Robert Frank è stato un grande fotografo, noto come autore di un libro come The Americans, la cui edizione americana è del 1959, e porta la prefazione di Jack Kerouac. Edizione successiva di un anno a quella francese, che ancora conteneva dei testi scritti (Lincoln, Faulkner) ad accompagnare le immagini. Frank decide per l’edizione americana che le foto potevano sostenersi da sole, senza alcuna necessità della parola, al di là delle didascalie che indicavano il luogo dove erano state scattate.

Che cosa poteva sostenere da sola questa selezione di ottantatré fotografie tra le migliaia che Frank aveva scattato dopo un viaggio di mesi attraverso gli Stati Uniti?

Ciò che emerge in questi “americani”, colti nel loro quotidiano, è una certa eccentricità che ne identifica la singolarità, allo stesso tempo “umoristica” e “triste” (come ci dice Kerouac), in cui attestano la loro presenza al mondo. Una singolare eccentrica presenza umana, mescolamento di classi e di razze, restituita attraverso procedimenti compositivi anomali, prospettive sghembe, immagini fuori fuoco e mosse, poco illuminate, che mostrano dai due piedi su un tavolo in un ufficio postale del Montana ad una Movie premiere ad Hollywood, fino all’ultima foto in cui vediamo sulla “U.S. 90″ l’automobile con un faro acceso dello stesso Frank con la moglie Mary e il bambino.

È come se espressioni, posture, e prospettive in cui questi americani vengono colti, individuano qualcosa come un modo d’essere, in cui l’individuo o il piccolo gruppo sociale o anche solo un luogo non sono la deriva di un sistema sociale capitalistico, ma il modo in cui la vita umana viene ad espressione in date condizioni nella sua singolarità e marginalità. Un modo laterale, ma mai privo di rispetto nello sguardo di chi scatta per il soggetto fotografato.

Tant’è che nasce immediatamente interesse e curiosità per coloro che sono stati fotografati. Kerouac chiede a fine della sua prefazione, dopo aver sottolineato come Frank entri tra i grandi “poeti tragici del mondo”, nome e indirizzo di una ragazza fotografata: «And I say: that little ole lonely elevator girl looking up sighing in an elevator full of blurred demons, what’s her name & address?» (Frank 2008)

Ma Robert Frank è stato altro, oltre a The Americans. E a tale altro è dedicata la bella mostra del MoMA di New York, Life Dances On (dal titolo di un film di Frank del 1980), che si concentra sull’artista sperimentatore, un artista-tra: Europa (nasce in Svizzera) e Stati Uniti, fotografia e cinema, contesti urbani come New York e non urbani come Mabou in  Nova Scotia, di fronte all’oceano (“In Front of Me I Have the Sea”), dove Frank si trasferisce con la moglie pittrice nel 1970.

Ma soprattutto la mostra tematizza il passaggio dall’immagine statica all’immagine in movimento, dalla fotografia al cinema (a cui è dedicata anche una rassegna). L’immagine statica ad un certo punto a Robert Frank non basta più e il passaggio al cinema sembra naturale. È lo stesso Frank a commentarlo nel suo The Lines of My Hand, quando parla della serie di fotografie del 1958, From the Bus: «These photographs represent my last project photography. When I select the pictures and put them together I knew and I felt that I had come to the end of a chapter. And it was the beginning of something new» (2024, p. 11). 

E poi sottolinea come il cinema si differenzi anche per la vita del set, collettiva e non solitaria rispetto alla fotografia o alla scrittura: «The fact is, making films, you need help. You cannot sit down and write page by page. You need help, other people have to believe in you» (ivi, p. 163).

Questo “qualcosa di nuovo” che rappresenta il cinema inizierà nel 1959 con Pull My Daisy, il primo cortometraggio di Frank, co-diretto con il pittore Alfred Leslie, a cui parteciperanno Kerouac come voce narrante e Allen Ginsberg. Da lì la carriera di Frank cambierà.

Frank filmerà molto, anche della sua vita privata. Materiali non destinati ad essere visti (a cui la mostra dedica comunque una sezione, con un montaggio fatto per l’occasione), che porteranno anche traccia dei grandi dolori che attraverseranno la sua vita, come la morte della figlia in un incidente aereo. E poi montaggi di stampe cromogeniche o in gelatina d’argento ad indicare questa seconda fase sperimentale del suo fare artistico che riguarda una fotografia che non si occupa più di catturare il mondo in forma eccentrica nella sua umanità singolare e tipica, ma di esporre il carattere riflessivo ed inquieto dello sguardo e del suo rapporto con la realtà attraverso sperimentazioni di montaggio con la Polaroid, dove venivano aggiunte parole e scritte nei negativi delle immagini.

Detto questo, riconosciuta la novità sperimentale del “nuovo” Frank, quello successivo a The Americans, dobbiamo però dire che ciò che ci ha più emozionato della mostra è ancora ciò che ereditava del “vecchio” e del suo grande libro sugli americani. E dunque non solo la serie di foto scattate a New York da un autobus in movimento, con prospettive sghembe a cogliere chi sui marciapiedi ci stazionava o passava, ma anche il braccio che fuoriusciva dal finestrino immediatamente di fronte all’obiettivo, così come la serie magnifica di Fourth of July, Coney Island, con corpi soli o abbracciati a dormire di notte al buio sulla sabbia con niente intorno. L’immagine di un’America stanca dopo la festa. Ma un’America salda nella sua originalità individuale e autonoma, come ce l’ha restituita in modo forse ineguagliato l’europeo Frank.

Riferimenti bibliografici
R. Frank, The Americans, Steidl, Gottingen 2008.
Life Dances On. Robert Frank in Dialogue, MoMA, New York 2024.

Life Dances On: Robert Frank in Dialogue, 15 Settembre 2024 – 11 Gennaio 2025, The Museum of Modern Art, Manhattan.

*Immagine di copertina: Robert Frank. From the Bus, New York. 1958. Gelatin silver print, 13 15/16 × 13 1/4″ (35.4 × 33.7 cm). National Gallery of Art, Washington, DC. Robert Frank Collection, Robert B. Menschel Fund. © 2024 The June Leaf and Robert Frank Foundation.

Share