Può una serie televisiva fungere da termometro delle paure contemporanee sul rapporto tra società, culture e tecnologie? Una risposta definitiva risulta di difficile elaborazione, ma, semmai un tale prodotto seriale dovesse esistere, si avvicinerebbe di certo moltissimo a Black Mirror (2011), la serie antologica che, alle prime due stagioni trasmesse da Channel Four da tre episodi ciascuna più uno speciale natalizio, ne ha aggiunta una terza da sei, commissionata e pubblicata da Netfix nell’ottobre 2016. La terza stagione rappresenta un banco di prova per la creatura di Charlie Brooker: esplorati alcuni degli effetti imprevisti dell’uso dei media digitali nelle stagioni precedenti in onda sull’emittente britannica, prova a ripetere l’impresa, stavolta per un pubblico globalizzato e già avvezzo alla narrazione delle storture della comunicazione digitalizzata del nuovo millennio.

Immaginari sociali

Per comprendere da dove (ri)parte la terza stagione di Black Mirror, occorre fare un passo indietro alle prime due stagioni. Segnata da un deciso imprinting della corrente distopica della letteratura britannica novecentesca, da Herbert G. Wells ad Aldous Huxley e Anthony Burgess, la serie affronta il nesso tecnologia-società attraverso i filtri espressivi di satira, distopia e drama, raggiungendo sublimi risultati in termini di humour nero e puntuale riflessione sui processi di adattamento degli individui ai mutati scenari mediali. Nel perseguire il progetto di raccontare le deviazioni postumane degli scenari sociali contemporanei, le sette storie in onda su Channel Four, compreso il glaciale special White Christmas, pescano a piene mani dentro il contro-immaginario della cosiddetta rivoluzione digitale, traducendo in fiction di avvincente tessitura alcune intuizioni rintracciabili negli studi maturati nell’ambito di filoni di ricerca come la teoria critica del web, il materialismo digitale, la Media Archaeology. Semplificando una serie di questioni di significativa complessità, si potrebbe dire che Black Mirror rende trasparenti gli smottamenti culturali che scuotono gli immaginari sociali in corrispondenza di salti antropologici che ridisegnano, alla radice, il rapporto tra corpi, tecnologie e ambienti.

Ma cosa si intende per immaginari sociali? Secondo Castoriadis (1995), gli immaginari sociali sono schemi, costruiti socialmente, che ci consentono di produrre consenso circa ciò che intendiamo come reale. Gli immaginari sociali si fondano su due caratteristiche fondamentali: la coerenza, ovvero la capacità di costruire una realtà dotata di unitarietà, e la completezza, in quanto capacità di evitare quanto più possibile contraddizioni tra la vita quotidiana e i metaracconti fondanti. In questa prospettiva, gli immaginari sociali favoriscono la coesione della società. Ebbene, il controllo sociale e l’autolegittimazione della realtà, garantiti da immaginari di questo tipo, entrano in crisi in momenti di particolare trasformazione del mediascape, ovvero quando un autentico mediashock (Grusin, 2017), come la radicale digitalizzazione degli apparati socioculturali, destruttura le forme del percepire, del conoscere e del comunicare, delineando un salto antropologico nell’interazione tra uomo, tecnologie e ambiente.

Fuga e distopia

Tuttavia, le nuove tecnologie dell’immaginario generano più immaginari della tecnologia, tra loro in contrapposizione. Se, da un lato, nel collasso degli immaginari sociali, si aprono faglie, foriere di affascinanti fughe verso territori di ridefinizione delle soggettività, dall’altro, lo scintillante regno di possibilità, in cui plasmare Digital Self finalmente scevri dai condizionamenti del controllo politico, ha come corollario ancor più brutali dispositivi tecnopolitici, che entrano in gioco di fronte alla mole di informazioni (Big Data) producibili e alla velocità di manipolazione delle stesse, personalità opache ai comuni mortali.

Black Mirror occupa proprio questo territorio simbolico liminale, di passaggio tra un assetto più o meno stabile degli immaginari sociali e una loro violenta riconfigurazione per effetto di forze tecnopolitiche esorbitanti. In realtà, come rileva Eliade, con la modernizzazione e il trionfo del razionale, gli immaginari generano produzioni culturali legate all’utopia e all’ucronia, in una sorta di reincantamento del mondo. Tuttavia, tale reincantamento del mondo, per quanto generatore di instabilità e squilibrio, è funzionale a una sorta di bilanciamento del controllo e dell’autolegittimazione indispensabile alla tenuta degli immaginari sociali. Gli immaginari tecnologici, nella loro doppiezza di simboli del progresso e del pieno e libero dispiegamento delle soggettività, per un verso, e inquietanti ambienti di controllo, dominio e sorveglianza, per l’altro, mettono a rischio gli assetti sociali consolidati.

In questa prospettiva, il primo episodio della terza stagione, Nosedive (Caduta libera), rappresenta una cruenta radiografia delle sociazioni del secondo millennio, fondate su sistemi di rating digitale, che, tramite apposite app, classificano l’umanità secondo punteggi, propedeutici all’accesso a beni, servizi e soprattutto relazioni privilegiate. L’utopia apparente di una società fondata sul rispetto e la reciproca fiducia, si rovescia, in tal modo, nell’ossessione al compiacimento altrui, in un’incubotica relazionalità quotidiana dominata dallo smartphone, come protesi dell’intero sensorio. Se il secondo episodio, Playtest (Giochi pericolosi) narra una forzosa ibridazione tra le dimensioni dell’esperienza reale e quelle dell’esperienza virtuale, sostanzialmente ignorando la lezione cronenberghiana di eXistenZ (1999), maggiore acutezza rivela il terzo episodio, Shut Up and Dance (Zitto e balla). Gli sceneggiatori richiamano qui saggiamente il meccanismo dell’attesa disattesa, cambiando di segno l’operato di feroci hacker, il cui obiettivo nel finale si rivela più “etico” di quanto non appaia nel corso della puntata, mentre costringono Kenny, il giovanissimo protagonista, e altre vittime di un ricatto digitale a misurarsi in prove via via più sanguinose. Il meme face con cui sanciscono il tradimento del patto con Kenny (non rivelare l’orrore pedopornografico) diventa l’icona potente di un sistema sociale, in cui i contesti collassano, scena e retroscena si mescolano e il privato è alla mercé di chi, per affare, vocazione o malinteso senso etico, si inoltra nei meandri, un tempo invalicabili, delle indicibili “perversioni” quotidiane.

Con il quinto e il sesto tassello della terza stagione, la serie sèguita a esplorare il lato oscuro dell’esperienza mediale digitalizzata, sottratta al libero sviluppo di relazioni individuali e pervertita per finalità sconosciute agli ignari cittadini. Il chip che maschera le visioni dei soldati in Men Against Fire (Gli uomini e il fuoco), trasformando in “infetti” quelli che in realtà sono poveri civili, costituisce l’esito di un processo di manipolazione del conflitto materiale tradotto in sempre più raffinate rappresentazioni tecnoespressive (un processo, a ben vedere, predigitale e, anzi, di lunga portata, che può risalire alla virtualizzazione del corpo a corpo resa possibile dall’invenzione delle armi da fuoco). Ciò che rende particolarmente scioccante la fortuita scoperta di uno dei militari, Stripe, è la qualità della manipolazione visiva e cognitiva che gli apparati tecnologici odierni rendono possibile. In questo specifico caso, tuttavia, le tecnologie digitali rafforzano gli immaginari sociali, anziché scompaginarli, essendo asservite agli obiettivi governativi. In Hated in the Nation (Odio universale) ad essere in questione è il meccanismo del tritacarne mediatico, per il quale ciascuno può mettere alla berlina chiunque altro, con conseguenze più o meno devastanti, a seconda della sfera di influenza dell’“accusatore”.

L’altro tempo dei media. Uno spiraglio di speranza

Quella che balugina nella quasi totalità degli episodi della serie è una castastrofe sociale, che infiamma l’esperienza spettatoriale, toccandone un nervo scoperto: sostanzialmente, gli assetti futuri appaiono intollerabili, perché non corrispondono agli attuali immaginari dell’organizzazione sociale. Infatti, la dimensione su cui si esercita con maggiore incisività il magistero dei realizzatori di Black Mirror è proprio quella temporale. Gli autori curvano con coraggio e determinazione il tempo solo apparentemente futuro della distopia su una dimensione, sì oltre il presente, ma dentro un orizzonte temporale percepibile, e anzi prossimo, quando non già sopraggiunto. Online è possibile rinvenire, con poco sforzo, una serie di eventi e ritrovati tecnoscientifici che concretizzano quanto profetizzato in Black Mirror.

Occorre tuttavia interrogarsi sugli effetti di una simile scelta di collocazione spazio-temporale della narrazione. La funzione essenziale della distopia va ricercata in un tentativo di arginare l’incertezza di fronte alle vorticose mutazioni tecno-antropologiche, fornendo coesione sociale a società individualiste. Il racconto distopico si relaziona, essenzialmente, con il sentimento di panico verso il futuro, che può generare sia l’autoreclusione in sacche di solitudine estrema, sia il tentativo di coagulare esperienze atomizzate dentro fragili relazioni comunitarie, il cui collante è appunto questa forma di terrore verso il futuro. In termini ancora più chiari: la distopia funge da avvertimento rispetto alla catastrofe sociale e il suo richiamo si espande con tanta maggiore forza quanto più è ridotto l’intervallo tra il tempo rappresentato e il tempo presente dello spettatore. Si tratta, tutto sommato, di una funzione conservatrice dell’immaginario, che, inducendo a temere che il futuro sia peggiore del presente, getta un’aura di inquietudine sul progresso tecnologico, sottratto al controllo individuale e probabilmente persino a una regolamentazione su base democratica.

Ma, al di fuori dell’orizzonte distopico, è possibile immaginare una funzione utopica e libertaria delle tecnologie? Jussi Parikka (2015), uno degli esponenti di spicco della Media Archaeology, sostiene che i media incorporano temporalità differenti da quelle umane (sebbene il suo discorso si iscriva nel nobile tentativo di ripensare il rapporto tra ecologia, cultura e sviluppo tecnologico su base materialista). Queste temporalità altre potrebbero contribuire a svelare spazi di realizzazione individuale oltre i limiti dell’organismo biologico, conservando attraverso un software i ricordi di persone defunte che continuano a rivivere in un elegiaco mondo virtuale. È quanto narra l’episodio San Junipero, il primo dell’intera serie a emanciparsi da una concezione esclusivamente distopica delle tecnologie digitali e a ripensarne criticamente le risorse, in un’ottica di concretizzazione di inedite possibilità esperienziali.

Riferimenti bibliografici
C. Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, Torino 1995.
R. Grusin, “Mediashock”, in Id., Radical mediation. Cinema, estetica e tecnologie digitali, a cura di a. Maiello, Pellegrini, Cosenza 2017.
E. Huhtamo, J. Parikka, a cura di, Media Archaeology: Approaches, Applications, and Implications, University of California Press, Berkeley-Los angeles 2011.
J. Parikka, A Geology of Media, University of Minnesota Press, Minneapolis 2015.

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