Nelle pagine che aprono L’altro processo, Elias Canetti risponde all’imbarazzo con cui alcuni lettori avevano reagito alla pubblicazione delle lettere di Kafka a Felice, dichiarandosi piuttosto commosso che intimidito di fronte all’intimità esposta nelle lettere, soprattutto per via dell’importanza che la lettura degli epistolari ha avuto per lo stesso Kafka.

Qualcosa delle lettere, in ogni caso, turba il lettore. La loro presenza è impertinente, rispetto alla tensione interpretativa che anima la consueta modalità di lettura. Lo svelamento di una vita fino nei suoi aspetti più sordidi, come turpiloqui scribacchiati sull’immagine sublime di un autore amato, fa emergere una soglia di intensità tra le opere e le lettere o i diari. Chi sta di fronte alla pagina è costretto a prendere posizione: negare questa infame sopravvivenza per preservare intatta un’idea d’autore della quale l’opera è l’unica testimone, oppure abbandonare ogni speranza d’interpretazione o d’identificazione per sprofondare nella lettura. Il contrasto e l’indecidibilità tra ciò che pensiamo debba restare nell’ombra di ogni vita e ciò che è condannato alla fama sembrerebbe sfumare nel caso di Beckett. La pubblicazione del suo epistolario risulta infatti autorizzata dall’autore in persona con una clausola fondamentale, che restringe il campo – peraltro immenso – del pubblicabile alle lettere che riguardano il suo lavoro («having bearing on my work»).

Messi a riposare in pace, iuxta propria principia, gli aspetti della vita privi di interesse per l’opera, anche la commozione provata da Canetti parrebbe destinata a lasciare il posto, nel lettore dell’epistolario beckettiano, a un interesse puramente biografico o erudito. Nonostante ciò, che cosa commuove del lavoro di Beckett? In margine a tutte le possibili virtuose considerazioni sulla vita risucchiata dalla risacca dell’opera sempre insoddisfacente, ciò che si leva dalle lettere del giovane Beckett e si trasporta intatto fino a noi è il lamentoEnueg è la parola provenzale per lamento. Essa indicava in origine quelle poesie il cui tema consisteva in lagnanze per l’ennui quotidiana, tema quanto mai presente nella vita del poeta negli anni da cui ci scrive. Enueg, in modo esemplare, si intitola la poesia allegata da Beckett alla lettera del 27 novembre 1931 e indirizzata all’editore del Dublin Magazine, Seumas O’Sullivan (che non la pubblicherà – tant pis, direbbe Beckett).

Il testo nasce con uno spasmo, prosegue poi con toni cupi e metallici, meglio ancora arranca, scivola via assente, la mente annullata nel vento e il vento a sua volta reso fetido nel cranio stagnante. Il lavoro di scrivere, per Beckett, si avvicina dunque in primo luogo allo spasmo di una evacuazione. Come sottolinea Dan Gunn nell’introduzione al volume, per Beckett la perfezione di un’opera si misura con la sua necessità. Egli aspira a un’opera che sia vera, istintiva come un riflesso fisico, e i rari entusiasmi per le opere altrui si accendono per «un’arte che è naturale come respirare», come quella del pittore Jack Butler Yeats. Per contro, l’imperfezione del suo lavoro può essere al massimo paragonata alla necessità di una «meno estasiata convulsione, defecazione».

La difficoltà di scrivere cui Beckett allude a più riprese non elude cioè l’esigenza di espressione, ma incontra immediatamente anche il suo limite, quel limite che l’espressione stessa è rispetto all’ispirazione e all’esigenza di scrivere. Il precipitato verbale di questo sforzo espressivo può subire a sua volta, tuttavia, un processo di decomposizione: essere disprezzato, screditato, spezzato, fino a diventare poroso, fino a rendere percettibile la consistenza reale delle cose o del niente, fino a far «avvertire il sussurro della musica finale o del silenzio alla base di tutto», tutte le impressioni perdute nell’inglese formale e nei best-seller. «C’è un motivo qualsiasi per cui la materialità terribilmente arbitraria della superficie della parola non debba essere dissolta come, per esempio, la superficie del suono nella Settima sinfonia di Beethoven?», scrive Beckett nella lettera del 9 luglio 1937 – una delle più belle, ma anche delle più impegnate nella costruzione a colpi di martello di una letteratura della non-parola, di una «Società di logoclasti».

Sono le sue frequenti incursioni nel mondo della musica e dell’arte a sollevare questa tempesta sulla letteratura e sulle sue forme tradizionali. Nel saggio dedicato a Proust, la cui difficile gestazione è ampiamente documentata nella corrispondenza degli anni ’30 e ’31, il giovane irlandese attribuisce a Elstir, quale modello proustiano del tipico pittore impressionista, la capacità di dipingere «ciò che vede e non ciò che sa di dover vedere». È questa esigenza di creare una nuova percezione che la letteratura, con quasi un secolo di ritardo, deve ora ascoltare. Ad essa presta orecchio la sensibilità di Beckett, sottoposta a sforzi che lo prostrano costantemente: un numero considerevole di scritti inizia o si conclude con delle scuse indirizzate al destinatario dell’ennesima geremiade, maledicendo sempre i dolori fisici, la stanchezza, la tristezza e la disperazione che impediscono di scrivere. I suoi lavori non incontrano quasi mai l’immediato favore delle case editrici. Un’opera come Murphy è per molto tempo tenuta alla larga dai cataloghi di pubblicazione, concepiti dalla pura ragion commerciale: «Ovvio, quali altre ragioni potrebbero esserci per giustificarne la presenza?», commenta Beckett con un’ironia spicciola che, dopo pagine e pagine di rifiuti incassati e pochi, magri riconoscimenti, riempie di afflizione.

Il nodo inestricabile tra scrittura e fallimento, che diventerà un elemento strutturale degli scritti successivi, comincia a stringersi qui, nel tentativo di restituire a partire da un atto di creazione – sempre a rischio di apparire costruito e arbitrario – l’«integrità delle palpebre che si abbassano prima che il cervello si accorga del pulviscolo nel vento», una vita inorganica e irriducibilmente estranea la quale tuttavia, proprio in virtù della sua impersonalità, è la sensazione più prossima a quell’obbligo di esprimere che in una massima beckettiana coesiste con il nulla da esprimere. Alla necessità dell’espressione fa da contrappunto l’inesistenza o l’insostenibilità di qualsiasi scopo che potrebbe comprenderla e giustificarla. Ai sospiri dell’accidioso si sostituiscono qui inattesi slanci vitali, momenti di respiro a pieni polmoni di un’aria tanto più pura quanto più libera da fini e profitti.

Leggiamo così che «l’essenza di ogni anabasi, di ogni anabasi di buona qualità cioè, va cercata nella sua immunità da ogni scopo e dunque da ogni programmazione»; e ancora: «Vantaggio! Cosa vogliono dire i nostri moralisti […] con le loro grida sul vantaggio? Hanno una tale paura della vita che, se da un oggetto qualsiasi non riescono a trarre un profitto sicuro, si sentono sconfitti, se non quasi assassinati». Intuiamo tra queste e altre righe un tema che riaffiorerà nei romanzi – uno su tutti: Watt – e che molti anni dopo ispirerà a Deleuze uno dei più intensi testi dedicati a Beckett (L’esausto, 1999). Ciò che più ci rassicura, avere cioè una ragione per cui agire, un per che metta capo alle nostre azioni, è anche ciò che ci rende mortali, stanchi e moralisti: contrappasso dell’inferno mondano al dono senza un perché della vita.

La risposta di Beckett, il cui sviluppo prende avvio nel cuore del presente epistolario, a metà degli anni ’30, è lo stato metabulico di Murphy. La scoraggiante paura di ritrovarsi di nuovo a casa senza un obiettivo, condannato a scrivere libri che forse nessuno leggerà, e nel contempo privo di volontà per reagire, preso da una disattenta ma perenne osservazione di sé, sarà resa tollerabile e forse persino amabile mediante la trasposizione letteraria di una completa spersonalizzazione e de-antropomorfizzazione. Egli, in un’immobilità che eccede le sue stesse forze, anela ad essere «un punto in un ribollimento di linee, in una generazione e in uno sfacelo di linee, senza sosta né condizione».

Un ultimo sguardo, lasciato vagare di sorvolo sui giorni di lavoro pieni di impossibilità rintracciati nelle Lettere, raccoglie il problema di legare con la scrittura, come direbbe Kafka, l’obbligo di vivere e il nulla da vivere. Nascono da questa difficile prova il lamento e la sua espressione, che trapassa nell’opera e resta impigliata nelle lettere: dalla percezione che tenta e fallisce di vedere l’impercettibile, l’intollerabile – «un sé che non si conosceva, se si è fortunati».

Riferimenti bibliografici
E. Canetti, L’altro processo, Guanda, Milano 2015.
S. Beckett, Lettere. 1929-1940, Adelphi, Milano 2017.
Id., Murphy, Einaudi, Torino 2003.
Id., Watt, Einaudi, Torino 1998.
G. Deleuze, L’esausto, Nottetempo, Roma 2015.

Share