Ogni immagine esiste sulla soglia tra un “dentro”, la profondità della materia da cui emerge, e un “fuori”, la superficie attraverso cui si espone al mondo. Se dovessimo indicare con una freccia in quale delle due direzioni portano i disegni di Simone Massi, tracceremmo istintivamente una linea la cui punta spinge nelle profondità della rappresentazione, lì dove la stessa definizione di immagine cade lasciando il posto ad un magma che sta per farsi figura e tuttavia temporeggia sul confine tra quest’ultima e il pigmento vivo da cui proviene.
Ecco perché l’atto di fissare alcuni dei disegni di Massi nel libro di recente uscito per Minimum Fax, insieme alle tavole preparatorie dei diversi cortometraggi, rivela allo spettatore delle sue immagini in movimento la stabilità degli elementi che le compongono. Ognuna delle rappresentazioni, prima di farsi cinema ed essere per così dire “tirata” dagli estremi affinché si leghi nel montaggio a quelle successive, getta l’àncora in un frame che a quel movimento resiste. Forse la più grande forza dell’animazione di Massi è proprio questa: le sue immagini sono vive prima di essere animate, e la vita di ciascuna di esse, lungi dallo scomparire nel movimento organico del tutto, tira le redini di ogni sequenza riportando l’attenzione sul peso singolo delle figure, delle linee, dei segni tracciati uno alla volta, l’uno indipendentemente dall’altro.
In altre parole, l’animazione di Massi è «resistente» non solo perché trattiene la memoria del passato – della vita di campagna, della lotta partigiana, del valore delle piccole storie – ma anche e soprattutto perché il singolo disegno si dimostra capace di resistere all’animazione complessiva, invertendo la direzione della freccia dal “fuori” del movimento narrativo al “dentro” di un unico, isolato, momento.
Le opere dell’animatore marchigiano, che lavora gomito a gomito nel borgo natio di Pergola con la moglie, la disegnatrice ucraina Julia Gromskaja, sono ormai conosciute e premiate in tutto il mondo. Massi comincia tardi a disegnare, ha alle spalle anni di “disumano” lavoro in fabbrica. Quando decide di fermarsi in seguito a uno sciopero e si siede per la prima volta a un tavolo, l’impulso al racconto su carta è naturale. Nasce dal riposo, dal silenzio, dalla concessione imprevista di una pausa, e così continua anni dopo a manifestarsi: un flusso di coscienza muto, che raramente disturba le parole (al massimo si serve di intertitoli tremuli à la Lumière) e piuttosto si pone in ascolto dei suoni della natura, quelli che arrivano all’orecchio quando l’umano si decentra. Tutto questo nella costante ricerca del gesto lento di chi è finalmente libero di dimenticare il tempo.
Quest’ultimo è un oblio difficile a guadagnarsi. Nei corti d’esordio dell’animatore anzi il tempo incalza nelle forme di orologi, pendoli, lancette che inseguono le figure umane in spirali oniriche infinite, metamorfiche, lunghi piani sequenza che d’improvviso attraggono a sé primi piani inaspettati e poi li rigettano in ampie panoramiche. Queste prime sperimentazioni (In aprile, Millennio, Niente) giocano con un alfabeto di pochi, efficaci simboli: l’uomo con la bombetta, la controfigura di una mascolinità canonica, inquadrata, urbana, eppure ambigua e sfuggente; porte che si aprono su altre porte, la ricerca dell’ingresso in una realtà frenetica e allucinatoria; la scacchiera, l’aggressione ludica dell’altro, il conflitto a tu per tu con se stessi; la caduta nel vuoto, la vertigine dello spazio bianco del foglio. Via via però il mondo animato di Massi si apre, le figure nere e stilizzate perse nel bianco come «panni scuri stesi al vento» acquistano uno spessore materico diverso, sgranano gli occhi e divorano paesaggi, diventano un tutt’uno con una materia sempre più microscopica e sempre meno rarefatta.
Il rinnovato contatto con la materia coincide con una nuova tecnica ideata dall’animatore e divenuta, da La memoria dei cani in poi, la sua firma. Oltre ad avvalersi dell’animazione “a passo uno” (frame by frame), Massi comincia ad utilizzare fogli di carta di cui annerisce uno dei due lati con il colore ad olio (a volte misto a strati di diversi colori). Sull’altro lato traccia una figura a matita, poi rigira la carta e con un incisore segue i contorni che trapelano scalfendo man mano la superficie di colore e sottraendo un po’ di nero per dare vita ai dettagli. Il disegno emerge dunque a tutti gli effetti “per sottrazione”, nascendo da una sorta di scarnificazione del materiale di partenza che fa sì che ciascuna figura faccia sentire con forza la sua singola presenza corporale. Persino le rare voci fuori campo – quella appena percettibile di Bartolucci in Adombra, quella da cantastorie di Paolini in Piccola mare, quella straniera di Avedikian in Nuvole, mani, quella partigiana in Animo resistente – sembrano rimanere incantate e intrappolate nel corpo delle immagini, prese negli squarci che si aprono ripetutamente nelle figure come in una matrioska: un bambino dentro un braccio, una foresta in una fronte.
In un «libro di disegni», questi ultimi recuperano allora in primo luogo la matrice cartacea di partenza, permettendo di essere toccati, indagati non più soltanto dall’occhio aereo dello spettatore cinematografico ma dalle sue dita, passate su ogni dettaglio. Dalle “nuvole”, anche chi guarda può tornare alle “mani”. A questo si aggiungono le tavole che affiancano ogni gruppo di disegni e in cui si vede abbozzata la precisione di un montaggio a vignette in cui, anche attraverso scritte e didascalie, ogni singola raffigurazione già si ostina a «tenere la posizione», come il protagonista del corto omonimo, stringendo i pugni in un vento che non riuscirà a scalfirne il valore individuale. Corpi baconiani sul punto di sprigionare quella forza penetrante che gli permetterà di rimanere intatti anche nel movimento.
In questo senso è impressionante rivedere su carta le immagini di un corto come Keep on! Keepin’ on! che, con una straordinaria forza cinematografica, racconta un violento incontro di pugilato concentrandosi sugli sguardi di chi acclama con paura i combattenti sul ring. I visi fissi, estesi fino agli angoli della pagina come fossero costellazioni di punti sparsi nello spazio, a fatica si riconoscono come tali, cristallizzando in ombre e chiaroscuri d’inchiostro un’umanità che forse era riconoscibile solo nel movimento, e che al contrario fermata sul foglio torna ad essere quel “tra” la materia e l’immagine che si diceva all’inizio.
Nel volume ogni sezione dedicata ad un corto è introdotta da una breve riflessione, quasi una parafrasi delle animazioni di Massi nelle parole di chi l’ha visto lavorare (tra gli altri Wenders, Gitai, Gaglianone, Mastandrea). Riferendosi ad Adombra, Roberto Herlitzka coglie uno degli aspetti più interessanti dell’estetica dell’autore: «Il sogno è adombrante della realtà esatta dell’immagine cinematografica e la fotografia è continuamente adombrata da se stessa, per l’incessante disturbo visivo che la fa sembrare un reperto di chissà quando, ancora fortunosamente presente e guardabile» (Massi 2021, p. 73).
I disegni dell’animatore cercano il sogno nei contenuti, ma la pasta di cui sono fatti li fa cadere in un tempo radicalmente umano, rendendoli simili a repertori pescati da un archivio e riportati in vita da una storia. È la pelle delle immagini a rendere vive le animazioni, quasi che le si potesse anche solo accarezzare, senza guardarle, con una mano sugli occhi come Massi stesso si ritrae nel finale de L’attesa del maggio. Anche da ferme, anche inosservate, le sue figure non smettono di pulsare.
Simone Massi, Libro di disegni, Minimum Fax, Roma 2021.