Leggere Lacan, ancora. Leggerlo come assillo, come imperativo a non cedere. A non cedere su cosa? A questa altezza del nostro sguardo è ancora troppo presto per dirlo. Quel che osserviamo è un non cedere, che prima ancora di riferirsi a un contenuto, risplende, sebbene oscuramente, del suo essere atto, dell’essere in atto. La psicoanalisi lacaniana ci ha insegnato a chiamare “taglio”, “incisione”, “urto” la materia di cui un simile atto si compone. E soprattutto ci ha insegnato che l’analista è colui/colei che non cede, che non indietreggia rispetto al farsi, divenire partecipe a questo urto, che è urto del significante, in atto. Finire un’analisi e diventare analisti vuol forse dire non opporre più resistenza alcuna al non cedere, abbandonarsi al suo accadere, esserne letteralmente rapiti/e, senza colpa, senza divisione, impossibilitati/e a non cedere, impossibilitati ad “assuefarsi a essere promossi a mo’ di abiezione nel […] posto del sembiante” (Lacan, Il Seminario XIX).

È alla letteratura che Lacan ci invita a volgere lo sguardo per cogliere qualcosa di questa posizione-atto, posizione che è atto del non cedere, e che egli definisce anche nei termini di godimento assoluto. A non cedere sono per lui le figure del rapimento. Come Lol V. Stein la protagonista del romanzo di Marguerite Duras a cui Lacan dedica un omaggio che è un vero e proprio elogio alla creazione artistica, nella fattispecie letteraria, abile, come già sosteneva Freud, ad anticipare le acquisizioni dell’analista. “Rapimento – afferma Lacan – questa parola è per noi un enigma. È oggettivo o soggettivo, determinandolo Lol V. Stein?” (Lacan, Altri Scritti). Esiste un soggetto nel rapimento? Lacan procede affermando che rapitrice è anche “l’immagine che ci impone questa figura di ferita, di esiliata dalle cose, che non si osa toccare, ma che vi fa sua preda”. Lol V. Stein è rapita o rapisce? Rapiti suggerisce Lacan siamo di certo noi lettori del romanzo che non sappiamo bene a cosa stiamo assistendo. La storia ruota attorno ad una scena di espropriazione, quella che congiunge un uomo e una donna in una danza che avviene sotto gli occhi di Lol sancendo la fine della sua relazione d’amore. Quando più tardi Lol assisterà da sotto la finestra di Jacques Hold alla spoliazione dell’amica Tatiana non starà, come più ingenuamente si potrebbe credere, cercando di ripetere il trauma, l’avvenimento della sua esclusione amorosa, quanto piuttosto, suggerisce Lacan, non farà che occupare quella posizione/atto che consente a un certo nodo di stringersi, ed aggiunge «è questo nodo a rapire».

È sempre un romanzo, stavolta attuale, a consegnarci un prisma di rapimenti che è in prima istanza una metafora, quella di una postura, potremmo dire, rispetto al sapere, alla verità di ciò che filosoficamente intendiamo come evento. Stiamo parlando di Ufo 78 di Wu Ming. Al centro della trama la scomparsa di due giovani scout durante un campeggio nel 1976 sul Monte Quarzerone, un luogo di fantasia che infine si scoprirà avere la natura del nodo. L’ipotesi è che possa essersi trattato di un rapimento ad opera degli alieni, i cui avvistamenti sul finire degli anni ’70 andavano moltiplicandosi. Sullo sfondo del romanzo il 78’, l’anno del rapimento di Aldo Moro, ma più in generale gli anni ’70, quelli dello stragismo neofascista, dell’eroina, della psichedelia e della nascita del punk. In uno dei tanti densissimi dialoghi che popolano il romanzo uno dei personaggi più eccentrici e intriganti, Jimmi Fruzzetti, gestore di un negozio di dischi e ufofilo, spiega a Milena, l’antropologa che sta facendo una ricerca sul complesso mondo degli studi sulla realtà extraterrestre, quale differenza intercorra tra ufologi e ufofili definendo i primi come nemici degli oggetti non identificati poiché il loro scopo è «identificarli e quindi privarli del diritto all’indeterminatezza», e i secondi come coloro che invece quella indeterminatezza la rispettano senza pretendere di «stabilire di preciso cosa siano [gli alieni] e da dove vengano, se dalla nostra mente o da un’altra galassia, se siano miraggi o pareidolie, archetipi o realtà».

Mentre i primi infatti si impegnano a riconoscere e classificare gli alieni attraverso l’uso di statistiche e metodo scientifico, arrivando ad attribuire il nome di extraterrestri solo a quei fenomeni che non hanno trovato alcuna altra spiegazione razionale, i secondi si pongono rispetto a questo fenomeno in una posizione di vero e proprio rapimento che ad un certo punto nel romanzo prende anche le forme dell’estasi psichedelica. Questa distinzione che efficacemente Wu Ming dispiegano in varie direzioni diviene nel romanzo più radicalmente la metafora di due atteggiamenti antitetici rispetto all’utopia rivoluzionaria, al movimento operaio, e al suo fallimento che in quegli anni andava drammaticamente sancendosi.

Se dovessimo trasporre l’efficace metafora di Ufo78 nel mondo lacaniano potremmo forse dire che le figure dei lacanologi e dei lacanofili rappresentano due posture epistemiche che tratteggiano due modi differenti di leggere Lacan ossia due modi differenti di farsene qualcosa della sua lettera. Ancora meglio, due modi di porsi rispetto alla questione del significante, e delle sue due facce, quella del tratto unario che insiste, si inanella e fonda la catena significante e quella Uniana dell’incisione, dell’urto e del suo perpetrarsi e ripetersi in quanto tale, come urto. Potremmo chiamare lacanologi quanti leggono Lacan con l’idea di sistematizzarne il pensiero reperendovi una verità ultima, che sia anche una parola definitiva sulla psicoanalisi, sul suo sapere e sulla sua pratica, mentre potremmo definire lacanofili quanti leggono Lacan senza cedere, senza credere che si possa giungere mai ad una lettura esaustiva, completamente rischiarata del suo pensiero, quanti insomma dell’urto con la lettera lacaniana non hanno mai finito di sentirne l’impatto ustionante, ed è più sulla ferita e sul suo statuto del tutto eccentrico che si concentrano che sul reperirne e ricostruirne una presunta oggettiva verità.

Senza alcun dubbio sono di impronta lacanofila i numerosi testi che compongono il libro collettaneo uscito nel 2023 per la collana Leggere Lacan di Galaad dal titolo Leggere …o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan a cura di Marco Ferrari. Sebbene infatti il libro sia costituito da una serie di interventi di autori e autrici a cui è stato chiesto di commentare i vari capitoli del Seminario XIX, basta dare un’occhiata ai titoli che compongono l’indice per capire da subito che ciascun/a interprete ha approfittato dell’occasione per proporre una riflessione che va ben al di là di una mera esegesi del testo. Ma ancor più dell’indice è nella quarta di copertina che troviamo il riferimento necessario per accostarci a questa lettura. Si tratta di un’affermazione enigmatica e perentoria: Il Seminario XIX è l’uno che parla. Ed è sul fatto che parli, e che parli come urto, come ciò che incide, che Lacan insiste provando ad offrire una formalizzazione a questo accadere che nomina attraverso quella che Marco Ferrari definisce «un’espressione aforismatica, a tratti indecifrabile: c’è dell’Uno, Yad’lun, Cèd’luno” intendendo con essa il “reale dell’Uno-tutto-solo, tutto-solo là dove si direbbe il rapporto» (Lacan, Il Seminario XIX).

Sulla scorta di quest’oscura evidenza Ferrari da una parte offre un’analisi serrata e approfondita di come Lacan costruisca questo concetto in due tappe passando prima dal Parmenide di Platone, dove trova una prima consistenza epistemica attraverso gli attributi dell’incommensurabilità e dell’impredicabilità e poi dalla teoria degli insiemi da cui Lacan estrae la possibilità di pensare «un Uno distinto da ciò che, come attributo, unifica una classe»; dall’altra approfitta di questa vertigine speculativa per rilanciare a sua volta una riflessione relativa all’epistemologia su cui si fonda quel sapere del tutto eccentrico che è il sapere analitico. Sapere che altrove Alex Pagliardini non ha esitato a definire come un sapere relativo al «posizionarsi rispetto all’Uno del significante facendo a meno del tentativo di padroneggiarlo attraverso il Due del significante». Sapere che infine è quello di una pratica, quella del “far capitare questa posizione”.

Diviene allora affascinante anche per i non addetti ai lavori accostarsi allo sforzo di lettura contenuto in questi saggi che mentre tiene davanti a sé – poiché l’Uno parla nelle pagine che stanno commentando – la questione teorica dell’urto inteso come C’è dell’Uno, al contempo si misura con gli effetti singolari, le linee sintomatiche di ciascuno/a lungo le quali si diffrange l’impatto con l’Uno della lettera del testo, insistendo particolarmente lungo due direttrici quella dell’interrogazione sulla posizione dell’analista intesa anche come posizione all’interno del discorso sociale, e quella della differenza dei generi maschile e femminile nei suoi effetti discorsivi e con ciò immediatamente sociali e politici.

Silvia Lippi in particolar modo attraverso una meticolosa critica, sulla scorta anche di quelle derridiana, e di Deleuze e Guattari, della centralità del concetto di fallo come significante del desiderio nella teoria lacaniana, insiste sulla centralità dell’urto inteso come urto della sessualità. L’incidenza, che è quella del significante sul corpo, è di natura sessuale. Lippi critica aspramente quel binarismo dei generi maschile e femminile a cui Lacan stesso riconduce la sessualità, rinvenendo una contraddizione tra lo sforzo di denaturalizzazione della nozione di sesso che egli stesso realizza attraverso le formule della sessuazione che si trovano nel Seminario immeditamente successivo, quello ventesimo, e il riferimento al sesso biologico che nel Seminario XIX Lacan nomina come la “piccola differenza”, che è quella rappresentata dal fallo. Lippi interroga la necessità di legare così da vicino all’anatomia qualcosa che Lacan stesso erge a simbolo di un’incognita.

Il genere per Lippi è un sintomo, ossia l’interpretazione inconscia che il soggetto fa dell’urto con il sesso. Ma prima del genere c’è il sesso come quell’urto del significante che il corpo stesso è. Anche per questo pensiamo che Ferrari e Pagliardini possano dire che in un’analisi è necessario che l’analista ci metta il corpo inteso come piega singolare di un punto di corpo che «l’analista presta ripetutamente a un tratto per farsi sembiante di a e per presentificare cèd’luno». Il corpo che la psicoanalisi lacaniana convoca, ci dicono i due autori, non è altro che quell’alterazione di sé stesso che il corpo stesso è a causa dell’incidenza significante. Federico Leoni da pars sua mentre riflette sullo statuto dell’urto, chiamandolo supporto inteso come ciò che offre consistenza sottraendosi sia all’Uno che all’Altro pensati come ingenuamente si fa nel discorso comune come due figure solide, ritorna sulla scena della divisione dei sessi in maschile e femminile, affermando che la questione dell’impossibilità di un rapporto, di una relazione tra i due sessi è il tema su cui Lacan insiste di più, sia in questo seminario che nell’ultima fase del suo insegnamento. Impossibilità che si fonda sul fatto che per Lacan “femminile” è di fatto uno dei nomi del C’è dell’Uno ossia di “qualcosa” che «sfugge, cede, eccede, precipita, e insieme insorge, emerge dal cedimento, fa sorgere e fa insorgere, svia e suscita» (Leoni 2023).

Lacan per Leoni costruisce, in virtù anche di un decorso storico della figura stessa della donna che la vede più prossima all’immagine di questo supporto evanescente, una metafisica del femminile e una clinica “in cui la direzione della cura della nevrosi consiste di fatto in un’introduzione dell’analizzante alle virtù del femminile”. Punto su cui insiste anche Felice Cimatti ricordando come la questione del femminile e del godimento non-tutto che questa pone sia il crocevia teorico che «ha strappato Lacan da se stesso». Quello del femminile sembra essere il concetto che pur non essendo attribuibile solo alle donne, ci ricorda Stefania Napolitano, è pur sempre un attributo che si pone a partire soprattutto dagli effetti prodotti storicamente dalla marchiatura del significante “donna” sui corpi. Napolitano ci invita a pensare come il principale di questi effetti, prima ancora di tutta la sintomatologia isterica, sia stato storicamente in fondo quello di manifestare un’oppositività che è da interpretarsi come «protezione di uno spazio interno inviolabile». Un’oppositività che è una declinazione molto prossima della figura del non cedere.

Mavie Loda e Pierpaolo Cesaroni incentrano il loro commento più dal lato dell’eccentricità del discorso analitico e si concentrano in particolare sulla questione del come si istituisce lo stesso istituirsi, che si impone a Lacan secondo i due autori a partire dall’evidenza clinica che non tutto il godimento si esaurisce nella sua declinazione fallica, così come il processo analitico non si limita all’analisi di ciò che sta “davanti” al muro del linguaggio. Per Lacan, ci dicono i due autori, la logica è lo strumento, il discorso che anziché stare davanti al muro “si tiene sul muro” con ciò rivelandosi più proficuo di altri nel mostrare ciò che per via linguistica è impossibile da far vedere. Ed è infine Ettore Perrella a sottolineare come il linguaggio della matematica sia pensato da Lacan come via per impedire agli analisti di «dire troppe sciocchezze sulla loro posizione», ponendo l’accento su come già dal 1968 lo psicoanalista francese in un Seminario (L’acte psychanalitique) che poi fu interrotto avesse incentrato la sua attenzione sull’atto analitico che ad oggi continua a restare quell’atto dallo statuto del tutto peculiare che rende la psicoanalisi un discorso e una pratica eccentrici ad ogni altro sapere e pratica.

È però in chiusura di questa raccolta di saggi che troviamo l’immagine che più di tutte ci pare efficace nel circoscrivere con una perifrasi l’atto dell’analista, ossia quella del disturbatore del sonno. Pagliardini e Ferrari la ricavano da Lacan che a sua volta la riprende da Freud. Dormire, afferma Lacan nel Seminario in oggetto, significa «sospendere l’ambiguità che c’è nel rapporto del corpo con sé stesso», ossia sospendere il godimento. Sospensione che clinicamente reperiamo nel discorso, nel fantasma, nel sintomo dove troviamo solo delle declinazioni del godimento, ma non quel godimento assoluto, godimento del corpo che abbiamo imparato a chiamare urto, incidenza. Ed è attraverso quest’immagine che possiamo pensare che la figura del lacanofilo e quella dell’ufofilo non siano in fondo che un’unica figura, ossia quella del testimone del rapimento in qualità sia di rapitore che di rapito, qualcuno insomma che non può che non dormire.

Ma potremmo anche andare oltre e dire che l’ufo-lacanofilo è il testimone del fatto che non c’è Storia senza rapimento. Ce lo mostra la parabola di Zanka in Ufo78, lo scrittore-divulgatore di racconti fantascientifici di antichi cosmonauti stanco di se stesso, del proprio personaggio che ritrova infine la scrittura come contraccolpo alla ferita, quella che giunge dritta dallo sguardo di quanti attorno a lui hanno perduto qualcosa irreparabilmente. Il fatto poi che questa figura dell’immanenza assoluta nella sua radicalità prenda forma all’interno di un romanzo ambientato negli anni ’70 e negli scritti e Seminari di Lacan di quegli anni rimane una suggestione che forse merita di essere pensata ancora, e ancora.

Marco Ferrari, a cura di, Leggere …o peggio. Il seminario XIX di Jacques Lacan, Galaad, Teramo 2023.

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