Nella fabbrica fordista campeggiava il cartello: “Silenzio, si lavora!”. Come osservava Paolo Virno all’inizio degli anni Duemila, «oggi, in certe officine, potrebbero figurare degnamente cartelli speculari a quelli di un tempo: “Qui si lavora. Parlate!”» (Virno 2002, pp. 88-89). Con queste parole veniva fotografata la trasformazione del lavoro contemporaneo nel suo passaggio dalla catena di montaggio alle reiterate prestazioni linguistiche del lavoro cognitivo. Rispetto a vent’anni fa, al cartello “Qui si lavora. Parlate!” potremmo ora aggiungere: «Devi raccontare la tua storia!» (Cecchi 2024, p. 57).

Ci troviamo nell’età delle narrazioni: da questa costatazione prende le mosse il nuovo libro di Dario Cecchi. Contro ogni previsione secondo cui la contemporaneità sarebbe stata dominata dalle immagini, assistiamo invece al trionfo dello storytelling, della narrazione come principale vettore comunicativo (e professionale, come dimostra il fenomeno degli influencer puntualmente evidenziato da Cecchi). Ma c’è narrazione e narrazione: l’attuale sete di racconti sembra infatti favorire le spinte identitarie, la ricostituzione di comunità altrimenti frammentate, con il rischio di perdere quella che per l’autore è la vera ricchezza che ci proviene dalle storie, vale a dire la capacità di fare genuine esperienze di apertura all’altro, di ampliare i nostri orizzonti e di mettere a fuoco visioni del mondo distanti dalle nostre.

Riprendendo le riflessioni di Hans Robert Jauss e di Odo Marquard, Cecchi nota come nel panorama attuale i nostri «orizzonti di attesa» tendano a restringersi drasticamente, mettendo in crisi la possibilità stessa di immaginare scenari non confinati al presente. Rispetto a questa crisi di futuro, acquistano particolare rilievo i tentativi – in particolar modo letterari e cinematografici – di raccontare la fine del mondo. Evidente nei racconti catastrofici e apocalittici, la fine del mondo è in realtà implicata ogni volta che la narrazione ci mette a contatto con i limiti della nostra visione.

Si può dire che, in senso ideale, tutti i racconti riusciti, implicitamente o esplicitamente, provano a metterci di fronte alla possibilità della fine del mondo, nella misura in cui provano a farci toccare i limiti dei nostri orizzonti d’attesa. Tutti i racconti sono, in questo senso, storie sulla fine del mondo (ivi, p. 20).

Proviamo a percorrere un altro sentiero, non esplicitamente indicato dall’autore. Se, con Wittgenstein, i limiti del mio linguaggio coincidono con i limiti del mio mondo, il racconto – che è sempre racconto del mondo di altri, racconto di mondi possibili – implica la fine di quel mondo che è il mio ma, allo stesso tempo, determina l’apertura di uno spazio di incontro. L’esperienza del proprio limite dischiude un nuovo orizzonte d’attese che altrimenti rimarrebbe precluso: di qui la sensazione che i racconti ci restituiscano il reale in presa diretta (anche quando sono palesemente racconti di finzione).

Rispetto a queste due possibilità – storie identitarie, rassicuranti, anestetizzanti vs storie capaci di aprirci al mondo e all’esperienza degli altri – utilizziamo due termini differenti (senza pretendere di rintracciare nel volume di Cecchi un puntuale rispetto di questa distinzione lessicale): i racconti possono disorientarci, mettere in discussione le nostre visioni più consolidate per ampliare la nostra comprensione del reale; di contro, le narrazioni – che ci vengono somministrate e che non siamo dispensati dal produrre noi stessi – hanno la funzione di produrre una chiusura del nostro mondo, di tenerci al caldo confortevole (ma spesso asfittico) di un’identità compatta e ripiegata su di sé. I racconti ci permettono «di riconoscere, nelle condizioni contingenti dell’esperienza, l’opportunità per vedere la realtà con occhi diversi» (ivi, p. 48) – come il cinema non smette di ricordarci – mentre le narrazioni (nel senso ristretto in cui stiamo usando questo termine) costituiscono una «vendetta della retorica contro l’estetica» (ivi, p. 59) e, producendo identità narrative fisse, intralciano la reale «funzione etica del racconto» che consiste nell’«educa[re] l’immaginazione a un rapporto più libero con la realtà e predispo[rre] a formulare giudizi imparziali» (ivi, p. 57).

Partendo da una cornice teorica kantiana, in cui si avverte la mediazione di Emilio Garroni, ma attingendo anche a numerosi altri autori – tra cui risalta Merleau-Ponty –, il saggio di Cecchi giunge a problematizzare il rapporto tra immaginazione e racconto in ambito cinematografico, sviluppando ulteriormente la tesi già formulata a proposito della letteratura: se è vero che il racconto in generale «mira […] a riattivare il lavoro dell’immaginazione, ampliando l’orizzonte di conoscibilità del mondo» (ivi, p. 68), bisogna ora specificare in che modo «la potenza narrativa del cinema riposa esattamente sull’incontro fra orizzonti diversi e sulle diverse possibilità di configurazione di questo incontro» (ivi, p. 73). Il cinema sembra infatti particolarmente vocato non tanto alla riproduzione fedele quanto alla riattivazione del lavoro dell’immaginazione per mezzo di immagini e di gesti che, riprendendo alcune riflessioni particolarmente pregnanti di Giorgio Agamben (1996), possiamo definire come mezzi puri, irriducibili al fare (poieisis) e disarticolati rispetto all’agire (praxis).

La medialità pura dei gesti cinematografici – richiamata esplicitamente da Agamben con riferimento alla gag – ci consente, di nuovo, di fare esperienza dei limiti del linguaggio, di quanto non giunge alla parola proprio perché costituisce la condizione di possibilità del nostro dire: conclude dunque Cecchi che «nel gesto è in gioco, in altre parole, la possibilità di un senso comune a tutta l’umanità» (2025, p. 91). Il cinema esibisce così il duplice statuto dell’immaginazione, costituito da un lato dall’organizzazione del racconto e dall’altro dall’effetto emotivo legato alla comunicabilità dell’esperienza. In quest’ottica, il gesto cinematografico appare come «la pura comunicazione di una comunicabilità» (ivi, p. 94) e la vita dei personaggi sullo schermo diviene «il medium attraverso cui è possibile fare esperienza del senso delle nostre vite» (ivi, p. 95).

Cecchi conclude la sua riflessione evidenziando il valore etico del racconto come disattivazione di ogni rafforzamento muscolare della propria identità a vantaggio di un’esperienza riflessiva circa il proprio modo di vedere il mondo che apre a un vero incontro con l’altro. Si delinea in questo modo una «pratica del pluralismo degli orizzonti di vita» (ivi, p. 100) per nulla pacifica ma che – con un evidente affondo sul presente – entra in rotta di collisione con il wokeism, il politicamente corretto che schiaccia la comprensione del mondo su di un unico punto di vista (nei termini che abbiamo utilizzato prima, su di una narrazione, non un racconto) che – si presume – sia eticamente neutrale.

Ora, è proprio la neutralizzazione del valore etico del racconto che qui si cerca di mettere in discussione: tale prospettiva «in luogo di un’autentica conoscenza del mondo, […] potrebbe promuovere una correzione cosmetica della superficie della realtà» (ivi, p. 104), tradendo l’idea stessa – sviluppata lungo tutto il saggio – secondo cui le storie sono in grado di dischiuderci una reale esperienza dell’altro. Esperienza, certo, mai addomesticabile, sempre potenzialmente conflittuale. Ma in un’epoca di narrazioni demagogiche e nazionaliste, ostili a ogni forma di complessità, il conflitto è un pericolo che bisogna pur correre.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino 1996.
P. Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, DeriveApprodi, Roma 2002.

Dario Cecchi, L’esperienza dell’altro. Vedere, narrare, immaginare, Quodlibet, Macerata 2025.

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