Quanto può essere grande l’amore tra madre e figlio? Crialese sembra darci una risposta: grande come l’immensità. E questa immensità è piena di musica e silenzio, di risate e lacrime, di detto e non detto, di promesse mantenute e infrante, di comprensione e rifiuto, di fantasia e realtà, di gioia e infelicità. Il mondo intero si concentra in questo unico, profondo, legame, che Crialese torna di nuovo a raccontare. Come in Respiro, infatti, ci troviamo di fronte a una madre, Clara, fuori dagli schemi (bravissima Penelope Cruz), circondata dall’amore di tre figli, ma soffocata dall’ottusità della famiglia e dall’aridità di un rapporto coniugale segnato dall’incomunicabilità e dalla violenza. E anche in questo caso, come in Respiro, la madre ha un rapporto speciale con uno dei tre figli, Andrea, un rapporto di reciproca comprensione e protezione, di complicità, confronto, gioco. Ma qui Crialese aggiunge un ulteriore elemento, autobiografico, come lui stesso ha dichiarato: Andrea in realtà è Adriana, una ragazzina di dodici anni che sente di essere un maschio e che fa di tutto per affermare la propria identità dentro e fuori le mura domestiche.
Come con Monica di Palloaro, altro film italiano in concorso, anche con L’immensità, il cinema italiano affronta il tema della transizione visto nella cornice del microcosmo famiglia. I due film sono speculari: Monica racconta la storia di una donna transgender, ormai adulta, che si deve confrontare con l’incapacità della madre di accettarla e con il tentativo di colmare questa sorda distanza; ne L’immensità, invece, è proprio attraverso il rapporto con la madre che Adriana, ancora bambina, trova riconoscimento e accettazione, e ciò che è in gioco qui sembra essere piuttosto la necessità di saper andare oltre questo amore immenso, senza però perdere sé stessi, il bisogno di “dirsi addio”, senza farlo davvero, “perché tu vivi in me”, come recita il testo della canzone che Patty Pravo e Johnny Dorelli cantano insieme a “Senza rete” e che torna due volte nella parte finale del film.
Proprio la televisione e il varietà musicale di fine anni ’60 configurano lo spazio in cui questi due personaggi possono esprimersi liberamente, lo spazio in cui essi trovano rispecchiamento di quella immagine di sé che gli altri non vedono o non vogliono riconoscere. O meglio ancora: lo spazio in cui questa immagine prende forma nel suo essere variabile, instabile, vera e finta allo stesso tempo, autentica e inautentica, sempre in trasformazione.
Nelle prime sequenze vediamo Clara apparecchiare la tavola insieme ai figli sulle note di Rumore: i bambini e la madre cantano, ballano, interpretano la performance della Carrà, sono felici; ma l’energia vitale di quel momento si rompe quando arriva il padre e la tavola si trasforma nel luogo in cui precipita un’asfissiante e silenziosa tensione.
Da lì in avanti il film ci mostrerà questa singolare, ma anche universale, vita familiare in cui le tensioni tra moglie e marito vengono acuite dalle “stranezze” della figlia, che secondo il padre sono da attribuire alla cattiva educazione impartita dalla madre. Adriana/Andrea, nel frattempo, infrangendo un divieto materno, oltrepassa il canneto di fronte casa e incontra Sara, di cui si innamora. Quando la segretaria del marito va da Clara per chiederle aiuto, confessando di essere incinta, il precario equilibrio che le permette di resistere a quella infelicità salta e un incidente domestico la convincerà ad allontanarsi da casa per essere ricoverata in una clinica psichiatrica. Prima di partire Clara si fa promettere da Adriana di non andare oltre il canneto, perché pericoloso, ma quando Clara sarà di nuovo a casa Adriana sente di poter finalmente infrangere la promessa fatta, scoprirà che la colonia di operai che viveva lì non c’è più e che Sara è andata via.
Le immagini televisive puntellano questo racconto, escono dalla propria cornice e si contaminano con lo spazio della finzione, diventando lo strumento, il medium, attraverso cui il regista dà forma allo statuto ibrido delle due protagoniste. Ogni elemento della vita vera – dai pronomi utilizzati ai grembiuli scolastici, dai ruoli sociali a quelli familiari – ripropone opposizioni binarie che non riescono ad esaurire la complessità di vissuti e sentimenti: quella tra adulto e bambino (bella la scena in cui al pranzo di natale Clara si nasconde sotto al tavolo con i figli per giocare), tra madre e figlia, tra moglie e marito (con tutto ciò che questo poteva significare negli anni ’60), quella tra uomo e donna. Le immagini televisive, corrotte dalla finzione, sono il luogo in cui è possibile il superamento di ogni opposizione binaria, di ogni antitesi.
Nell’ultima parte del film, quando Clara è in clinica, Adriana vede in televisione l’esibizione a “Senza rete” di Patty Pravo, che canta la versione italiana di Love Story: Patty Pravo si trasforma in Clara e canta per la figlia: Grazie, amore mio, di aver sfidato tutto il mondo insieme a me, di aver cercato un’altra vita accanto a me di aver sbagliato e poi pagato anche di più. Insieme a me. Nel finale, sarà Andrea a sostituirsi a Johnny Dorelli, riproponendo la stessa canzone: si rivolge a Sara che gli ha fatto scoprire l’amore, ma è con la madre che sta duettando ed è da lei che si sta congedando.
L’immensità. Regia: Emanuele Crialese; sceneggiatura: Emanuele Crialese, Francesca Manieri, Vittorio Moroni; interpreti: Penélope Cruz, Luana Giuliani, Vincenzo Amato, Patrizio Francioni, Maria Chiara Goretti; produzione: Warner Bros. Entertainment Italia, Wildside, Chapter 2, Pathè, France 3 Cinema; origine: Italia; durata: 97′; anno: 2022.