Quando dall’aeroporto di Kabul hanno cominciato ad arrivare le immagini delle persone che cadevano nel vuoto dopo essersi aggrappate agli aerei americani appena decollati, per poter scappare dall’Afghanistan riconquistato dai talebani, sui media vecchi e nuovi di tutto il mondo ha cominciato a rimbalzare quell’istintiva associazione con le immagini delle persone che si gettano nel vuoto mentre le Torri Gemelle stanno per scomparire per sempre. Il cortocircuito è stato evidente: quelle immagini all’origine, per così dire, della guerra più lunga combattuta dagli Stati Uniti, ritornano vent’anni dopo, nelle concitate dirette che raccontavano il ponte aereo per evacuare il maggior numero di persone possibili prima della definitiva ritirata occidentale in Afghanistan. Allora come oggi, nell’immediatezza dell’iperconnessione, la tragedia è diventata un contenuto mediale tra gli altri, che si trova in uno spazio di contiguità con tutte quelle prassi sempre più intense e quotidiane che hanno a che fare con l’immagine digitale. Ancora una volta, come spesso accade, la tragedia individuale viene trasformata in immagine globale, che circola con intensità per poi cadere, analogamente a quei corpi, nel vuoto dell’anestetizzazione. Ma cosa vogliono da noi queste immagini? O detto altrimenti: quale altra sorte potrebbe essere a loro destinata e in che modo tale destino ha a che fare con la possibilità della creazione di una nuova forma di condivisione, di una nuova forma di vita insieme?
È a partire da queste domande che si può attraversare L’evento dell’11 settembre. Quando iniziò il XXI secolo, la nuova edizione, ampliata e aggiornata, di quel volume di Mauro Carbone che aveva per titolo Essere morti insieme, pubblicato nel 2007. Per Carbone quel giorno di settembre ci siamo trovati a morire insieme, cioè a condividere uno shock collettivo in quanto testimoni oculari della morte di altri. È questa esperienza che va indagata e ed è da questa esperienza che bisogna ripartire, perché in fondo il fatto di “essere morti insieme” tiene al suo interno la possibilità stessa di essere vivi insieme, cioè di aprire uno spazio di condivisione collettiva a partire dalla quale la collettività stessa si ridefinisce. Molte volte si è ripetuto che il mondo dopo l’11 settembre non era più lo stesso e se è vero che quell’evento (e Carbone insiste molto sul dibattito tra Habermas e Baudrillard sul tema) può essere considerato uno spartiacque, ciò che segna un prima e un dopo, è proprio perché ciò che è accaduto, scrive Carbone, «eccede le mere dinamiche storico-politiche, giacché proprio tale irriducibile eccedenza ha potuto imprimerne a fuoco l’impatto simbolico nella sensibilità, nella memoria e nell’immaginario della nostra epoca» (Carbone 2021, p. 23).
Emerge allora come la dimensione politica e quella estetica siano fortemente intrecciate ed è proprio su tale intreccio che Carbone lavora, confrontandosi con un ampio e ricco dibattito filosofico. Il perno di tale dibattito è sicuramente la questione della post-modernità che da Lyotard in poi ha occupato un ruolo centrale nella riflessione filosofica e che, al di là della lettura pacificante sulla fine delle grandi narrazioni, pone più domande di quanto non offra soluzioni. Domande che forse risuonano con ancor più forza oggi, dinanzi all’evidente (e mediatico) fallimento di qualsiasi progetto di esportazione della democrazia e di quei valori fondanti della modernità occidentale. Il problema lyotardiano, che Carbone fa proprio, è quello della possibilità stessa di aspirare ad una giustizia globale, non più fondata sugli ideali forti che hanno segnato la modernità, dall’Illuminismo in poi, ma su quella disgregazione e dispersione che caratterizza il contemporaneo.
Ciò che maggiormente interessa all’autore, dunque, è individuare una linea di pensiero che non resti imbrigliata nell’uso del prefisso “post-”. E questa linea di pensiero si apre, per il Carbone studioso di Merleau-Ponty, ponendo l’accento su quella «dimensione comune alle diverse individualità» (ivi, p. 127), ciò che Merlau-Ponty chiamerebbe «carne» e Simondon «pre-individuale». In altre parole, raccogliendo la prospettiva per certi versi utopica di Jan Patočka e Judith Butler, Carbone articola l’idea che a partire dalle macerie della tragedia, cioè a partire dalla comprensione dell’evento tragico, possa emergere una nuova dimensione di comunità. E per pensare e costruire questa comunità è necessario riconoscere quella dimensione originaria che ci accomuna, dove l’origine non è l’inizio, ma quella condizione di indifferenziazione potenziale, quel «tessuto di differenze che costituisce ciascuno di noi proprio in quanto ci differenzia dagli altri, […] quell’orizzonte intrascendibile di relazioni da cui ciascuno di noi è variamente individuato, cui pertanto ciascuno di noi è irrecidibilmente collegato e da cui inevitabilmente dipende» (ivi, p. 128).
Ora, il punto decisivo è che il riconoscimento di tale dimensione, ovvero «quel riconoscimento della similarità tra differenze da cui la stessa convivenza umana non può prescindere» (ivi, 129), non può essere affidata unicamente alla comprensione, cioè ad una dimensione puramente razionale e concettuale; piuttosto, sostiene Carbone, questa dimensione viene richiamata proprio dalle esperienze estetiche, ciò che un tempo si chiamava arte, cioè da quelle esperienze che mettono in gioco la nostra sensibilità. E qui ritornano le famose immagini dei “Falling Men”. Per Carbone la forza e la potenza di quelle immagini sta nel fatto che in quell’uomo che cade si può intravedere “una vita”, intesa deleuzianamente come il trascendentale impersonale, quale dimensione ontologica dell’essere-in-comune. Quelle immagini sono rimaste scolpite nella memoria collettiva globale perché aprono a quella dimensione esistenziale originaria, alla possibilità stessa di una comunità che è radicata nella nostra capacità di sentire in comune.
È significativo, dice Carbone, che proprio queste immagini siano state oggetto di una sorta di rimozione globale, una spinta iconoclasta, attraversata da vera e propria paura, nascosta dietro argomentazioni più diverse relative alla privacy e alla dignità di chi muore. Ma questa rimozione è l’esito della difficoltà dinanzi alla quale queste immagini ci pongono, la difficoltà di capire come corrispondere alla loro potenza, di capire ciò che esse vogliono da noi. E vent’anni dopo, le immagini di Kabul e le modalità della loro circolazione ci dicono che siamo ancora ben lontani dal riuscire a sapere corrispondere, nel nostro quotidiano commercio digitale con i contenuti mediali, alla domanda di testimonianza che queste immagini ci rivolgono. Siamo ancora ben lontani dalla creazione di quello che Carbone definisce «un orizzonte condiviso di mediazione della realtà» (ivi, pp. 13-14), in cui possiamo superare definitivamente la dicotomia platonica tra immagine e verità, e ragionare nella prospettiva di un reale che è sempre già mediato.
Allora la possibilità di un orizzonte condiviso della mediazione è il vero terreno su cui filosofia e politica possono e devono stringere una nuova alleanza, come del resto il disorientamento della filosofia contemporanea nell’era pandemica ha dimostrato. E questa alleanza, nella prospettiva di Carbone, può muovere dalla prospettiva fenomenologica della «condivisione della corporeità quale comune accesso al mondo» (ivi, p. 22). In fondo, dunque, quei corpi che cadono ci ricordano che è proprio la corporeità che definisce il «(comune) mondo della vita e della morte», che la possibilità di una forma di vita in comune passa per la presa in carico di quel sentire in comune che queste immagini ci chiedono di elaborare, per il riconoscimento «dell’intrinseca portata politica del nostro rapporto estetico-sensibile col mondo, con cui quello con le immagini fa evidentemente tutt’uno» (ivi, p. 132).
Mauro Carbone, L’evento dell’11 settembre 2001. Quando iniziò il XXI secolo, Mimesis, Milano 2021.