“C’era un tempo in cui, per raccontare quello che ti stava accadendo, dovevi trovare qualcuno che avesse tempo di starti a sentire. Oggi bastano poche parole, una foto e un’intera comunità in rete è testimone della tua vita. È la web community”. È una giornata dell’ottobre 2016 quando decido di visitare la mostra che Chiara Ferragni ha organizzato con la rivista di moda Grazia alla Triennale di Milano. I Ferragnez, come hashtag e fabbrica di contenuti editoriali, non esistono ancora, anche se la blogger Chiara e il cantante Fedez hanno da poco iniziato a frequentarsi. Su uno dei pannelli – specchi cui sono appiccicati testi – mi accoglie questa celebrazione della “rivoluzione digitale”. Che prosegue: “Grazie al web siamo sempre più aggiornati e competenti in fatto di stile. Il nostro giudizio si fa più acuto, la nostra voce più influente, con la condivisione immediata delle informazioni sul web la moda diventa fenomeno globale, non più distante ed esclusiva, ma condivisa, inclusiva, social. È la digital fashion revolution e il protagonista sei TU”.
Passeggio tra gli specchi riflettenti, pensati per ricordarmi che sono io, utente comune, il centro e l’artefice della rivoluzione del web partecipativo. E che io, ordinario produttore di post e contenuti sui miei social network, sono come Chiara. Con la differenza di qualche milione di follower, certo. La mostra celebra un pantheon di fashion blogger internazionali diventati popolari e sancisce la transizione dai blogger agli influencer. Pillole di storia del web e della street style photography fanno da sfondo all’autocelebrazione dei nuovi influenti abitanti del mondo della moda, profondamente trasformato dai media digitali nell’ultimo decennio. Il pubblico è mediamente più giovane di quello che si può vedere nei corridoi della Triennale, ma sarebbe sbagliato pensare che la mostra sia frequentata solo da teenager in momentaneo congedo da Instagram. Insospettabili professionisti leggono con curiosità la biografia di Tavi Gevinson, blogger adolescente di fama mondiale, e prendono atto che Chiara Ferragni ha ottenuto una sala all’interno di un’istituzione culturale internazionale e il patrocinio del Comune di Milano.
Già a metà degli anni Dieci il successo di Ferragni è tutt’altro che sorprendente per chi ne segue la carriera dal 2009, anno del lancio del suo blog The Blonde Salad. Prima di mettere piede in Triennale, Chiara è già stata testimonial di brand di lusso, giudice di Project Runway, ospite di fashion week internazionali e della Harvard Business School, che le dedica uno studio di caso (Keinan et al. 2015). Matt Groening l’ha “simpsonizzata”, Mattel ha prodotto una Barbie-Ferragni. Chiara è una celebrity internazionale, in prima fila nella battaglia per consacrare il ruolo degli influencer nel nuovo ecosistema mediale. La incontreremo sulle colonne del Financial Times come “l’influencer italiana che ha costruito un brand globale”; tra i neologismi registrati dalla Treccani, con l’hashtag #Ferragnez che sancisce l’unione matrimoniale e mediatica con Fedez; alla 76a Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia per presentare il documentario agiografico Unposted, per la regia di Elisa Amoroso, poi distribuito da Prime Video. La troveremo sia sulle copertine delle riviste di moda (come la recente cover di Vogue Italia, ottobre 2021) sia negli editoriali di paludati quotidiani nazionali, che registrano il suo impegno civico per il finanziamento di un reparto Covid o per i diritti della comunità LGBTQ+.
Inevitabilmente, la “ferragnologia” si fa strada tra gli interessi degli accademici. Chiara è indagata nel suo costituirsi come imprenditrice (Keinan et al. 2015), icona pop e madre (Ercoli 2020), emblema dei processi di riarticolazione dell’immaginario di moda (Pedroni 2021) e socio di maggioranza dell’universo crossmediale dei Ferragnez (Minuz 2018; D’Aloia e Pedroni 2021); citata pressoché in ogni articolo dei fashion studies che cerchi di dare un senso alla rapida trasformazione dei media di moda nel corso degli anni Dieci. È tuttavia in un classico, che precede di decenni l’avvento dei media digitali, che possiamo trovare illuminanti chiavi interpretative per comprendere la parabola di Chiara. La Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno (1947), infatti, offre degli spunti critici che il lettore contemporaneo può utilmente applicare all’analisi dell’influencing.
Le tesi dei Francofortesi sono note. Nel capitolo dedicato all’industria culturale, gli autori denunciano la funzione ideologica dei mass-media, responsabili di far introiettare all’individuo il sistema di dominio esistente e i suoi valori – o i disvalori, dal punto di vista di Horkheimer e Adorno. L’ossimoro “industria culturale” sta a indicare l’organizzazione produttiva che trasferisce l’ideologia capitalista nei propri prodotti, facendone strumenti di manipolazione della coscienza delle masse (Colombo 2015: 92). Nell’articolata argomentazione degli autori, che non ho qui l’ambizione di riassumere, è possibile identificare almeno quattro parole chiave per leggere il fenomeno Ferragni.
Successo
Parlando dell’industria cinematografica, Horkheimer e Adorno notano come questa selezioni i suoi talenti tra i tipi ideali del ceto medio dipendente (Horkheimer e Adorno 1947). Gli attori realizzano la promessa di successo offerta alle masse, perché incarnano quell’«uno» che emerge dalla mediocrità e consegue il successo. Il consumatore vi si identifica – anche se, a ben guardare, il successo di quell’«uno» che ce la fa palesa l’impossibilità del successo per gli altri mille che non ce la fanno. Non c’è forse in Ferragni, nell’influencer con milioni di follower, la stessa promessa non mantenuta di successo per l’individuo comune, ordinario, che non fa parte del sistema? Che cos’altro possiamo vedere riflesso negli specchi della mostra in Triennale, nonostante ci parlino dell’orizzontalità del web, se non il nostro insuccesso di fronte alla star che ha saputo capitalizzare la sua capacità di usare i social media?
La nostra ordinarietà è però perdonata e anzi benedetta dall’influencer: attraverso l’attore idealtipo del ceto medio, e oggi attraverso l’influencer outsider che costruisce il suo personaggio sulla retorica della spontaneità e del quotidiano, si assicura agli spettatori-follower «che non hanno nessun bisogno di essere diversi da quello che sono, e che potrebbero essere, a loro volta, altrettanto fortunati, senza che si pretenda da loro qualcosa di cui si sanno incapaci. Ma nello stesso tempo si fa loro capire che anche lo sforzo non servirebbe a nulla, poiché la stessa fortuna borghese non ha più nessun rapporto con l’effetto prevedibile del loro lavoro. Essi capiscono l’antifona» (Horkheimer e Adorno 1947).
La ricetta del successo degli influencer può dunque essere identificata nell’estremizzazione del principio della spontaneità applicato ai follower: “Non dovete essere diversi da ciò che siete”, anatema e incoraggiamento che funziona molto di più di quanto non avvenga nel rapporto tra celebrity e spettatore. Ferragni è insieme un meccanismo di assoluzione dei follower (cui dice implicitamente: “Non dovete essere perfetti”) e una promessa statisticamente infondata – ma non per questo meno appetibile – di successo e realizzazione per il ragazzo o la ragazza “della porta accanto”.
Gli influencer esemplificano anche la «selezione arbitraria di casi ordinari» (ivi, p. 157) che è in azione, nell’esempio fatto da Horkheimer e Adorno, quando un settimanale seleziona la vincitrice di un concorso: nel dare visibilità e successo a una singola persona, l’industria afferma il suo potere di «sollevare [un consumatore] nel cielo e scaraventarlo di nuovo via» (ivi, p. 157). La chance di successo non muta la sostanza dell’industria culturale, che è «interessata agli individui solo come ai suoi clienti e ai suoi impiegati» (ivi, p. 157): l’intero ecosistema dei social network si regge su un’economia dell’attenzione (Goldhaber 1997; Crogan e Kinsley 2012) che sfrutta il tempo degli utenti per farne bersaglio di messaggi pubblicitari.
#Adv
Per Horkheimer e Adorno, la pubblicità è il vero strumento del dominio dell’industria culturale sui consumatori. Generica e indeterminata, fatta di «affermazioni che non siano suscettibili di verifica» (Horkheimer e Adorno 1947, p. 158), ripete in modo monotono «proposizioni protocollari» e stereotipi, facendo dell’industria culturale «il profeta inconfutabile dell’esistente» (ivi, p. 158). «Ma poiché il suo prodotto riduce continuamente il piacere che promette, per la sua stessa natura di merce, a quella stessa, semplice promessa, finisce per coincidere, da ultimo, con la pubblicità di cui ha bisogno per compensare la propria incapacità di procurare un godimento effettivo» (ivi, p. 175). L’influencer è la realizzazione ultima di questo principio nell’età dei media digitali: la pubblicità diventa contenuto senza più mimetizzarsi. Ferragni pubblicizza prodotti: quelli della Chiara Ferragni Collection, di aziende con cui istituisce partnership (“Lancôme X Chiara Ferragni”, “Nespresso X Chiara Ferragni”, ma anche Evian, Pigna, Intimissimi) o che la ingaggiano come testimonial (come piace dire oggi: brand ambassador).
Quando non è impegnata in attività esplicitamente promozionali, l’influencer narra la sua vita quotidiana (famiglia, affetti, lavoro) attraverso le Instagram Stories, una sorta di Big Brother in salsa social, e con una serie televisiva (The Ferragnez, Prime Video, 2021). Finisce così, in ultima analisi, per pubblicizzare se stessa come se fosse un brand il cui valore aumenta quanto più è esposto agli occhi del pubblico. Il self-branding realizza così un’altra preoccupazione francofortese: «Dal momento che, sotto la pressione del sistema, ogni prodotto adopera la tecnica pubblicitaria, questa è penetrata trionfalmente nell’idioma, nello “stile” dell’industria culturale. La sua vittoria è così completa che essa, nei punti decisivi, non ha più nemmeno bisogno di diventare esplicita» (ivi, p. 176). Non dobbiamo qui pensare solo alla pubblicità occulta – quella sanzionabile dall’Antitrust, che ha forzato gli influencer a usare l’hashtag #adv nei post pagati dagli inserzionisti. Si tratta, più in generale, della trasformazione di Instagram nel luogo elettivo dell’influencer marketing (Leaver et al. 2020), in cui gli influencer sponsorizzano uno stile di vita fatto di prodotti, presentando le loro scelte di consumo come indipendenti rispetto alle pressioni dei produttori. La merce domina i feed, e gli influencer si fanno essi stesse merce e intrattenimento.
Il tragico
Anche il tragico trova posto nell’industria culturale. Horkheimer e Adorno citano come esempio la formula drammatica della casalinga che, nei film e nei drammi radiofonici, si caccia nei pasticci per poi uscirne. Similmente, Ferragni ci mostra i suoi problemi con la prima gravidanza, l’odio degli haters, i tentativi di minare la sua leadership nella sua società (TBS Crew) quando il co-fondatore ed ex fidanzato Riccardo Pozzoli tenta di vendere le proprie quote. Problemi che Chiara risolve con il «contegno esemplare delle vittime» (Horkheimer e Adorno 1947, p. 164). «Le situazioni cronicamente disperate che affliggono lo spettatore nella vita quotidiana diventano […] nella riproduzione la garanzia che si può continuare a vivere. Basta rendersi conto della propria nullità e inconsistenza, sottoscrivere e accettare la propria disfatta, e si è già entrati a far parte» (ibidem).
Qui in realtà il modello ferragniano si distacca dal pessimismo francofortese e offre ai follower un messaggio di empowerment: Chiara vince le difficoltà, diventando modello per i follower. Nondimeno, l’influencer realizza il «miracolo dell’integrazione» (ivi, p. 165) nel momento in cui concede anima e corpo ai detentori del potere: Ferragni si consegna alle logiche dell’industria culturale della moda, ricevendo «l’atto di grazia permanente del detentore del potere, che è disposto ad accogliere chi rinuncia a opporre resistenza e inghiotte la propria insubordinazione» (p. 165). Basti ascoltare il coro di lodi che Ferragni riceve, nel documentario Unposted, da designer, giornalisti e gatekeeper interni al sistema della moda. A titolo di esempio: “Chiara possiede l’esperanto della contemporaneità, il linguaggio naturale dei social media” (Simone Marchetti, direttore di Vanity Fair Italia); “Chiara è autentica. Lei comunque manda un messaggio: che se vuoi puoi farlo anche tu” (Maria Grazia Chiuri, direttore creativo di Dior).
Autenticità
A proposito di autenticità: nelle ultime pagine del capitolo sull’industria culturale, Horkheimer e Adorno si scagliano contro l’uso del linguaggio nell’industria culturale. I suoi termini diventano “pratiche incantatorie” che «acquistano un potere d’urto, una forza di adesione e di repulsione che li assimila al loro estremo opposto, alle formule magiche» (ivi, p. 178). Svolge questa funzione, oggi, il vocabolario nato in seno all’influencer marketing, e in particolare l’enfasi sui lemmi “autenticità”, “realtà”, “trasparenza”. Autenticità è la parola magica del business of influence, che trasforma ogni oggetto vendibile in un caso particolare di autenticità.
«Innumerevoli persone adoperano parole e locuzioni che non sono più in grado di intendere o che utilizzano solo, se così si può dire, per il loro valore behavioristico di posizione, come simboli protettivi che finiscono per attaccarsi tanto più tenacemente e in modo più ossessivo ai loro oggetti quanto meno si è in grado di afferrare, ormai, il loro significato linguistico» (Horkheimer e Adorno 1947, p. 180). L’enfasi sull’autenticità prende forma in un contesto di sovrastimolazione del consumatore, i cui sensi sono sottoposti a un volume crescente di messaggi coinvolgenti, seducenti e multisensoriali (Colucci e Pedroni, 2021). Non credendo più ai brand, ci affidiamo agli influencer e alla loro “genuinità”, che nei manuali di influencer marketing (ad esempio, Backaler 2018) è tematizzata come la risorsa chiave per costruire efficaci campagne di comunicazione.
Come ha notato Marwick (2013), l’autenticità funziona come un principio organizzativo nelle pratiche dei fashion influencer, orientate verso l’auto-espressione, un honest engagement con le aziende e l’intimità con il pubblico; del resto, che l’autenticità sia un valore fabbricabile dalle industrie culturali era già stato notato da Peterson (1979) nel suo studio sulla musica country. Ed ecco, di nuovo, che i Francofortesi ci rimettono con i piedi per terra: «Questo modo di parlare» – ma potremmo aggiungere: questo modo di pensare – «è diventato universale e totalitario. Non è più possibile avvertire, nelle parole, la violenza» (Horkheimer e Adorno 1947, p. 181) che l’utente subisce ogni volta che introietta come autentici una foto, un video, una performance che sono stati studiati fino all’ultimo pixel dal brand e dall’influencer per essere un efficace veicolo pubblicitario.
Se ha ancora senso, oggi, parlare di industria culturale, questa ha il volto di Chiara Ferragni, che con maestria superiore a tutti i suoi colleghi influencer ne ha ridefinito regole, logiche e potenzialità. Horkheimer e Adorno, forse, le avrebbero dedicato qualche pagina della Dialettica.
Riferimenti bibliografici
J. Backaler, Digital influence: Unleash the Power of Influencer Marketing to Accelerate your Global Business, Palgrave Macmillan, Londra 2018.
F. Colombo, Gli studi sull’industria culturale in Italia, in “Sociologia della comunicazione”, No. 50 (2), 2015.
M. Colucci e M. Pedroni, Got to be real: An investigation into the co-fabrication of authenticity by fashion companies and digital influencers, in “Journal of Consumer Culture”, Luglio 2021.
P. Crogan e S. Kinsley, Paying attention: Towards a critique of the attention economy, in “Culture Machine”, Vol. 13, 2012.
A. D’Aloia, M. Pedroni, #Ferragnez: Anatomia di un sincretismo mediale, a cura di Barra L., Guarnaccia F., in “Supertele. Come guardare la televisione”, Minimum Fax, Roma 2021.
L. Ercoli, Filosofia di un’influencer, Il Melangolo, Genova 2000.
M.H. Goldhaber, The attention economy and the net, in “First Monday”, Aprile 1997.
M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1997.
A. Keinan, K. Maslauskaite, S. Crener, V.M. Dessain, The Blonde Salad, Harvard Business School Case, Gennaio 2015.
T. Leaver, T. Highfield, C. Abidin, Instagram: Visual social media cultures, John Wiley & Sons, Dicembre 2020.
A.E. Marwick, Status update. Yale University Press, Gennaio 2013.
A. Minuz, I Ferragnez, le nozze e la celebrazione di Instagram, in “Studi culturali”, Il Mulino, Agosto 2018.
M. Pedroni, Di lotta e di governo: I digital fashion influencer e l’immaginario di moda, in “Echo: Rivista interdisciplinare di comunicazione”, No. 3, 2021.
R.A. Peterson, Creating country music: Fabricating authenticity, University of Chicago Press, 1979.