Les Années … super-8. Al titolo di uno dei romanzi che ha fatto conoscere Annie Ernaux al grande pubblico, la scrittrice aggiunge il formato tipico degli home movies. Fin dal titolo l’operazione del recentissimo Premio Nobel per la letteratura è dunque chiara: agli “Anni” del passato, quelli scritti a parole nell’allure impersonale di un “destino di donna” (quella del dopoguerra come quella contemporanea), l’autrice fa il tentativo di aggiungere un piano rappresentativo privato, cimentandosi per la prima volta in un contrappunto che al libero gioco dell’espressione verbale sottopone la puntualità storica degli archivi.

Le immagini scelte da Ernaux sono quelle girate dall’ex marito, Philippe, nell’arco di quasi un decennio a cavallo tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta. Ciò che vediamo nelle immagini, oltre ai componenti della famiglia – Annie, i due figli (uno dei quali, David, oggi è co-autore del film), sua madre (o Una donna), i suoceri – sono soprattutto i viaggi che la famiglia fa in giro per il mondo, in occasione delle vacanze o per seguire il lavoro di Philippe. Alla quotidianità della casa e del paesaggio montano di Annecy vengono così costantemente interpolati filmini che raffigurano Tangeri, Londra, l’Albania, il Cile.

Le parole non sono quelle del romanzo omonimo. Si tratta di un nuovo testo, o meglio di un flusso di coscienza messo per iscritto, che la stessa Ernaux recita, registra e fa montare in post-produzione sugli archivi. La narrazione in fuori campo è quindi un racconto inedito, personale, ispirato dalle pellicole e al contempo intriso di echi che chi ha letto Gli anni ascolta risuonare nelle sue frasi. Primo fra tutti l’utilizzo sporadico della terza persona singolare quando racconta fatti che la riguardano in prima persona, in particolare quando si descrive in una condizione riflessiva o desiderativa (“lei pensava che”, “lei avrebbe voluto che”). E del resto questa stessa procedura di oggettivazione – «funzione primitiva anonima», la chiamerebbe Deleuze – la esercita sul marito, che chiama sempre per nome e cognome, traducendo la presa di distanza emotiva da un uomo dal quale si è separata da anni in una formalizzazione di carattere prima di tutto linguistico.

Prima di vedere il film ci si potrebbe aspettare che Ernaux voglia sperimentare una nuova scrittura, quella per immagini, prendendo in parola il monito di Astruc e trasformando il piano di montaggio in una pagina bianca e le bobine girate dal marito in una nuova e diversa stylo. Nulla di tutto questo. Se c’è una cosa chiara fin dai primi secondi del primo (chissà se ultimo) lungometraggio della scrittrice è che la supremazia della parola non deve venire affatto compromessa dall’intervento del piano visivo.

Questo perché la parola di Ernaux non fa che sgomitare per addentrarsi nel fuori campo delle immagini, dilatando il tempo puntuale delle rappresentazioni – un compleanno, una visita, un panorama, un gesto, uno sguardo – in quello «disteso» (se vogliamo tornare all’espressione agostiniana) della narrazione, che riconnette le singole tracce del passato impresse sulla pellicola ad una vita che c’era prima di esse e che dopo di esse è continuata. “Dopo un mese mia madre ci ha detto, in modo totalmente inaspettato, che sarebbe tornata nel suo paese d’origine”; “dopo qualche anno la natura balcanica di questi paesaggi avrebbe visto l’invasione del capitalismo industriale”; “non sapevamo ancora dove avrebbe portato la reggenza pluriennale di Pinochet”; “questa donna [lei stessa] stava concludendo il suo primo romanzo e non aveva idea di cosa avrebbe significato per la sua carriera”, e così via. La “penna” – tradotta in questo caso in voce – della scrittrice libera il tempo imprigionato nel presente delle inquadrature lasciandolo correre nelle «durate», riprendendo il termine bergsoniano, che esistono unicamente al di là e al di qua delle immagini o, semplicemente, nel regime del possibile (un pensiero, un sogno, una paura) che alcune figurazioni possono solo limitarsi a suggerire.

È indicativo, sotto questa luce, il fatto che Ernaux parli delle immagini d’archivio come rappresentazioni “mute” a cui ha sentito l’esigenza, dopo tanti anni, di ridare la parola. L’immagine è muta non tanto perché non è sonora, quanto per il fatto che non riesce, di per sé, a costruire un discorso. Alla fisicità del footage manca cioè il potenziale narrativo – “immagini mentali”, le definisce l’autrice – in grado di sciogliere i momenti catturati dalla cinepresa nel movimento (intimo o storico) del tempo che passa e che solo un “conteur” può mettere in scena senza bisogno di un supporto materiale. Non è un caso che l’espressione francese usata da Ernaux e dal figlio per indicare la sovrapposizione di parola ed immagine sia invariabilmente “dessous”, “sotto”: sotto le parole della scrittrice madre e figlio costruiscono l’andamento visivo del racconto, ammettendo già nella prossemica inconscia con la quale descrivono il loro lavoro la gerarchia che vive quest’ultimo dal di dentro.

La scrittura di Ernaux vive in primis della capacità di farsi universale, respirare nel racconto dell’altro aprendosi ad un “terzo” già nel suo profilo sintattico-grammaticale. Tuttavia, al contempo, il carattere generalizzante del racconto vive costantemente una volontà individuale di raccontarsi e di farlo da sé, sfruttando le infinite possibilità della parola per svincolarsi da un profilo (di donna, di persona) tracciato da qualcun altro o, come in questo caso, confinato dentro una singola immagine. D’altronde, nei super8 del suo film, a riprodurre il viso sornione e apparentemente arrendevole della scrittrice è lo sguardo del marito. Lei stessa, in fuori campo, afferma che il patto originario tra i due prevedeva una certa resa di lei alle decisioni di lui, nella dimensione materiale del filmare come in quella più assoluta del rapporto tra i due coniugi – “Io non so filmare e non filmo”, ha tenuto spesso a sottolineare. Quella della parola diventa allora anche la via più decisiva per divincolarsi dallo sguardo oggettivante dell’uomo lasciando spazio alla presenza non lineare e discontinua di un’intimità al femminile.

Non è un caso che un film di qualche anno fa, Gli anni (2018) di Sara Fgaier, in cui alcuni scampoli originali del romanzo omonimo di Ernaux, recitati in fuori campo dalla regista, vengono contrappuntati ad immagini d’archivio raffiguranti donne in diversi contesti, muovesse analogamente e in modo progressivo verso un’istanza autonarrante da parte della cineasta, che ritrovava istintivamente, attraverso la parola della scrittrice francese, un percorso evolutivo di definizione ed indipendenza. Come se la parola di Ernaux, in mano a chiunque di noi e in sovrapposizione a qualsiasi immagine, ci invitasse sempre a riconsiderare la libertà del discorso verbale come supremo custode dell’autenticazione del proprio essere soggetti, valicando i confini delle singole rappresentazioni in cui possiamo (o non possiamo) riconoscerci e ricostruendo l’unità individuale a partire da ciò che il verbo può più dell’immagine, vale a dire, prima di tutto, non sottostare a limiti di spazio e di tempo.

Les Années Super-8. Regia: Annie Ernaux, David Ernaux-Briot; sceneggiatura: Annie Ernaux; fotografia: Philippe Ernaux; montaggio: Clemént Pinteaux; musiche: Florencia Di Concilio; produzione: Les Film Pelléas; distribuzione: Wonder Pictures; paese: Francia; durata: 60′; anno: 2022.

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