«Il nostro linguaggio», diceva nel cosiddetto Libro giallo Wittgenstein, «è costruito su uno schema apparentemente semplice, cosicché tendiamo a considerare il linguaggio come molto più semplice di quanto non sia» (Wittgenstein 2025, p. 70). Così prosegue il filosofo austriaco: «Quando vediamo un segno del linguaggio, cerchiamo un oggetto; di qualunque cosa menzioniamo, pensiamo che ricada sotto un unico genere». Potremmo considerarla la prestazione specifica del linguaggio, di cui peraltro non siamo minimamente consapevoli, farci credere che ad ogni nome corrisponda (o debba corrispondere) un oggetto. E siccome crediamo che questo oggetto esista ci accaniamo intorno ad un’entità che esiste solo perché la nominiamo. Il linguaggio è la credenza che esista un mondo di cose da nominare. La filosofia, è questa l’idea del tutto inattuale di Wittgenstein, è il tentativo di chiarire questo equivoco, e provare non tanto a dubitare del linguaggio (non esiste filosofia senza linguaggio), quanto a liberarci dei fantasmi prodotti dal linguaggio (anche la filosofia, forse, è uno di questi fantasmi, ma almeno è un fantasma che non finge di essere qualcos’altro).

Uno di questi fantasmi è quello che indichiamo con l’espressione “dato di fatto”. Il 16 aprile di quest’anno i giudici della Corte Suprema del Regno Unito hanno stabilito in modo unanime come vadano intese, nella legislazione britannica, le parole “woman” e “sex”; in particolare hanno deciso “that a woman is defined by biological sex”. In effetti, come ha specificato Lord Hodge, il vice Presidente della Corte, “the central question was how the words ‘woman’ and ‘sex’ are defined in the legislation”. Secondo questa decisione, che è evidentemente tanto linguistica che politica, è il cosiddetto “sesso biologico” che definisce che cos’è una “donna” (attenzione alle virgolette, “donna” è un nome della lingua italiana, proviamo a non dimenticarlo). Il punto in questione non è, come invece subito si sono affrettati a commentare – pro o contro, ovviamente schiere di giornalisti, opinionisti, preti, filosofi e così via, che cosa sia la donna, ma appunto la parola “donna”.

Ma che ce ne importa della parola, penserà subito qualcuno, contano i fatti, le parole non contano niente. Ma è proprio il punto, che cos’è un fatto? In un’intervista pubblicata su “Repubblica” due giorni dopo, Adriana Cavarero, una delle più autorevoli voci filosofiche italiane, commentava favorevolmente la sentenza britannica: «Sono una filosofa materialista», ha detto, «e parto dai dati di fatto. I corpi ci definiscono». Ma quello che è in questione è proprio che cosa sia un “dato di fatto”. Se non ci mettiamo preventivamente d’accordo su che cosa sia un “dato di fatto”, come possiamo poi essere a favore o contro la sentenza della Corte Suprema del Regno Unito? In effetti, non è affatto chiaro che cosa sia il “biological sex”.

Non è chiaro, appunto, quello che invece consideriamo assolutamente certo, proprio il cosiddetto “dato di fatto”. Torniamo allora alla decisione dei giudici inglesi, che hanno stabilito, in particolare, che nella legislazione inglese il criterio per usare la parola “woman” è il suo “biological sex”. Per questi giudici – e pare di capire che la pensi così anche Cavarero – il “biological sex” è un fatto, e sui fatti sembra che non ci sia niente da dire. Ne siamo così sicuri? Chiariamo qual è la posta in gioco: la concezione, talmente radicata in noi che non ci accorgiamo che è soltanto una convinzione (le convinzioni possono cambiare, non sono oggettive), secondo cui l’accertamento di un fatto è indipendente dal nome che gli diamo. Non facciamo che ripetere, infatti, che le parole non ci interessano, ci interessano i fatti. Ma è proprio questo il punto, possiamo accertare un fatto senza nominarlo? In altri termini, i “dati di fatto” sono oggettivi?

Precisato che qui non prenderemo posizione sulla decisione dei giudici inglesi, proveremo appunto a ragionare – con l’aiuto di Wittgenstein – su questo punto che tutti – giudici, senso comune e anche filosofe – considerano invece un semplice e indiscutibile “dato di fatto”. Sembra di capire che chi è convinto che esista il “dato di fatto” ritenga anche che di un “dato di fatto” non sia possibile avere dubbi, perché un “dato di fatto” è evidente. Per dirla in un altro modo, ancora più impreciso (perché stracolmo di impensata metafisica), i “dati di fatto” sarebbero infatti oggettivi.

Prendiamo proprio il caso del “biological sex”: siamo così sicuri che sia così chiaro che cosa sia il “sesso biologico” (continuiamo a usare le virgolette alte, per non dimenticare che ci stiamo occupando di parole, ma sappiamo benissimo che questa precisazione suonerà come inutile se non irritante)? «Si potrebbe insegnare filosofia», dice Wittgenstein, «ponendo esclusivamente delle domande» (2025, p. 138). Ecco una domanda interessante: nel mondo ci sono solo “donne” e “uomini”? Scopriamo subito che esiste un cospicuo gruppo di umani che rientrano nella categoria cosiddetta “intersex”.

Sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità alla voce “intersex” è scritto che si tratta di «un termine ombrello che include tutte le variazioni innate (ovvero presenti fin dalla nascita) nelle caratteristiche del sesso, caratteristiche che non rientrano nelle tipiche nozioni dei corpi considerati femminili o maschili. Queste variazioni possono riguardare i cromosomi sessuali, gli ormoni sessuali, i genitali esterni o le componenti interne dell’apparato riproduttivo». Ci sono quindi corpi sessuati di esseri umani che in base alla “tipiche nozioni dei corpi considerati femminili o maschili” non sono né femminili né maschili (dove metterebbero questi corpi i giudici della Supreme Court of the United Kingdom?). Per non parlare di tutti quei corpi che per qualunque ragione hanno “perso” una parte del sistema riproduttivo (una donna privata dell’utero è una “donna”? Un uomo a cui è stata tolta la prostata è un “uomo”?). Di quante persone stiamo parlando?

Seguiamo ancora la definizione dell’Istituto Superiore di Sanità (un organo scientifico, non politico): «La frequenza delle VSC/DSD [“variazioni delle caratteristiche del sesso”/ “differenze dello sviluppo del sesso”] nella popolazione generale può variare tra le diverse VSC/DSD e anche tra i diversi paesi e gruppi etnici. Ad oggi non esiste una stima esatta della numerosità della popolazione intersex. La letteratura scientifica internazionale indica percentuali generalmente comprese tra lo 0,018% e l’1,7%» (per non parlare di tutte le persone che definiscono sé stesse come trans, che secondo una accurata ricerca dell’Istituto di ricerca Ipsos ammontano a circa l’1% della popolazione mondiale; è una minoranza di persone, se a qualcuno viene in mente questa obiezione, rimane il fatto che chi ritiene che a determinare che cosa si debba intendere per “woman” sia il “biological sex” – e che questo preveda solo sue possibilità, “woman” o “man” – ha appunto deciso di non tenere in considerazione questa minoranza, composta comunque da diverse decine di milioni di esseri umani in tutto il mondo; cosa ci sia di ‘oggettivo’ in una decisione del genere è tutto da spiegare).

È subito evidente, allora, che quella della Corte Suprema del Regno Unito non è una decisione basata soltanto su dati oggettivi, perché esistono oggettivamente decine di milioni di esseri umani che, in base alla loro stessa decisione, non rientrano né nella classe delle “donne” né in quella degli “uomini”. La loro è appunto una decisione, in particolare quei giudici hanno deciso cosa significhi la parola “woman” nella legislazione inglese. Ma una decisione è sempre soggettiva, perché avrebbe potuto essere diversa da come è, altrimenti non sarebbe stata una decisione. Qui evidentemente non stiamo sostenendo che si tratta di una decisione sbagliata (ma non stiamo sostenendo nemmeno la tesi contraria), stiamo semplicemente richiamando l’attenzione sul punto che è una decisione, e che la decisione decide soprattutto che cos’è un “dato di fatto”. In altri termini, il dato di fatto non è più oggettivo (o meno soggettivo) del nome con cui ne parliamo. Questo non vuol dire, ovviamente, che allora sia del tutto soggettivo; vuol dire forse che non solo l’espressione “dato di fatto” è ambigua, ma anche che la distinzione fra oggettivo e soggettivo è altrettanto, se non di più, equivoca: «È tipico delle ossessioni il non essere riconosciute e, a certi stadi, il non essere nemmeno riconoscibili. […] I problemi non sembrano riguardare questioni attinenti al linguaggio, ma, piuttosto, questioni di fatto, di cui non sappiamo ancora abbastanza» (2025, p. 140).

Per Wittgenstein la filosofia non si occupa dei cosiddetti problemi filosofici – ad esempio la natura del bene, oppure che cos’è davvero una donna – piuttosto del modo in cui prendono vita i fantasmi del linguaggio, il più importante dei quali come abbiamo appena visto è il “dato di fatto”. Prendiamo il caso del “tempo”: «La gente ha pensato che il tempo fosse indipendente dal modo in cui è misurato»; cioè che fosse appunto quello che diremmo “un dato di fatto”. «Ciò equivale a dimenticare cosa si dovrebbe fare per spiegare la parola. Il tempo è ciò che viene misurato da un orologio”. Per verificare l’enunciato “Il concerto è durato un’ora”, devi dire come hai misurato il tempo. L’idea che il tempo e la lunghezza siano indipendenti dalla misurazione costituisce un fraintendimento di entrambi» (ivi, p. 50). Non esiste il “tempo” come puro “dato di fatto” separatamente dai dispositivi che lo misurano.

Wittgenstein non sta parlando di quello che succede nel mondo (ad esempio della seconda legge della termodinamica), sta parlando appunto di quel particolare “dato di fatto” a cui ci riferiamo con il nome della lingua italiana “tempo”: non avremmo il primo senza il secondo. Il che non vuol dire che la parola inventi il tempo, vuol dire che quella strana cosa e inafferrabile che chiamiamo “tempo” non esisterebbe senza questa stessa parola. Vale lo stesso per il “biological sex”, ovviamente. Cavarero ha ragione quando dice che «i corpi ci definiscono», ma appunto, si tratta di definizioni, cioè di decisioni linguistiche e quindi politiche: «Ogni problema filosofico contiene, tipicamente, una particolare parola o un suo equivalente, la parola “deve” o l’espressione “non può”. In questo caso, la parola “deve” significa che ci s’inganna nel ritenere che, siccome c’è un’unica parola, debba esserci un’unica cosa in comune. Si può essere ossessionati da una certa forma linguistica. Si può riflettere per anni su un certo problema e non fare nessun progresso, perché non si pensa mai a inventare un nuovo linguaggio» (ivi, p. 138). Ecco lo scopo della filosofia per Wittgenstein, inventare un “nuovo linguaggio” ossia nuovi “dati di fatto”, e quindi, in definitiva, nuove e inaspettate libertà.

Riferimenti bibliografici
Ipsos, LGBT+ Pride 2023 Global Survey Report, maggio 2023

Ludwig Wittgenstein, Lezioni. 1932-1934, testo stabilito in base agli appunti delle due filosofe Alice Ambrose e Margaret Macdonald, edizione italiana a cura di Pasquale Frascolla, Adelphi, Milano 2025.

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