Vivere nell’ordine significa
patire la fame e subire angherie.
G. Büchner, Il Messaggero dell’Assia
La natura non agisce secondo scopi;
essa è invece, in tutte le sue manifestazioni,
immediatamente autosufficiente.
Tutto quanto esiste, esiste per se stesso.
Ricercare la legge di questa esistenza
è il fine della concezione opposta
a quella teleologica,
che chiamerò filosofica.
G. Büchner, Sui nervi del cranio
Chi avesse soltanto una vaga conoscenza letteraria dell’opera di Georg Büchner (1813-1837) potrebbe rimanere stupito, leggendo le Lettere. 1831-1837 (pubblicate ora da Giometti&Antonello), nel constatare quanta parte della sua breve vita egli abbia dedicato all’attività politica. Certo, che Büchner avesse una passione profonda per la rivoluzione francese, lo si può facilmente dedurre dalla Morte di Danton; ma ciò che emerge dall’epistolario è, dapprima, una fervente attività sovversiva, poi, anche una volta esaurita questa fase militante, una costante attenzione al destino dei compagni con i quali la si era concepita e realizzata. La lettura di queste lettere (inviate per lo più alla famiglia, alla fidanzata, agli amici, agli editori) permette di percepire il senso radicale di questa attività politica, rendendo alla loro futilità le discussioni accademiche sulla fedeltà di Büchner a questa o quella posizione ideologica. Se volessimo cavarcela con una battuta, potremmo dire che i riferimenti politici fondamentali di Büchner non sono né Robespierre, Danton o Saint-Just, né Mazzini, Babeuf, Buonarroti o Blanqui, bensì Epicuro e Spinoza.
Leibniz non aveva tutti i torti, probabilmente, a temere che Descartes e Spinoza potessero diventare i cattivi maestri di intere generazioni di rivoluzionari. Questi «Naturalisti», come anche li chiamava, si ispiravano alle antiche scuole ellenistiche, epicuree e stoiche, per lasciarsi alle spalle la metafisica morale del Cristianesimo, per farla finita con il giudizio di Dio e con la sovranità politica che sembra conseguirne. E forse non è un caso che Büchner sia stato al contempo lettore di Descartes e Spinoza, militante rivoluzionario e naturalista – autore, come candidato alla cattedra di Scienze naturali dell’Università di Zurigo, di una dissertazione dedicata al sistema nervoso del barbo (un pesce d’acqua dolce), nonché di una prolusione, tenuta nel 1836 presso la stessa Università, dedicata ai nervi del cranio (con una magnifica premessa metodologica anti-finalistica). È in ragione di questo intreccio di elementi che la figura di Büchner si staglia nella propria singolarità sullo sfondo della letteratura tedesca del XIX secolo.
Nella Morte di Danton, il protagonista, dialogando con Robespierre, nega decisamente che abbia senso ergersi a fustigatori del vizio, per la semplice ragione che in natura non esistono né vizio né virtù – e spiega: «Ci sono soltanto epicurei a questo mondo, chi rozzo e chi fine, e Cristo fu il più fine; e questa è l’unica differenza che riesco a trovare fra gli uomini. Ognuno agisce secondo la propria natura, vale a dire fa ciò che gli giova. Vero, Incorruttibile, che è crudele farti mancare così il terreno sotto i piedi?» (Büchner 1999, p. 27). Che ognuno agisca sempre e solo secondo la propria natura significa che nessuno è padrone di ciò che è, nessuno artefice di ciò che diviene, e nessuno perciò può essere sensatamente oggetto di lode o biasimo. La stessa critica del moralismo, questa volta declinata in relazione all’ignoranza anziché al vizio, la troviamo in una magnifica lettera alla famiglia del febbraio 1834:
Io non disprezzo nessuno, meno che meno per la sua intelligenza o la sua cultura, perché non è in potere di nessuno di non divenire uno stolto o un malfattore… perché in uguali circostanze noi diventeremmo certo tutti uguali e perché le circostanze sono all’infuori di noi […]. Vi è un gran numero di costoro che, in possesso di una ridicola esteriorità che si chiama cultura, o di una morta cianfrusaglia che si chiama erudizione, sacrificano la gran massa dei loro fratelli al loro egoismo dispregiatore. L’aristocratismo è il più vergognoso disprezzo del sacro spirito umano; contro di esso io rivolgo le sue stesse armi: orgoglio contro orgoglio, beffa contro beffa. Fareste meglio a chiedere di me presso il mio lustrascarpe (Ivi, pp. 35-36).
Ma si dirà a giusto titolo che questa è tutt’al più un’etica (ispirata appunto da Spinoza), ma non ancora una politica. E in effetti sembra che la causa dell’impegno rivoluzionario di Büchner (quello che dopo la pubblicazione dell’opuscolo incendiario Il Messaggero dell’Assia lo costringerà all’esilio) risieda in un elemento ulteriore, ma ancora legato a questo primo tratto etico: la percezione che il potere politico ed economico (l’aristocrazia tradizionale della Restaurazione così come l’aristocrazia del denaro uscita dalla rivoluzione del luglio 1830 in Francia) agisca precisamente per rendere impossibile, alla maggior parte dei suoi sudditi, «agire secondo la propria natura», cioè, in una parola, vivere. Una lettera del gennaio 1836 lo dice con parole chiare e semplici: «Il pensiero che per la maggior parte degli uomini anche i godimenti e le gioie più miserabili siano irraggiungibili oggetti preziosi mi ha riempito di amarezza» (ivi, p. 76). Il punto è che lo sfruttamento del popolo da parte delle classi dominanti non viene percepito da Büchner come una «ingiustizia», ma come il tentativo di sovvertire la natura delle cose, quella che riserva appunto a ogni cosa esistente la possibilità di esistere e di esprimere la propria essenza.
Da qui la necessità di contrapporre a questa violenza, perpetrata contro l’essere stesso delle cose, una violenza contraria, che renda ineffettuale la prima. Come spiega Büchner ancora in una lettera alla famiglia (5 aprile 1833):
Se vi è qualcosa che può essere d’aiuto nella nostra epoca è la violenza. Sappiamo bene cosa possiamo aspettarci dai nostri regnanti. Tutto ciò che essi hanno concesso fu strappato loro dalla necessità. E persino queste concessioni ci furono gettate lì come un atto di grazia da noi mendicato e come un miserabile giocattolo per bambini […]. Si rimprovera ai giovani l’uso della violenza. Ma non siamo noi forse in un’eterna situazione di violenza? Poiché siamo nati e cresciuti in carcere, non ci accorgiamo più di stare infilati in una buca con mani e piedi incatenati e un bavaglio sulla bocca. Che cos’è che voi chiamate situazione legale? Una legge che fa della gran massa dei cittadini delle bestie da soma per soddisfare i bisogni snaturati di una minoranza insignificante e corrotta? E questa legge, appoggiata da una rozza potenza militare e dalla stupida scaltrezza dei suoi agenti, questa legge è un’eterna, rozza violenza arrecata al diritto e alla sana ragione, ed io combatterò con le parole e con gli atti contro di essa, dovunque potrò (ivi, pp. 21-22).
Questa istanza politica che le lettere di Büchner mettono così chiaramente in evidenza non è certo un fattore estraneo all’opera letteraria. E non tanto perché questa, dalla Morte di Danton al Woyzeck, presenti dei “contenuti” ideologici, quanto per il fatto che la sua più profonda ispirazione risiede ancora nella percezione della naturale integrità e compiutezza di tutto quanto esiste. Il Lenz lo testimonia a suo modo, quando lo scrittore protagonista del racconto spiega al filantropo Kaufmann che per lui, nella creazione artistica, il bello e il brutto (come d’altra parte – l’abbiamo visto – per Büchner il vizio e la virtù, l’ignoranza e l’erudizione) sono elementi del tutto secondari: «In ogni cosa io richiedo la vita, la possibilità di essere reale, e se c’è questa possibilità va bene; non dobbiamo poi domandare se è bella o brutta: il sentimento che ciò che è stato fatto ha vita sta al di sopra di questi due concetti, ed è l’unico criterio che valga in fatto d’arte» (Büchner 2015, p. 44).
Questa non è affatto la dichiarazione estetizzante di chi creda (alla maniera di Flaubert, per esempio) che qualunque cosa, anche la più umile o insignificante, divenga degna, una volta che sia stata trasposta nel regno sublime dell’arte. Ma è semmai la confessione “naturalistica” di chi sa che l’arte non può che fissare e rendere visibile la realtà stessa delle cose, permettendo a chiunque di diventare sensibile alla sua indistruttibile perfezione: «Ieri, mentre risalivo la valle, ho veduto due ragazze sedute sopra un sasso: una si pettinava, l’altra l’aiutava […]. Qualche volta si vorrebbe possedere la testa di Medusa per cambiare in pietra un gruppo come quello, e chiamare la gente ad ammirarlo» (ivi, p. 47).
Riferimenti bibliografici
G. Büchner, Opere, Mondadori, Milano 1999.
Id., Lenz, Giometti&Antonelli, Macerata 2015.
Id., Lettere. 1831-1837, Giometti&Antonello, Macerata 2021.
Georg Büchner, Lettere. 1831-1837, Giometti&Antonello, Macerata 2021.