Presentato alla selezione ufficiale a Venezia, e poi programmato “contro” C’era una volta a… Hollywood di Tarantino, Chiara Ferragni – Unposted è il film-evento con più incassi nella storia del cinema italiano (1,6 milioni di euro), nonostante i rifiuti indignati (o, nel migliore dei casi, gli spernacchiamenti) ricevuti dalla critica ufficiale. In molti hanno messo insieme questo dato e il successo del libro di Giulia de Lellis, per sottolineare lo stato di decadenza in cui versa la cultura italiana; e ovviamente non sono mancate, di contro, le accuse di snobismo di chi rimprovera i critici di essere fuori dal mondo, e li esorta a riprendersi il loro ruolo. In qualche modo, si tratta di un gioco delle parti, auspicato e alimentato (“purché se ne parli”) dalla produzione, per poi passare alla cassa. Ma siccome (in nutritissima compagnia) a questo fiume di denaro e di chiacchiere contribuisco pro quota, cercherò almeno di rifuggire dai posizionamenti abituali.
Naturalmente, la pellicola prende senso da tutto il contesto, e non ne ha granché in quanto opera individuale, testo cinematografico conchiuso. E però bisognerà dirne qualcosa (tanto più che queste caratteristiche rendono insensata qualsiasi paura di spoiler). Non si tratta propriamente di un documentario, una docufiction o un biopic, ma neppure di mero advertising dilatato (uno “spottone”). Vediamo perché.
Il film è articolato in tre macro-segmenti: nel primo si presenta la protagonista come imprenditrice di successo e (paradossalmente) femminista; nel secondo si discute sul ruolo innovativo e democratizzante dei social (in particolare di Instagram); nel terzo, sono in gioco alcuni aspetti della vita privata della Ferragni (la famiglia, il matrimonio e la maternità). Il reclutamento dei testimonial è massiccio: funzionari esecutivi di case di moda, altre influencer (a partire, naturalmente, da Paris Hilton), scrittori, esperti di comunicazione social.
Le scene (per chiamarle così – ma in realtà sono qualcosa di simile a servizi di cronaca rosa, o a dirette social) sono intervallate da immagini di lei bambina e adolescente, girate da sua madre. In questo modo, scopriamo l’unica cosa davvero interessante: la signora, in qualche modo vicina al mondo della moda (ma non ci si dice con quali risultati, e con quali frustrazioni) era ossessionata dall’idea di riprendere la vita delle proprie tre figlie, e portava con sé in ogni occasione una telecamera, per quanto non troppo maneggevole rispetto a quelle dei nostri smartphone.
La prima sezione vorrebbe mostrare come l’ascesa inarrestabile della Ferragni, dalla nascita del blog in poi, si deve solo a lei stessa, e l’intuito e la passione femminili siano più che sufficienti a costruire un impero da 40 milioni (“Non mi serve un uomo” la sentiamo dire). Lo stesso Fedez è presentato come un principe consorte un po’ goffo, che assume però un ruolo fondamentale nella parte “privata”.
Il legame tra la seconda e la terza sezione sta nel fatto che la condivisione viene presentata come valore assoluto, forma di mutuo soccorso (se ognuno mette in pubblico ciò che gli accade, sarà più facile scambiarsi le proprie esperienze) in cui il narcisismo (pure ammesso – e ci mancherebbe…!) viene sostanzialmente neutralizzato dalla funzione morale della comunitarietà.
Chi non è interessato – ci si dice – può semplicemente fregarsene (ma davvero si può?). Gli haters, invece, possono creare problemi, ma non sono nemici. In base a questo principio viene giustificata anche l’esposizione totale del figlio della coppia, Leone, giacché nascondere qualcosa in un ambiente in cui tutto è in vista sarebbe incoerenza, e darebbe un potere al giornalismo scandalistico, laddove lo scoop è semplicemente impossibile in una situazione in cui il bambino è continuamente esposto, e senza mediazioni, dai suoi stessi genitori.
Rispetto a qualcosa del genere, gli strumenti classici che la semiotica elabora tra gli anni ‘50 e ‘60 per “leggere” la cultura popolare servono solo fino a un certo punto. L’echiana Fenomenologia di Mike Bongiorno funziona solo per contrasto. Infatti, in barba alle ripetute affermazioni di “normalità” come segreto del successo, la protagonista non è un’everygirl (come Mike Bongiorno era l’everyman): è (presentata come) evidentemente superiore, letteralmente adorata dai followers, e ammirata da coloro che sono ammessi al suo cospetto. Non ci dice, come Bongiorno: “Voi siete Dio, restate immoti”, ma all’opposto, ci incoraggia a darci da fare, a intraprendere una strada in cui non c’è posto, però, che per ruoli minori, sicché la prospettiva è quella di diventare al più una pallida imitazione.
Nel film, infatti, si dicono delle cose, ma se ne mostrano molto più chiaramente delle altre, per certi versi opposte. Si dice che Chiara Ferragni è una ragazza di provincia come altre, che è semplicemente un prodotto della democratizzazione introdotta dai social, che ha gli stessi problemi e gli stessi desideri di chiunque altro; ma si mostra che il personaggio è su un altro livello rispetto ai comuni mortali, inarrivabile e inscalfibile da qualsiasi accidente terreno, predestinata per inaugurare una nuova era. Insomma, una sorta di Madre Teresa di Calcutta fondatrice dell’ordine delle fashion bloggers, Nostra Signora di Instagram scesa in terra a miracol mostrare.
C’è dunque un genere cui fare riferimento, che non è propriamente cinematografico, ma, come è stato fatto notare, ha forti affinità con il cinema (per esempio, con un certo Buñuel): è l’agiografia – la testimonianza della vita dei santi, volta a partecipare in qualche modo della loro grazia. L’accenno allo “storytelling senza il conflitto”, buttato lì nella seconda parte, va preso molto sul serio, e l’agiografia può essere una chiave. Essa, infatti, non si conforma ai meccanismi “classici” di una storia: nelle esposizioni medievali delle vite dei santi, spesso non vi sono un avversario, un obiettivo, una prova o una consacrazione decisivi (una peripezia), ma troviamo piuttosto una serie di flash, o episodi. Persino il martirio è presentato soltanto come un episodio tra gli altri, ultimo solo in ordine di tempo. Santi, insomma, si nasce, non si diventa. Il santo sembra uno di noi, ma non è come noi, e lo mostra in ogni occasione: ogni suo agire è un’epifania, e anche l’apparente normalità esibisce uno speciale rapporto con il divino, presso il quale il santo intercede per noi.
Chiara Ferragni, per come viene presentata nel film, è dunque una santa. Ma si tratta pur sempre di una santa social, che resta tale anche nella nuova veste. La promessa di s-postaggio (unposting) contenuta nel titolo, per cui il personaggio dovrebbe essere sottratto alla dimensione dei post sui social, e in qualche modo reso più accessibile e più “vero”, non si concretizza, e il tutto funziona in realtà solo come spostamento, rilocazione (nel senso di Casetti, quando rimodula la nozione di ri-mediazione proposta da Bolter e Grusin) su altro mezzo.
Ciò che vediamo della protagonista è ancora affine ai suoi post, ma lo vediamo al cinema. Il principio social della diretta o della storia viene rispettato nei suoi canoni temporali (il film è rimasto nelle sale per due giorni, dopodiché sarà disponibile in streaming – ma a quel punto sarà inesorabilmente obsoleto), ma non in quelli spaziali. Chiara Ferragni è spostata (ma non s-postata) sul grande schermo, e questo è l’evento vero e proprio – un po’ come quando, durante certe feste paesane, il simulacro di un santo o di una santa viene spostato da dov’è, e portato in giro per un tempo festivo, limitato e ben definito.
L’unica differenza è che, in questa sagra, l’unico sopra i 25 anni (e l’unico maschio, a parte un ragazzo che non staccava gli occhi dal telefono) ero io.
Riferimenti bibliografici
J.D. Bolter, D. Grusin, Remediation, MIT Press, Cambridge (MA) 1999.
U. Eco, Diario minimo, Bompiani, Milano 1963.
B. Terracciano, Social Moda, Franco Angeli, Milano 2017.