Chissà perché uno psicanalista junghiano s’interessa di fotografia documentaria. L’ultimo libro di Luigi Zoja – già presidente dell’Associazione internazionale di psicologia analitica, autore di libri internazionalmente noti, fra cui Il gesto di Ettore (Bollati Boringhieri, 2016) e Contro Ismene (Bollati Boringhieri, 2009) – è presentato dall’editore, in prima e in quarta di copertina, come un contributo all’attuale dibattito sulla post-verità, aperto in Italia da Maurizio Ferraris.

In effetti, la prima parte del volume è dedicata a immagini notoriamente impegolate nel problema deontologico della manipolazione del profilmico: Il miliziano morente di Robert Capa (Spagna 1936), pur essendo l’icona assoluta del fotogiornalismo di guerra – il suo “evento originario” nel senso in cui lo è Shoah di Lanzmann (1985) –, è non solo moralmente ambigua (in quanto inaugura il “voyeurismo della uccisione”) ma probabilmente fasulla quanto il nome del suo autore; l’azione dei marines che piantano la bandiera americana (Iwo Jima 1945) è stata ripetuta a favore dell’obiettivo di Joe Rosenthal – come si vede nel film di Eastwood Flags of Our Fathers (2006) – così come l’azione dei sovietici che piantano la bandiera comunista in cima al Reichstag (Berlino 1945) è un remake messo in scena dal fotografo Evgenij Chaldej; e così via procedendo sulla strada delle fake news. Ma il problema non è nuovo, ed è già stato affrontato in quanto tale – si pensi solo al contributo di Michele Smargiassi, Un’autentica bugia (Contrasto, 2009), risalente a un decennio fa –; dunque, quale sarebbe lo specifico di un approccio psicanalitico alla fotografia e alla sua “verità”?

Per Zoja la fotografia (la “grande fotografia”) è il più denso dei media e, contrariamente al cinema, ha carattere di intransitività (blocca la narrazione) e maieuticità (assegna allo spettatore l’onere delle deduzioni). Ma c’è di più:

L’immagine unica e fissa, simbolicamente forte, sta più in alto di quella che si muove. Diciamolo con altre parole: certe fotografie – non a caso chiamate iconiche – trascendono l’attualità e si avvicinano alla religione più di quanto può avvenire con il cinema. In questi casi, il loro semplice esistere è ancora più importante del fatto che vengano contemplate (Zoja 2018, p. 11).

Nella modernità solo alla foto si tende a prestare una fede che potrebbe contenere residui religiosi: dall’occhio di Zeus all’occhio di Zeiss, direbbe Fontcuberta. Ma se nel Novecento l’opinione pubblica è condizionata da fotografie iconiche, ciò è possibile perché «nell’inconscio collettivo moderno e secolarizzato, persiste una controfaccia simmetrica del bisogno religioso» (ivi, p. 13): il che significa che le immagini “fondanti” sono a loro volta fondate su (o affondate nel) l’inconscio collettivo, che continua ad essere pur continuando a divenire. Zoja non spiega cosa sia questo “strato di psiche universale” detto “inconscio collettivo”, però suppone che nella modernità laica

quest’ultimo tenda sempre più a far scorrere l’occhio orizzontalmente: i valori del cielo sono stati in gran parte aboliti. Poiché questa rimozione della verticalità segna il nostro rapporto col mondo, essa non poteva non essere riassunta negli strumenti che ci fanno conoscere il mondo: così, determinano quello che chiamiamo inconscio ottico, o inconscio fotografico (ivi, p. 58).

Ecco qui una saldatura tra Jung e Benjamin, non esplicitata ulteriormente (Zoja attribuisce l’espressione “inconscio ottico” a Régis Debray, pur avendo Benjamin in bibliografia) e proprio per questo degna di un approfondimento. Se «la fotografia è un segno strutturato dall’inconscio tecnologico del mezzo fotografico» (Vaccari 2011, p. 11), allora la catena delle cause risale dalla foto alla macchina fotografica, dall’inconscio ottico all’inconscio collettivo. Per il teorico dell’inconscio tecnologico, l’incompatibilità strutturale fra la fotografia e il potere risiede proprio nell’impossibilità d’imporre una regia alle informazioni involontarie: anche sotto il nazismo – e un caso famoso è quello del “bambino di Varsavia” – «è accaduto che il medium è andato oltre le intenzioni di chi aveva creduto di servirsene e ha decongestionato e liberato lo sguardo appannato dall’ideologia costringendolo a vedere più di quanto voleva e sapeva» (ivi, p. 36). Invece lo psicanalista, rilevando come l’immagine del 1943 (che contiene il bambino del ghetto ebraico come parte di un’inquadratura più ricca) sia diventata iconica solo quarant’anni dopo, ipotizza che «l’inconscio ottico dominante potrebbe aver avvertito il fascino complesso, estetico ed etico insieme, della foto» (Zoja 2018, p. 84); col che lascia intendere che l’inconscio dominante è quello dei vincitori.

Pur essendo interessato alla figura del bambino-vittima come nuova icona del mondo post-eroico, ben espresso da fotografie celebri come la Napalm Girl (Vietnam 1972) di Nick Út (di cui si dice che fece perdere agli USA la guerra del Vietnam), Luigi Zoja si ferma davanti a “l’immagine estrema” del corpo morto, evitando di pubblicare (e di discutere) la foto – anzi “le” foto – di Alan Kurdi, il bambino siriano annegato nel 2015 durante una delle tante ondate migratorie nel Mediterraneo. Invece proprio queste immagini sono pubblicate e discusse da Fausto Colombo, direttore del dipartimento di Scienze della comunicazione e dello spettacolo presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, nella sua Indagine su fotografia e compassione che è una sorta di diario sul punctum (nel senso di Barthes) che una determinata immagine mediatizzata provoca sulla sensibilità di un teorico della comunicazione. Colombo ricostruisce il viaggio della famiglia Kurdi (cioè restituisce una “storia vera” ad un’immagine tendenzialmente intransitiva e maieutica) ma soprattutto il viaggio di una foto – quella della professionista turca Nilüfer Demir dell’agenzia DHA – che attraverso i rilanci della rete telematica globale (l’inconscio collettivo è Twitter?) finisce col diventare «un’icona universale» (Colombo 2018, p. 18), «un simbolo» (ivi, p. 22) ma anche un “motivo” che viene rielaborato dalla creatività internettistica.

In ogni caso, la viralizzazione delle immagini di Alan contiene in sé gli elementi di un’urgenza morale: la forza simbolica che esse ospitano non permette la loro semplice trasmissione, né le facili ironie dei social, ma stimola la pietà e il giudizio. E questo giudizio morale trasformerà presto tali fotografie in qualcosa di più di semplici immagini, e amplificherà la loro energia fino a renderle disponibili per l’ingresso profondo nella memoria collettiva, l’ultimo passaggio che trasforma un semplice oggetto in parte di una cultura (Colombo 2018, p. 36).

La memorizzazione pubblica è dunque la causa della trasformazione di “ricordi condivisi” in “simboli universali”, ma forse è anche vero il contrario: il potere di penetrazione di un’immagine nella memoria collettiva è direttamente proporzionale al grado di empatia che essa suscita risuonando nell’inconscio collettivo. Senonché tutta questa “fermezza” si scontra col carattere fluido delle immagini nella modernità liquida tenuta insieme dai sistemi di comunicazione: basta che uno tsunami di nuove immagini sommerga la pretesa icona, basta che parole d’ordine nuovo riconfigurino la distanza empatica, ed ecco – la pacchia è finita.

Resta l’archivio, vero inconscio ottico collettivo, dove non fa differenza tra fotogiornalismo e finzione artistica, e il corpicino riverso del piccolo Alan dalla maglietta rossa fa il paio con il perturbante Pinocchio in calzoncini rossi che, nell’opera di Maurizio Cattelan Daddy Daddy (del 2008), affoga nell’acqua con le braccia aperte a croce. Eternamente morto, forever Jung.

Riferimenti bibliografici
F. Colombo, Imago pietatis, Vita e Pensiero, Milano 2018.
F. Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico, Einaudi, Torino 2011.
L. Zoja, Vedere il vero e il falso, Einaudi, Torino 2018.

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