Uno spettro si aggira per le librerie: lo spettro di Marx per Lacan. Tutte le potenze si sono coalizzate in una sacra caccia ai concetti che compongono questo ricco “Vocabolario di economia libidica”: psicoanalisti, filosofi, clinici e ricercatori, studiosi del marxismo e della psicoanalisi chiamati a raccolta da tutto il mondo, o quasi tutto.

Questo libro di oltre cinquecento pagine è uscito per la prima volta in lingua inglese nel 2022 a cura di Carlos Gomez Camarena, Christina Soto van der Plas, Edgar Salazar e David Pavon-Cuéllar. Raccoglie ventotto voci in cui il pensiero di Karl Marx incrocia e si misura con quello di Jacques Lacan. È un’esigenza che si sentiva da tempo, in particolare qui in Italia, dove mancava uno strumento che ci potesse guidare lungo i binari dell’economia libidinale – o libidica, se preferite. E il gruppo di lavoro che si è occupato della traduzione italiana ci ha messo del suo, integrando la versione inglese con due voci extra, firmate da Federico Chicchi e Paola Mieli, e con la prefazione di Pietro Bianchi. Il risultato (mi si perdoni il campanilismo) è persino migliore dell’edizione originale, specie se consideriamo l’accattivante veste grafica concepita da Paginaotto edizioni, che gli ha dato il taglio di un librone classico, ma con una copertina che sembra ricavata dai migliori poster di Twin Peaks.

Diciamolo subito però: definire un simile lavoro un “vocabolario” è forse sviante e senza dubbio riduttivo, perché ciascuna voce costituisce in realtà un saggio a sé stante. Leggerete di alienazione, proletariato, comunismo, lavoro, feticismo, denaro, eppure non avrete mai la sensazione di girare intorno agli stessi concetti. Semmai, si tratta di un vocabolario dinamico, che pur essendo frutto della collaborazione di decine e decine di autori diversi scongiura con successo il peccato mortale di questo genere di iniziative, il difetto che rischia di rendere un simile libro obsoleto dopo nemmeno venti pagine di lettura: la ripetitività. Quella sovrapposizione di discorsi che le operazioni mal riuscite giustificano dicendo che non si può parlare di questa cosa senza riferirsi anche a quest’altra, e così via, fino a murarsi vivi in un labirinto di specchi, una sorta di tiritera autoreferenziale che ripete le stesse frasi riformulandole di volta in volta in modo diverso. Esattamente come sto facendo io da circa un paio righe, ecco. Rallegratevi, perché in Marx per Lacan non vi capiterà.

Nella più tradizionale delle occasioni, avrete a che fare con trattazioni in parallelo, che tengono Marx per un piede e Lacan per l’altro, facendo luce sia sulle loro affinità che sui loro punti inconciliabili. Lo vediamo in voci particolarmente impegnative, come quelle di “alienazione” (Ben Gook e Dominiek Hoens) o di “disagio” (Nadir Lara Junior). Nelle pagine più originali, invece, sarete trascinati in un’operazione di ibridazione che traspone il lavoro di entrambi i nostri protagonisti in un discorso estremamente compatto, che riesce ad appassionare i neofiti e a ispirare i veterani della materia: si vedano soprattutto i lemmi “feticismo” (Federico Chicchi) e “lavoro” (Samo Tomšic), “segregazione” (Jorge Alemán, Carlos Gómez Camarena) e “storia” (Adrian Johnston).

Altro punto di forza dell’edizione italiana è nella scelta del titolo, che piuttosto che una traduzione è una rielaborazione che funge anche da dichiarazione di intenti: Marx per Lacan, e non l’originale “Marx attraverso Lacan”. È una presa di posizione che ci viene spiegata in una nota anticipatoria da Lorenzo Curti per «sottolineare la lente lacaniana che prevale all’interno del testo» (C.G. Camarena, C.S. van der Plas, E.M.J. Salazar, D. Pavon-Cuéllar 2024, p. 33). Constatazione corretta, oltre che onesta. Partiamo dalle ovvietà: linea del tempo alla mano, Marx è nato alcuni decenni prima di Freud ed è morto quasi vent’anni prima che Lacan nascesse. Ai tempi di Freud, il suo lascito era forse ancora troppo fresco per i cultori dell’inconscio.

La psicoanalisi deprecava il comunismo e resisteva a ogni possibilità di dialogo con la teoria marxista. I comunisti, cosiddetti eredi di Marx, non erano da meno. La psicoanalisi puzzava per loro di borghesia, di ideologia classista che ribadiva anziché minare le disuguaglianze sociali. Una malattia, per dirla con una celebre battuta di Karl Kraus, di cui crede di essere la terapia. Di questa insofferenza reciproca ne sapeva qualcosa Wilhelm Reich, che per aver osato accostare le due dottrine anzitempo finì per stabilire un record a oggi ancora imbattuto: cacciato dalla società psicoanalitica viennese, radiato dal partito comunista tedesco. (Per inciso, e tanto per non sentirci più tolleranti dei nostri predecessori, al momento nessuno si è ancora degnato di ristampare Materialismo dialettico e psicoanalisi).

Al tempo di Lacan, lo scenario si ribalta. Psicoanalisi e marxismo si ritrovano entrambe allineate a sinistra, per lo meno in Francia. Se prima era troppo presto, ora è troppo tardi. Per i gusti di Lacan il marxismo è penetrato in ogni anfratto della cultura, processo che ne ha inevitabilmente disinnescato la carica eversiva. Chi inneggiava alla sovversione del sistema si trova ora a pontificare da dietro una cattedra. Tutti, a modo loro, dicono la loro sul Capitale, anche se non lo hanno letto. Invocano la rivoluzione senza sapere di cosa parlino. Sproloquiano sul proletariato senza mai essere scesi in strada. I freudo-marxisti lo fanno sorridere, perché ce ne vuole – pensava Lacan – a mettere insieme il pensiero di due autori senza riuscire a rendere minimamente giustizia a nessuno di essi.

Di fronte a questo trionfo ideologico della teoria marxista e a una psicoanalisi che galoppa con il pugno alzato verso la cultura capitalista del benessere, Lacan cerca piuttosto di apparire un “marxiano”, un lettore cinico, talvolta opportunista, che estrae dal testo ciò di cui ha bisogno senza il timore di ricadere nell’eresia interpretativa. Non tanto perché avesse grande stima di Marx, quanto piuttosto perché, volente o nolente, era costretto a riconoscere che alcuni dei concetti fondamentali della psicoanalisi li aveva inventati proprio il filosofo tedesco, anticipando lo stesso Freud. Le voci di Nadia Bou-Ali sul plusgodere e di Antonio Quinet sul sintomo, tanto per citarne due, lo spiegano con lucida precisione.

È una sfumatura di cui prendere atto, che Lacan espone nel Seminario XVIII: è «Marx che in definitiva ha assicurato al capitalismo una sopravvivenza piuttosto lunga» (Lacan 2010, p. 45). Tradotto: quelli che Il Capitale lo hanno letto davvero, e per giunta l’hanno capito meglio degli altri, sono proprio i capitalisti. Si tratta di un paradosso che fa venire il singhiozzo anche alla psicoanalisi, che nel suo tentativo di calpestare, mortificare, sloggiare l’Io, ha finito involontariamente per tracciare i contorni dell’individualismo consumista di cui il capitalismo si nutre da decenni. Si pensi a Edward Bernays, nipote di Freud, che esportò la psicoanalisi oltreoceano per farne un poderoso meccanismo di propaganda pubblicitaria. Oppure prendiamo la psicoanalisi americana del secondo dopoguerra, che sovrappone senza soluzione di continuità salute e lavoro, armonia e capacità produttiva. Quella stessa psicoanalisi che, nel momento in cui ha tentato di superare i propri limiti di servizio borghese per abbracciare gli ideali democratici, si è tramutata in una disciplina del richiamo alla norma, nell’ortopedia dell’inconscio denunciata da Lacan già nei suoi primissimi seminari.                                                                                                                                                

La bilancia del libro pende dunque inesorabilmente dal lato di Lacan, e non solo per una questione cronologica. Potrei sbagliarmi, ma si tratta della stessa asimmetria che mi sembra di percepire nell’ambiente accademico: è più facile per un lacaniano indirizzarsi a Marx che per un marxista fare altrettanto con Lacan. O forse, semplicemente, perché la psicoanalisi può essere marxiana senza essere necessariamente marxista. Come se, alla fine dei conti, l’incrocio tra i due autori non miri ad accendere in noi lettori una qualche forma di coscienza di classe, quanto a dimostrarci che Marx, per una psicoanalisi che si voglia seria, è inconscio.

Riferimenti bibliografici
J. Lacan, Il seminario. Libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante 1971, Einaudi, Torino 2010.  

Marx per Lacan. Vocabolario di economia libidica, a cura di C.G. Camarena, C.S. van der Plas, E.M.J. Salazar, D. Pavon-Cuéllar, Paginaotto, Trento 2024.

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