Arrivati alla quarta e ultima stagione de L’amica geniale, Storia della bambina perduta, vale forse la pena chiedersi che tipo di oggetto sia stato questa serie. L’adattamento degli altrettanto e più fortunati romanzi di Elena Ferrante, certo. Probabilmente resta questo il suo punto di forza. Tuttavia c’è qualcosa, che c’entra con la sua matrice letteraria, che rende questo prodotto di particolare interesse.

Lo spettatore che guarda L’amica geniale, attraversando di puntata in puntata i sessant’anni che scorrono nella storia, vede qualcosa di sempre diverso e sempre uguale. Da un lato, la scelta di affidare a quattro cineasti la regia (Saverio Costanzo, Alice Rohrwacher, Daniele Luchetti, Laura Bispuri) ha fatto sì che ogni due anni il pubblico si chiedesse in che modo lo stile della serie si sarebbe trasformato – e in effetti, se guardiamo puramente alla direzione del set, parliamo di quattro approcci molto distanti: la freddezza asciutta con qualche licenza poetica da cinefilo (vedi Roma città aperta nel primo episodio) di Costanzo, la liberazione immaginifica di Rohrwacher, le immagini pregne di Storia e realismo di Luchetti, il pedinamento sempre ravvicinato dei personaggi di Bispuri. Dall’altra, al dunque della visione, a tutti noi è sembrato di tornare dentro un mondo già conosciuto. Persino il cambiamento dei volti di Lenù e Lila, tra le quattro generazioni di attrici che interpretano le protagoniste, non creava particolare smottamento al nostro affezionarci al racconto.

È tipico delle serie, lo sappiamo, dare vita ad un mondo che si ritrova episodio dopo episodio. In questo caso però colpisce la capacità della storia di Ferrante, sebbene filtrata da una regia collettiva e da un foltissimo cast in cui non necessariamente viene mantenuta la somiglianza tra un’età e l’altra, di rimanere per tutta la durata delle stagioni più forte della sua trasposizione visiva, catturando lo spettatore a tal punto da distrarlo da eventuali defaiances di regia o recitazione (e ce ne sono) e riuscendo a trasparire in ogni singolo momento della narrazione.

Attenzione, non ci si sta arrendendo al consueto e banale “è meglio il romanzo”, al contrario la serie ha la sorprendente abilità di dare corpo all’immaginario delle pagine di Ferrante riuscendo al contempo a fare totale spazio alla sua invenzione creativa. In altre parole, la dimensione della visione scarta dal romanzo solo in quanto ne invera le rappresentazioni, ma non scarta mai dal suo modus narrandi, rinunciando a vezzi autoriali (salvo poche eccezioni) e rotture, in qualsiasi direzione, della quarta parete della storia a cui si adattano.

Forse non è un caso che appare in questa veste, sorprendentemente efficace e al tempo stesso priva di particolari marchi autoriali, la stessa scrittura di Ferrante. Sin dalla negazione di un’identità definita, l’autrice (autore?) compone con le parole non tanto al fine di lavorare con la forma di esse quanto di lavorarne profondamente il contenuto, stressando ogni sfumatura dei concetti (alle volte in modo quasi cervellotico) per intavolare una gamma verbale che svisceri, frase per frase, la descrizione di un’emozione, di un atto, di un pensiero. Non c’è particolare musicalità. Non ci sono silenzi. Non ci sono deragliamenti. La scrittura costruisce una fitta rete vincente attorno ai personaggi e li conduce avanti nel tempo.

I quattro cineasti sembrano tutti, a loro modo, aver colto queste peculiari sembianze del testo a cui si rapportavano creando uno scenario visivo che non ne compromettesse affatto né l’incedere né la profondità psicologica. Questo è lampante in questa ultima stagione, che si arresta costantemente su volti in primo piano e parole, dentro e fuori il campo – naturalmente la voce off di Alba Rohrwacher, che sino ad ora ascoltavamo a sprazzi, riconquista un corpo e dunque inonda anche lo spazio esterno dell’inquadratura.

Ci troviamo così nella paradossale condizione di stare incatenati di fronte allo schermo in una postura che somiglia molto di più a quella che assumiamo quando divoriamo le pagine di un libro ben scritto, che ci fa innamorare delle sue figure, empatizzare con esse, piuttosto che all’atteggiamento trasognato e preso da stimoli simultanei e complessi che in genere condiziona le nostre visioni al cinema. Verrebbe da dire che il montaggio de L’amica geniale tutta, più che mai in quest’ultima sezione, è del tutto orizzontale, svincolato da pensieri centrifughi e tutto teso, a volte procurando fatica emotiva nello spettatore, a mantenerlo dentro la spirale del racconto.

Ci eravamo lasciati, tempo fa, con una domanda, se ci fosse scampo alla scrittura di Ferrante. Se il cinema, dopo i due episodi girati da Rohrwacher, avrebbe mai più ripreso spazio. La risposta, ci rendiamo conto ora, è che nel caso di questa serie non può e non deve esserci scampo alla scrittura.

L’amica geniale ha funzionato nel suo formato visivo perché ha trasformato la libertà “in verticale”, quella propria dell’immaginazione che solitamente si richiede ai registi negli adattamenti, nella decisione consapevole e comune (quasi un atto militante) che conveniva invece in questo caso dare una terza dimensione al testo sostenendolo, con dovizia e cura, fino alla fine.

Anche questo ci si presenta, in fondo, come un gesto di libertà: tutti i registi – compresa, guardando retrospettivamente, Rohrwacher – hanno avuto come primo desiderio quello di provare l’ebbrezza di giocare al gioco di Ferrante, abbandonando quasi del tutto la forma per scrivere (in immagini) un contenuto denso, il cui peso specifico non lascia mai che ci si possa sollevare dall’incarico di assecondarlo e di cui, anzi, le immagini, segnano in modo intelligente in via definitiva la potenza semantica.

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