È innanzitutto la musica ad avvisarci che qualcosa di grandioso, di spettacolare, sta per accadere; i suoni (dei Mokadelic) sono gli stessi, li riconosciamo; eppure c’è qualcosa di diverso, di nuovo, di maestoso, una tensione mai provata tra le strade di Gomorra, come se si stesse per sprigionare una forza, sì tragica, ma di una vitalità incontenibile. La terra trema e una donna disperata corre incontro alla morte per salvare suo figlio; Ciro sprofonda nella acque che bagnano quella città tanto desiderata, mentre la madre risale verso il piano alto di un palazzo che sta per crollare. «O terremoto è ‘o volere di Dio, fa bene alla terra», Ciro lo ha imparato a sua spese, e mentre la donna, che lo protegge, bambino, viene risucchiata dalla terra, il boss riaffiora sulla superficie dell’acqua, miracolosamente salvo dopo un colpo mortale, feroce, che non sembrava potesse lasciare scampo. Ciro è rinato, Ciro è vivo, Ciro è l’immortale.

Siamo di fronte all’ultimo, ennesimo, punto di non ritorno di Gomorra – La serie. Ma non soltanto per la forza di un colpo di scena, in parte annunciato, in parte mistificato, che sicuramente fagocita l’attaccamento al racconto degli appassionati (e dopotutto lo avevano previsto, a lungo si è discusso online se Ciro fosse vivo o morto). Ciò che davvero colpisce è la capacità del racconto, di aprirsi per l’ennesima volta, di creare una nuova configurazione, che tiene insieme, di nuovo, il dispositivo narrativo e il dispositivo mediale. In Gomorra le due cose vanno sempre di pari passo. La morte di Ciro ha rappresentato, narrativamente, il sacrificio fraterno necessario per tenere salda la famiglia criminale, che faticosamente aveva ricomposto e rispetto alla quale, però, si è sempre sentito ai margini. E fin dall’inizio, Ciro, è stato il personaggio liminare, dentro e fuori dal mondo chiuso di Gomorra: nel suo essere guardiano della soglia lasciava presagire un “al di là” dello spazio criminale, non presente nelle vicende narrate, che ha trovato forma nelle svariate modalità attraverso cui gli spettatori hanno preso parte al racconto. La sopravvivenza della serie, mi è capitato di scriverlo altrove, poteva essere garantita solo dal modo in cui narrazione e partecipazione, il formato narrativo e quello mediale, si sarebbero incontrati nuovamente.

E, allora, quale modo migliore di riattivare la partecipazione degli spettatori portandoli tutti fisicamente al cinema? I dati parlano di incassi record; una sorta di film-evento, con annessa comunicazione social e tour di Marco D’Amore in giro per i cinema di tutta Italia, per assistere, insieme, alla rinascita di un personaggio così respingente e attraente allo stesso tempo. Da questa prospettiva – ed è forse ormai arrivato il momento di prenderne consapevolezza – Gomorra rappresenta un modello produttivo e creativo unico ed innovativo, non soltanto per il sistema italiano, ma per quello seriale tout court. Gomorra è un ecosistema narrativo distribuito su più dispositivi e prassi capace di esaltare e rimediare, nell’ambito di una logica produttiva, narrativa e creativa d’insieme, ogni specificità mediale. Un sistema ibrido per il quale non risulta più efficace segnare una contrapposizione netta, non soltanto tra cinema e serialità, ma neanche più ormai tra le forme lineari o non di tv; Gomorra è la dimostrazione che nell’ambito della variegata e diffusa galassia post-cinema le serie possono creare veri e propri sistemi in cui l’esperienza audiovisiva del racconto di volta in volta si rinnova.

Ma la diffusione e distribuzione mediale del racconto non può che rispecchiare e valorizzare la sua capacità di riconfigurarsi, cioè di esplorare nuove direzioni e forme, allargando o riperimetrando il suo mondo; e per fare ciò, questa volta, si è agito sul tempo. L’immortale, nel rilocarci fisicamente fuori dalla serie, contemporaneamente ci trasporta in una dimensione temporale inedita per Gomorra: laddove il racconto della serie sembra essere schiacciato totalmente su un perenne presente senza profondità, in cui non c’è un prima e non c’è un dopo, perché quello che conta è unicamente l’appagamento momentaneo del desiderio di potere, il film indaga un nuovo tempo, aprendo così uno scarto, in quell’unità spazio-temporale, in quel mondo, che è Gomorra. Questo, sicuramente, è l’aspetto più riuscito del film: attraverso un espediente narrativo, tutto sommato prevedibile, l’incontro di Ciro con Bruno, l’ennesima figura paterna che lo ha tradito e lo tradirà di nuovo (e non possiamo non cogliere un filo rosso che lo lega all’ultimo film di Bellocchio), L’immortale apre uno squarcio nel passato buio di Ciro. E si tratta di un passato che possiamo collocare precisamente nella storia della criminalità organizzata napoletana e più radicalmente nella storia del nostro paese: sono gli anni ’80, quelli seguiti al terremoto in Irpinia, gli anni del contrabbando di sigarette e dei furti delle autoradio.

Il film, allora, con quella vocazione realista tipica dell’universo Gomorra, e con una sorta di gusto della retromania, oggi così forte nell’immaginario pop (pensiamo alla musica), riesce a restituirci i colori e i suoni di una Napoli diversa, seppure non così lontana, in cui si muove il vero protagonista del film, Ciro bambino. Lo scarto che si apre tra il presente e il passato è quello che c’è tra lo sguardo innamorato del bambino che ascolta la fidanzata di Bruno cantare una canzone d’amore e quello del boss che sa di non avere più niente da perdere. L’innocenza di Ciro, che sembra richiamare alla memoria altri bambini del cinema italiano, è tutta nell’inconfessabile speranza che le cose si sistemino, la stessa cantata da Nto’ e Lucariello nei titoli di coda della serie, nel desiderio vivo e nella ricerca affannosa di una normalità, di una famiglia ad esempio. E a quell’innocenza del bambino, che sta per diventare un malvivente, corrisponde il processo di trasformazione di un’organizzazione criminale che si appresta a diventare sistema e a fare della guerra il suo dispositivo di potere. 

Se allora il film soffre nel tempo presente del racconto, perché come spesso accade quando il formato seriale viene ibridato con quello del film, non si riesce a ricreare un equilibrio tra dilatazione e accelerazione del racconto, attraverso l’esplorazione del passato, invece, riesce a dare forma ad un’ulteriore dimensione del suo protagonista, che paradossalmente è proprio quella della morte. Ciro Di Marzio è già morto, lo ripete spesso, e la morte che si porta dentro è di quel bambino, scampato alla violenza della catastrofe naturale, ma non a quella della criminalità.

Ecco allora che il ponte tra la quarta e la quinta stagione è stato gettato, siamo pronti a ritornare dentro la serie; non ci resta che aspettare l’ultimo definitivo atto di questo grande racconto senza eroi.   

Riferimenti bibliografici
M. Guerra, S. Martin, S. Rimini, a cura di, Universo Gomorra. Dal libro al film, dal film alla serie, Mimesis, Milano 2018.
E. Morreale, Bambino, in Lessico del cinema italiano. Vol.1, Mimesis, Milano 2014. 
G. Pescatore, a cura di, Ecosistemi narrativi. Dal fumetto alle serie tv, Carocci, Milano 2018.

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