico. La forma utilizzata da Benning sembra così indirizzarsi verso una «libertà dello sguardo dello spettatore» (Dottorini 2018, p. 149) e al contempo verso «la ricerca ossessiva di una forma, di una struttura geometrica che permetta tale liberazione» (ibidem).
Non da meno, fuori concorso alla 75ª edizione del Festival di Berlino, anche little boy (2025) presenta una precisa struttura geometrica tanto nella costruzione delle singole inquadrature quanto nel modo schematico in cui si collocano dentro al film. Separate da cartelli neri che scandiscono la progressione temporale dal 1961 al 2016, la medesima sequenza è ripetuta otto volte con elementi diversi. Le mani di qualcuno dipingono parti di un modellino, mentre una scritta informa sul titolo e sull’autore della canzone che fa da sottofondo (da It’s Late di Ricky Nelson a Fast Car di Tracy Chapman). Uno stacco ci porta poi su una ripresa statica del modellino completato, mentre una scritta comunica di chi è la voce del discorso radiofonico che stiamo ascoltando (dal Presidente Eisenhower alla dottoressa Helen Caldicott).
Tra i più recenti film di Benning, The United States of America (2022) – che recupera il titolo dell’omonimo cortometraggio realizzato insieme a Bette Gordon nel 1975 – possiede una schematizzazione precisa e rigida molto simile a quella di little boy. Sono messe in sequenza cinquanta immagini fisse della stessa durata, cinquanta cartoline, ognuna anticipata da una scritta su sfondo nero che indica il relativo stato federale degli Stati Uniti a cui si riferisce. Solo sui titoli di coda un’ultima scritta «FILMED in CALIFORNIA» svela l’inganno: tutte le riprese sono state realizzate in un unico stato, ricordando e giocando con le potenzialità di un principio semplice e basilare del cinema come l’effetto Kulešov, secondo cui un’inquadratura assume un senso differente sulla base della precedente e della seguente. The United States of America è forse l’esempio più chiaro per comprendere come l’approccio “documentaristico” di Benning non sembri mostrare un reale tentativo di farsi finestra sul mondo, ricostruzione della realtà su schermo, quanto piuttosto quello di creare e restituire un’esperienza da offrire allo spettatore.
I singoli capitoli di little boy, accomunati fra loro dal tema della lotta e del conflitto (sindacale, politico, ambientale, bellico), assumono così la capacità di esprimere un senso altro, indiretto, grazie soprattutto all’influenza subita dalla presenza delle due immagini che fanno da cornice al film: il modellino dello scheletro di un tyrannosaurus e della bomba Mk.1 sganciata su Hiroshima, nome in codice “little boy”, che negli ultimi minuti ci riporta indietro nel tempo al presidente Harry S. Truman e a quel 6 agosto 1945. Ecco allora che se The United States of America diventa una banalizzazione dei tratti distintivi degli stati che suggerisce l’inutilità dei confini, little boy assume i tratti di una storia ciclica che ha come inizio e fine l’estinzione, capace di spazzare via quanto costruito con mani o parole se non affrontata correttamente. Il racconto sull’America svolto da Benning nelle sue opere non passa quindi attraverso ciò che di per sé ci viene chiesto di vedere o ascoltare, come fosse una semplice raccolta di documenti, fonti o testimonianze nuove o di repertorio, ma da ciò che l’esperienza derivata dalla combinazione di questi elementi stimola nella mente dello spettatore, confermando come il contenuto continui ad essere «minimo e secondario rispetto al contorno» (Sitney 2002, p. 347, trad. mia).
Questi film mettono in evidenza un altro aspetto, già emerso nelle righe precedenti, che secondo Sitney è tra i quattro punti determinati per il cinema strutturale: quello della ripetizione, del loop, rintracciabile nel cinema di Benning sia da un punto di vista sia interno al film che esterno. Interno, in quanto la ripetizione si può individuare nell’utilizzo della medesima inquadratura reiterata (la replica della baita di Unabomber mostrata durante le quattro diverse stagioni in Stemple Pass, 2012), nel riproporre in successione un insieme di immagini simili (i venti volti che fumano una sigaretta in Twenty Cigarettes, 2011) e, come già visto, in una struttura che si ripete in maniera precisa. Esterno, in quanto la ripetizione può riguardare collegamenti intertestuali tra opere della sua filmografia (i tre One Way Boogie Woogie del 1977, 2005 e 2012, in cui torna in quei luoghi per ricreare inquadrature identiche) oppure alla più ampia storia del cinema (Faces del 2011, Easy Rider del 2012 e Breathless del 2024, reinterpretazioni personali degli omonimi film di Cassavetes, Hopper e Godard).
In little boy la ripetizione non si esaurisce soltanto in un punto di vista interno rappresentato dalla struttura schematica, ma anche dalla presenza di una connessione con il mediometraggio American Dreams (Lost and Found) del 1984. Quest’ultimo – che riutilizza a sua volta il titolo dell’omonimo testo di Studs Terkel pubblicato l’anno prima – appare come un’opera formalmente complessa, che lavora attraverso la composizione contemporanea di tre livelli di narrazione. Visivo, con le immagini di oggetti e cimeli legati al mondo del baseball. Sonoro, con le registrazioni radiofoniche che vanno da Elvis Presley a Nixon. Testuale, con la trascrizione a mano del diario del criminale Arthur Herman Bremer, che scorre sul lato inferiore dello schermo come titoli di coda di un programma televisivo. Il tutto in una progressione cronologica che va dal 1954 al 1976. Little boy scompone questi elementi (la divisione cronologica, le registrazioni radiofoniche, i testi che informano su ciò che si ascolta, gli oggetti riprese su una superficie scura) e li ricolloca all’interno di una struttura rinnovata e semplificata. Il caos di American Dreams (Lost and Found) si trasforma così ordine in little boy, la complessità compositiva in esasperata semplicità, aprendosi ancora di più a «un cinema della mente più che dell’occhio» (Sitney 2002, p. 348, trad. mia).
Riferimenti bibliografici
D. Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo, Mimesis, Milano-Udine 2018.
S. MacDonald, The Sublimity of Document: Cinema as Diorama, Oxford University Press, 2019.
P. A. Sitney, Visionary Film. The American Avant-Garde, 1943-2000, Oxford University Press, 2002.
little boy. Regia: James Benning; interpreti: Johnan Jahromi, Alessandro Streccioni, Yusef Ferguson, Yuan Gao, Nelson De Los Santos, Calum Walter, Nathan Meier, James Benning; origine: Stati Uniti; durata: 74’; anno: 2025.