Bisogna innanzi tutto capire cosa è una lettera. In due parole: un testo in cui un “io” si rivolge ad un “tu”. Se si va più a fondo nell’analisi, un discorso scritto vissuto da un’interlocuzione che spinge i segni a farsi voce, pulsione comunicativa, affastellamento di emozioni che si impongono di correre su un foglio combattendo il vincolo della linearità e al contempo non volendosi privare del piacere di lasciare una traccia incontestabile della propria presenza. Una lettera è dunque, in primo luogo, una contraddizione. È proprio questa difficile (forse dopotutto impossibile) coesistenza tra scritto e orale, lineare e circolare, grafia e voce, che il film di Noëlle Pujol, primo film in concorso presentato al Festival Cinéma du Réel 2022, vuole incarnare.
La cineasta francese – che viene dalla video-arte e dal documentario di carattere storico – sceglie questa volta come oggetto un’esperienza personale, quella di raccontarsi come destinataria delle 149 lettere cariche d’amore inviategli da suo fratello Didier nel corso della vita, lui cameriere a Tolosa e lei artista a Parigi. Affida il compito a due attori, Axel Bogousslavsky e Nathalie Richard – inutile ribadire che ormai le barriere tra finzione e documentario sono cadute del tutto, tanto che ad aprire il concorso di un festival sul cinema del reale è un film in cui di reale ci sono solo le parole scritte nere su bianco (che del resto non vediamo mai con i nostri occhi) sui fogli di carta maneggiati dalle due figure in scena.
Dalla prima all’ultima sequenza i due figuranti (quasi sempre l’attrice che dovrebbe interpretare Pujol, quasi mai il “fratello Didier”) leggono le lettere immersi nel verde di un paesaggio bucolico – accovacciati sotto un albero, sopra un letto posizionato in mezzo a un prato, a gambe incrociate su un tavolaccio, camminando lungo i sentieri di un bosco, e così via. “Leggere” è però chiaramente un termine riduttivo. Al fine di mettere in scena quella contraddizione di cui si diceva (scrittura/voce, vincolo/libertà) gli attori urlano le parole, le cantano, le suonano con un flauto di pan, le ballano, le muovono scandendole con le proprie dita, ritmandole sui propri corpi e su quello altrui, le sussurrano, la bagnano di lacrime.
Michel Chion parlava del linguaggio epistolare come di un «chiaro-scuro verbale» in cui alla linea ferrea dello scritto – nel film metaforicamente rappresentata da binari del treno su cui l’occhio della camera torna più volte – è sotteso il desiderio di tornare carne, nella confusione senza direzioni prevedibili della comunicazione orale. Il film di Pujol sembra voler riprodurre “alla lettera” (è il caso di dirlo) l’affermazione di Chion, facendo sì che le lettere di Didier diventino «piste di decollo» per due voci sconosciute, che tentano di appropriarsi di un’intimità asciugata nell’inchiostro traducendola in «arie d’opera», momenti di sfacciato lirismo o di sfrenata pantomima in cui cercano di svegliare parole ormai dormienti.
Questo movimento di sradicamento dallo scritto – Deleuze parlerebbe di un «atto di musica» che si strappa alla stasi del testo – tuttavia non fa che mettere in evidenza l’amara impossibilità di rianimare qualcosa che ormai (una volta scritto e, forse, pronunciato dal mittente e dal destinatario originari) sopravvive unicamente nella fissità triste e inespugnabile di invocazioni anacronistiche, irreali, posticce. Quello che allora diventa interessante nel film di Pujol è il modus operandi attraverso il quale avviene questo fallimento, ovvero la decostruzione della struttura logica di un linguaggio, quello epistolare, che si ha bisogno di rendere insignificante (nel senso di non-significante) perché torni a significare qualcosa di nuovo.
L’assumere nel corpo, negli sbalzi dinamici della voce, nelle smorfie facciali, nei silenzi improvvisi, in intonazioni senza criterio, la struttura verbale del testo scritto, fa cioè sì che ad essere messa in scena sia una vera e propria decomposizione della scrittura in parti isolate e, dunque, rese illogiche nel proprio isolamento. Gli stessi corpi dei due attori diventano allora due astrazioni, altrettanto “scriteriate”, del «bilogo» cui danno voce. Non riescono neanche per un momento ad essere Noëlle e Didier, ma cessano persino di essere Axel e Nathalie, trasformandosi piuttosto in due creature indefinibili che zompettano qui e lì senza mai davvero incontrarsi – sfiorandosi, guardandosi negli occhi, avvolgendo le proprie membra solo nell’ultima scena, ma senza alcuna possibilità di vivere uno scambio davvero reciproco se non appellandosi ad un testo morto. In breve, i corpi dei due attori realizzano sul piano di rappresentazione del cinema i poli di un paradigma semiotico, e, in quanto paradigma, astratto, come quello epistolare. Acquistano cioè le sembianze corporee del “Foyer” e della “Cible” metziane (mittente e destinatario di un’enunciazione unilaterale), sostanziandone da marionette un dialogo in cui a domanda non corrisponde risposta, tanto più che ascoltiamo solo e unicamente le lettere di Didier (recitate da uno o dall’altra) e mai quelle di Noëlle, che ci è dato solo immaginare.
Il cinema, e più che mai quello documentario, ha utilizzato spesso la lettera come traccia verosimile su cui lavorare ad un livello finzionale – da Marker a Godard ad Akerman (non a caso è Claire Atherton, la montatrice di molti dei film di Akerman, a montare il film di Pujol). Lettres de Didier ripete il modello dei maestri con un po’ di fiacchezza e trova la sua brillantezza in uno scarto ulteriore, forse involontario, ovvero la liquefazione della logica verbale nella riproduzione di un cortocircuito epistolare in cui “io” e “tu” cessano di essere persone incarnate e diventano parti deittiche di uno scambio senza senso. Man mano che scorre la pellicola, quello che attrae non è tanto allora il reenactment di emozioni passate – che forse pure la regista si illudeva di portare a nuova vita – quanto la messa in scena dell’ossatura di un linguaggio scorporato dai suoi contenuti e dunque mostratoci come scheletro vacante nella campagna francese.
Riferimenti bibliografici
M. Chion, L’écrit au cinéma, Armand Colin, Parigi 2013.
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 1989.
C. Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, a cura di A. Sainati, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995.
I. Perniola, Chris Marker o del film-saggio, Lindau, Torino 2003.
B. Sjogren, Into the Vortex. Female Voice and Paradox in Film, University of Illinois Press, Chicago 2006.
Les lettres de Didier. Regia: Noëlle Pujol; fotografia: Andreas Bolm, Noëlle Pujol; montaggio: Claire Atherton; suono: Andreas Bolm, Noëlle Pujol; interpreti: Axel Bogousslavsky, Nathalie Richard; produzione: Pickpocket Production, Noëlle Pujol; origine: Francia; durata: 66′; anno: 2022.