Siamo a Napoli all’inizio degli anni ’60, una macchina con quattro ragazzi torna da un matrimonio. Tre di loro ridono e commentano l’accaduto, solo una non lo fa. Siede sul sedile posteriore zitta, la testa voltata a guardare fuori dal finestrino. È come ce la ricordavamo, Elena Greco. Il suo sguardo scruta la realtà per rimbalzare su se stesso, tanto sensibile da specchiarsi sul mondo ingabbiandola nel suo riflesso. Ad essersi sposata è Raffaella Cerullo, la metà bruna della coppia, la determinazione oltre ogni possibile “quasi”, il viso duro di chi lotta consapevolmente contro il proprio fantasma.

Così inizia Storia del nuovo cognome, la seconda stagione de L’amica geniale. Lenù e Lila non cambiano, la rotondità dei loro personaggi è inscalfibile e il racconto filmico non sembra smussarla neanche lontanamente. E in effetti, a ben pensarci, le due figure sono già scritte per intero, sigillate tra le righe di quattro dei volumi al momento più letti nel mondo. Ci appassioniamo al racconto per immagini di Saverio Costanzo già sapendo che si tratta di un calco di quello del romanzo, che le sue evoluzioni saranno sempre trattenute nella rete del testo d’origine.

Fin qui nulla di nuovo. L’adattamento cinematografico di un’opera letteraria presuppone quasi sempre questa prevedibilità, che un regista può aggirare solo smagliando la storia dal suo interno, lacerandone i contenuti — quello che Bazin chiama “fondo”— e lasciando che sia la forma ad esplodere. Ma nel caso de L’amica geniale (prima o seconda stagione), ci sembra di assistere piuttosto alla duplicazione, tradotta in immagini, del romanzo di partenza. La serie televisiva aderisce, nella struttura prima ancora che nel contenuto, al testo scritto, allacciando con esso i punti nodali del racconto, le sue atmosfere, le sue interruzioni. La serialità in generale è in effetti il dispositivo narrativo più indicato per ripetere in immagini l’episodico e studiato romanzesco di Elena Ferrante.

E arriviamo così ad un primo punto. La scrittura di Ferrante ha già dentro di sé tutto il potenziale della trasmutazione in un diverso medium. Il suo romanzo possiede quella che Thierry Groensteen definisce adaptogénie, la propensione cioè di un’opera ad essere riprodotta attraverso un differente canale espressivo — in questo caso quello specifico della serialità. Non solo perché già in partenza diviso in capitoli che fungono da piccoli “microcosmi” in loro autonomi, ma anche e soprattutto per la costruzione dei personaggi e dell’ambiente che li circonda. Le due protagoniste sono perni fissi in un mondo che non cambia: un rione asfittico, irrigidito in una gerarchia sociale ben precisa, in cui a scorrere è solo il tempo che, inesorabile, “passa per tutti”, come dice Immacolata Greco alla figlia nell’ultimo episodio della stagione.

È proprio questa fissità a prestarsi ad una vestizione archetipica che non conosce mutamenti, come nel libro così nella sua messa in immagini. È l’immobilità del racconto, o il suo moto apparente, ad ancorarci alla dimensione della scrittura più che a quella visiva. L’azione rivoluzionaria dell’immagine-movimento cede il passo alle leggi di un mondo così ben definito da chiudere tra quattro mura la propria storia, lasciando che i suoi simboli e i suoi tòpoi decantino indisturbati.

Anche la voce narrante di Alba Rohrwacher, più volte criticata, è da leggere allora in questa chiave. Ambigua enunciazione distaccata dagli eventi e al contempo legata, se pur con una voce diversa, alla sua protagonista, conferma una volta di più il solco lineare che la scrittura di Ferrante traccia tra le immagini di Costanzo. Anzi, la scelta di Costanzo di affidarla a Rohrwacher, piuttosto che all’attrice che impersona Elena adolescente, sottolinea il suo statuto: un’incursione esterna alle sonorità del racconto e per questo straniante, quasi che a parlarci fosse quell’identità senza contorni che è Ferrante — di cui il regista, al contrario dello spettatore, sembra non poter fare a meno.

La serie per sua natura tende ad essere un «romanzo scritto in film», per usare ancora le parole di Bazin, e L’amica geniale usa per di più il «prestigio» di Ferrante come «etichetta di qualità». Dove finisce allora la scrittura e dove inizia il cinema?

In questa seconda stagione accade qualcosa di singolare: Costanzo decide di lasciare due degli otto episodi complessivi nelle mani di qualcun altro. A prendere in carico il compito è Alice Rohrwacher, per la prima volta nella sua carriera chiamata a venire a patti con un format diverso da quello del film, per giunta a partire da una scrittura non sua. Gli episodi girati dalla regista non sono però scelti a caso da Costanzo. Sono quelli di Ischia, del mare, della spiaggia, quelli in cui la serie, come afferma Rohrwacher in un’intervista, «viene portata in vacanza». In questa evasione geografica prende corpo tuttavia una seconda evasione di carattere formale. Fuggita dal “fondo” del rione, la “forma” del racconto trova finalmente il suo respiro sulle rive dell’isola napoletana.

Era già successo durante la prima stagione, in cui, dopo il soffocamento opaco dei primi episodi “senza mare”, la serie si animava dei colori estivi di Ischia. Ma in questo caso lo scarto è ancor più evidente, a maggior ragione perché dietro alla macchina da presa c’è un altro punto di vista. Lila, Pinuccia e Lenù partono sole, raggiunte dai mariti delle prime due solo nei fine settimana. A casa ogni sera le aspetta la mamma di Lila. È una sospensione al femminile, in cui ogni soggezione si annulla e tutto si riequilibra, salvo l’irruzione della famiglia dei Sarratore, e in particolare del primogenito Nino, che porta entrambe le protagoniste a scoprire l’amore.

Rohrwacher ha così tra le mani un momento di svolta e di attesa — Bachtin parlerebbe di “cronotopo”, spazio-tempo in cui per un momento il racconto si raccoglie su se stesso e rimane in bilico su una soglia — un lasso di tempo che fa mondo a sé e in cui, tra le figure abbronzate, i baci e i silenzi, il movimento dei corpi torna in primo piano. La scrittura deve retrocedere. Solo l’immagine cinematografica può riuscire nell’intento di catturare la luce marina che infiamma gli occhi di Elena e addolcisce quelli di Lila.

Assistiamo così al passaggio da una dimensione di carattere prettamente narrativo ad una in cui a farsi avanti è lo sguardo, quello che Alice Rohrwacher mette in scena e di cui Costanzo stesso avverte la nostalgia (da regista di cinema) decidendo di affidare la sua necessità a un’autrice che del puro sguardo sul reale ha fatto la sua cifra. Quali scene migliori, allora, di quelle isolane ed estive, in cui la macchina può accostarsi ai corpi bagnati, perdersi nei paesaggi mediterranei, scrutare l’orizzonte oltre il mare? Se anche “compressa” in un racconto che non smette di essere tiranno, Rohrwacher tenta di liberare gli occhi del cinema appagando un bisogno accumulato negli episodi che precedono il suo intervento.

Le stesse attrici si sono dette spaesate in un momento di passaggio in cui per la prima volta si trovavano a dover recitare qualcosa che non afferravano, che non avevano già letto, un “io-corpo” oltre quello scritto. I personaggi di Ferrante dovevano per un attimo essere accantonati per fare spazio a quel “vuoto” in cui solo, finalmente, si lasciava margine d’azione all’espressione cinematografica. Del resto la regista, riferendosi ai suoi film, afferma come sia sua prassi partire dai personaggi e scioglierli nelle loro relazioni, in un intersecarsi di linee in movimento che l’autrice traccia sulla carta velina, sovrapponendo un’identità sull’altra. A comparire sullo strato superficiale è il nodo caotico e dinamico della vita che il cinema si affanna a seguire, svincolandosi da quelle monadi iniziali, complesse ma statiche. La vera partita si gioca dunque nel salto dalla scrittura cristallizzata del rione ad un cinema libero di respirare nel movimento senza fine dell’estate.

C’è in particolare un’occasione in cui Alice Rohrwacher riesce a far sì che la serie si abbandoni al suo unico (almeno fino ad ora) momento puramente simbolico, definitivamente lontano dalla narrazione scritta: un sogno di Lenù — non a caso un’ulteriore evasione in uno spazio altro — in cui comincia a cadere una pioggia scrosciante nella casa di Ischia mentre appare l’allucinazione del temuto e invidiato bacio tra Lila e Nino. Nell’irruzione del temporale sul letto di Elena, sul pavimento della sua stanza, sul divano sul quale la ragazza si accascia, c’è tutto il desiderio del cinema di aprirsi uno spazio in cui poter guardare il mondo attraverso l’immagine e il suo potere metaforico.

Ma, se il passaggio di testimone tra i due registi significa di per sé un nostalgico, anche se momentaneo, ritorno al dispositivo cinematografico, è interessante notare un’ulteriore forma che tale “nostalgia” assume nel corso dei due episodi estivi.

Quando Lila e Nino si innamorano, la loro infatuazione provoca l’irrompere nella colonna sonora di Vivere ancora di Gino Paoli, brano musicale indissolubilmente legato alla Parma di Prima della rivoluzione (1964) di Bertolucci. Per un attimo sorridiamo nel sovrapporre ai giovani corpi che si schizzano ed escono dall’acqua tenendosi per mano quelli in bianco e nero di Fabrizio e Gina, nitidamente impressi nella nostra memoria. La circolarità delle composizioni musicali minimaliste di Max Richter — circolarità armonica tipica della serialità, come Luca Bandirali ha giustamente fatto notare di recente in questa sedesi rompe in una direttrice improvvisa che allerta tutti i cinefili, sprigionando un immaginario comune veicolato dalla tradizionale forma canzone.

Il racconto, ambientato negli anni ’60, vuole omaggiare le nuove correnti cinematografiche moderniste — Lila e Nino nell’episodio successivo prendono parte ad un acceso incontro con Pasolini subito dopo la proiezione de La rabbia (titolo, tra l’altro, dell’episodio). Ma nel rimando a Bertolucci è forse lecito vedere qualcosa di più strettamente legato a quel rapporto tra serialità e cinema, scrittura e sguardo, messo fin qui in evidenza.

Molto è stato discusso l’esplicito omaggio, nel primo episodio della prima stagione, alla corsa di Anna Magnani in Roma città aperta (Rossellini, 1945). In quel caso la citazione rientra nella tela di rimandi, al testo di Ferrante come al film di Rossellini, che Costanzo costruisce in una decisa presa di posizione a favore della letterarietà del testo filmico piuttosto che dell’originalità della sua forma. L’oggetto creativo viene esplorato dall’autore nelle possibilità compositive (rimontaggi, citazioni, divisione in capitoli) che presuppongono il suo essere “lettera”, più che “spirito”.

Ma, se Costanzo rimane dentro la scrittura “letteralizzando” anche le citazioni cinematografiche, nell’episodio girato da Rohrwacher l’intenzione del riferimento sembra al contrario quella di svincolarsi ulteriormente dalla dimensione testuale. La regista cerca di staccarsi dalla narrazione seriale e decide di farlo non solo direttamente, nelle forme che dicevamo, ma anche indirettamente, attraverso un rimando, decisamente meno “appiattito” sull’oggetto di quello di Costanzo a Rossellini, al cinema d’autore.

Forse allora quella “nostalgia mediale” di cui parlava Emiliano Morreale qualche anno fa si può leggere oggi anche come una nostalgia del cinema da parte della forma seriale e della sua sempre più stretta alleanza con la scrittura. In una dimensione di feticistica ri-visione possibile ormai da un secolo grazie alla riproducibilità tecnica, il movimento nostalgico nasce da una nuova, moderna, incertezza: la trasformazione del nostro raccontarci. Quel sistema di segni cinefilo ancora capace di connettere le nostre esperienze individuali di spettatori, è demandato in questo caso ad una richiesta di soccorso da parte di immagini costantemente sottoposte all’atto di scrittura. Rimandare non vuol dire allora più tanto “citare”, quanto piuttosto ricordare una forma, quella cinematografica, che riesca a rompere la circolarità della scrittura seriale aprendosi all’ignoto di un tempo finito, unico e dunque al fondo irripetibile.

Del resto negli ultimi due episodi della stagione, nonostante il trasferimento di Lenù a Pisa, la scrittura riconquista nuovamente il primato sull’immagine. Elena Greco diventa una scrittrice. La protagonista assume su di sé, nel suo nuovo ruolo, il portato della storia che ha vissuto e che ha deciso, ricongiungendosi definitivamente con quella voce narrante che ci parlava dall’alto, di mettere nero su bianco. Sembra non esserci più scampo, ma forse, chissà, arriverà un’altra estate.

Riferimenti bibliografici
M. Bachtin, Le forme del tempo e del cronotopo del romanzo, in Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979.
A. Bazin, Difesa dell’adattamento, in Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1999.
G. Manzoli, Letteratura e cinema, Carocci, Roma 2015.
E. Morreale, L’invenzione della nostalgia. Il vintage nel cinema italiano e dintorni, Donzelli, Roma 2009.
E. Mosconi, La nostalgia e il ritorno del rimosso, in “Quaderni del CSCI” n° 15, Daniela Aronica Editora, Barcellona 2019.
D. Zonta, La geografia di un paese. Conversazione con Alice Rohrwacher, in L’invenzione del reale, Contrasto, Roma 2017.
Intervista di Chiara Ugolini ad Alice Rohrwacher per “la Repubblica”.

L’amica geniale — Storia del nuovo cognome. Ideatore: Saverio Costanzo (dal romanzo di Elena Ferrante); regia: Saverio Costanzo, Alice Rohrwacher; sceneggiatura: Elena Ferrante, Francesco Piccolo, Laura Paolucci, Saverio Costanzo; musiche: Max Richter; interpreti: Margherita Mazzucco, Gaia Girace, Alba Rohrwacher (narratore), Anna Rita Vitolo, Luca Gallone, Dora Romano, Giovanni Amura, Gennaro De Stefano, Francesco Serpico, Federica Sollazzo; produzione: Wildside, Fandango, The Apartment, HBO, Rai Fiction; origine: Italia, USA; anno: 2018-in produzione.

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