Credo sia meglio informare il pubblico su tutti i fatti il prima possibile.
(S. Chatman, Storia e discorso)
Il nostro presente ha forse trovato nella dilatazione temporale e nei meccanismi di coinvolgimento garantiti dal racconto seriale un potente antidoto di massa al tempo contratto e alla distrazione costante nella fruizione mediale. Un antidoto capace di tenere incollati agli schermi milioni di spettatori, addirittura costringendoli a lunghe ed estenuanti sedute di binge watching, rese possibili dallo streaming e dalle piattaforme di video on demand come Netflix. Grazie ai mondi raccontati dalla serialità, gli spettatori si riconoscono e costruiscono comunità lungo quel confine, sempre più labile, tra soggettività e mondo, tra corpo e ambiente, che è lo schermo nelle sue molteplici declinazioni tecnologiche. Le serie tv alimentano l’ambizione degli spettatori di costruire e raccontare storie, di appassionarsi a esse al punto di penetrare, con il piglio dell’investigatore, nei meandri della loro complessità per indagarne i meccanismi narrativi ed espandere la narrazione tra le diverse piattaforme mediali.
Il desiderio di saperne di più e di vedere realizzate le proprie ipotesi speculative su eventi ed esistenti sono sapientemente sfruttati dal racconto seriale. Curiosità e aspettative sopravvivono persino agli spoiler e alla re-visione degli episodi, perché ciò che interessa ai fan e agli spettatori seriali non è soltanto cosa accadrà, oppure quale sarà il destino di un determinato personaggio, ma piuttosto il come: cosa avranno architettato gli sceneggiatori per realizzare quella scena, quale sarà l’interpretazione attoriale del protagonista, come verrà stravolto l’ordine dei fatti? Detto in altri termini: se la storia narrata funge da attrattore iniziale, i meccanismi discorsivi, dalla messa in scena all’evolversi delle linee narrative, fino all’espandersi del racconto in prequel e sequel, garantiscono la cattura e il coinvolgimento degli spettatori.
Due anni prima che Better Call Saul (2015 – in corso) vedesse la luce, Vince Gilligan aveva dichiarato di voler realizzare lo spin-off di Breaking Bad (2008-2013), serie di culto da lui ideata. Prodotta da AMC, concepita da Gilligan in collaborazione con Peter Gould e distribuita in Italia da Netflix, Better call Saul sposta le lancette di Breaking Bad indietro nel tempo, circa sei anni prima dell’incontro tra Walter White (Bryan Cranston) e Saul Goodman (Bob Odenkirk). Se Breaking Bad si conclude con la morte di Walt e la scomparsa di diversi personaggi, la scelta di un prequel rientra in una strategia tesa a consolidare e rilanciare il legame con le aspettative del pubblico. La filiazione tra le due serie è marcata anche dalla scelta del titolo del prequel: “Better Call Saul” è l’ottavo episodio della seconda stagione di Breaking Bad in cui Jesse Pinkman (Aaron Paul), il socio di Walt, contatta Saul dopo aver visto in tv lo spot che pubblicizza i servizi offerti dall’avvocato.
Dall’uccisione di Mike Ehrmantraut, malinconico e disilluso ex poliziotto divenuto capo della sicurezza di Gustavo Fring, uno dei maggiori narcotrafficanti di Albuquerque, opposto speculare di Walter e della sua crescente furia criminale, alla rocambolesca fuga di Saul, fino alla morte di Walter: i destini dei protagonisti delle due serie sono noti e già segnati ma l’idea di far retrocedere il tempo della storia permette di scavare più a fondo in quel viaggio verso la corruzione che contagia, a diversi livelli di profondità, la gran parte dei personaggi e di risalire così alle origini di un disfacimento morale che lento ed inesorabile si fa strada in ciascuno di essi. L’attenzione per i dialoghi, la dilatazione dei tempi morti, la cura rivolta ai dettagli e alle scene apparentemente banali, sono la cifra stilistica di una serie che sfrutta la lentezza del tempo del discorso per soffermarsi su azioni circoscritte che producono effetti su situazioni specifiche e a loro volta generano reazioni a medio e lungo termine.
L’epopea al negativo, seppur alternata a momenti di stasi descrittiva ed ispirata alle ambientazioni e all’immaginario western generatosi a partire dai film di Sergio Leone (Checcaglini 2014, pp. 91-100), che porta alla mutazione del remissivo insegnante di chimica Walter nell’implacabile criminale Heisenberg si fonda sulla messa in scena di eventi concitati ed efferati colpi di scena. Basta ricordare l’esplosione nel quartier generale del gangster Tuco (episodio 1×06), la scelta di lasciar morire di overdose Jane, la compagna eroinomane di Jesse (2×12), il piano perfetto per carbonizzare l’avversario Fring (4×13), l’assalto al treno per prosciugare una cisterna di metilammina (5×05), necessaria per la produzione di metanfetamina, e infine la sparatoria nell’epilogo.
Better Call Saul è invece il racconto di una cronaca quotidiana fatta di piccole astuzie e articolati sotterfugi che trasformano l’intraprendente e bonario avvocato James “Jimmy” McGill in Saul Goodman, il difensore subdolo e senza scrupoli della criminalità. Gli esempi sono molteplici e sostanziano il legame tra forme commediche e tragiche che caratterizzano il genere dramedy a cui Better Call Saul appartiene: dalle finte scenate al bar per farsi offrire un cocktail, organizzate da Jimmy con la complicità dell’amata Kim Wexler (2×1), si arriverà ai raggiri compiuti assieme a danni della legge (4×9), la meticolosa contraffazione della documentazione per il gruppo bancario Mesa Verde (2×9) causerà lo screditamento professionale del fratello Chuck e infine la morte (4×1), il lavoro presso un negozio di telefonini si trasformerà in un’operazione di marketing per contrabbandare dei cellulari usa e getta a ladruncoli e affaristi (4×4 e 4×5).
Heisenberg e Saul sono dei villain protagonist. Per entrambi si assiste a un graduale mutamento in negativo della personalità, accompagnato dalla scelta di una nuova identità anagrafica, ma la loro parabola discente è differente. La trasformazione di Walt in Heisenberg è giustificata dalla scoperta di un cancro ai polmoni e di conseguenza dalla necessità di salvaguardare il futuro economico della propria famiglia, in nome della quale diventa lecito commettere qualsiasi crimine o atto immorale. Il finale della serie non sarà una redenzione e nemmeno un’ammissione delle colpe, bensì la dichiarazione di un saper compiere il male e dell’appagamento da esso prodotto. La malattia si rivela un alibi mentre il bisogno di realizzarsi ed eccellere garantiscono la saldatura perfetta tra individualismo e neoliberismo (Pierson 2013). La figura dell’eroe americano sopraffatto dalla società raggiunge le sue conseguenze più estreme e paradossali: se non è possibile cambiare le regole dello stare assieme allora è necessario porsi al di sopra di esse.
Jimmy è sempre stato anche Saul. Nonostante i tentativi di cambiare pelle, lavorando come fattorino presso il prestigioso studio legale di Chuck e la laurea in giurisprudenza presa per corrispondenza, la sua anima truffaldina lo ha segnato fin dall’adolescenza, quando era soprannominato “Slippin Jimmy” (Jimmy scivolone). Jimmy patisce il suo rapporto di inferiorità con il fratello, prova a diventare un uomo migliore, e soprattutto non si sente superiore alla legge ma la raggira creativamente, coinvolgendo i propri affetti, sfruttando a proprio vantaggio l’empatia degli interlocutori e adoperando escamotage che esasperano il comico in grottesco. L’equilibrio tra vittimismo e opportunismo, la commistione tra avversità e imbrogli lo portano a degenerare nella la caricatura di se stesso. Quando il kitsch prende il sopravvento Jimmy diventa Saul, legale dal gusto e dalla morale discutibili, forse inaccettabili ma pur sempre riadattabili.
Individuare e commentare le easter egg disseminate lungo gli episodi di Better Call Saul, rintracciare i rimandi a Breaking Bad e ritrovarne i personaggi genera un piacere visivo che appaga i fan e contribuisce al dibattito nelle community online. Sfruttare le asimmetrie tra il sapere dell’istanza narrante, dei personaggi e quello degli spettatori per generare, sulla scia del cinema di Hitchcock, la suspense; soffermarsi sui dettagli a volte banali per far emergere le relazioni tra soggetti e ambienti fa catapultare le emozioni del pubblico all’interno della scrittura seriale. È sufficiente rivedere l’ultimo episodio della quarta stagione e soffermarsi sulla modulazione passionale compiuta da Jimmy, ancora una volta con il supporto e i rimorsi di Kim, nei confronti della commissione che dovrà valutare la sua condotta e restituirgli la licenza da avvocato. Il giudizio di questi ultimi sarà corrotto da una sincerità e da una emotività costruite a tavolino, attentamente dosate con improvvisazione e spregiudicatezza.
La quarta stagione di Better Call Saul è terminata ma non sono soltanto gli interrogativi sulle sorti di Jimmy a preoccuparci. In fondo già conosciamo gli arredi dello studio dell’avvocato Saul, con la statua della dea Giustizia che campeggia sulla scrivania. Grazie ai flashforward in bianco e nero che aprono le diverse stagioni sappiamo in anticipo che l’azione si è spostata da Albuquerque in Nuovo Messico a Omaha in Nebraska e che la fuga di Saul, almeno per il momento, è andata a buon fine. In un orizzonte seriale in cui tutto sembra essere già deciso, l’interesse si sposta verso il lento e inesorabile allinearsi degli ingranaggi e delle pedine all’interno del meccanismo narrativo, l’attenzione si rivolge verso la tessitura di una trama che si fa sempre più fitta e sui dettagli che da essa provano a smarcarsi.
Riferimenti bibliografici
C. Checcaglini, Breaking Bad. La chimica del Male: storia, temi, stile, Mimesis, Sesto San Giovanni (Mi) 2014.
P. Pierson, Breaking Neoliberal? Contemporary Neoliberal Discourse and Policies in AMC’s “Breaking Bad”, in “Breaking Bad”. Critical Essays on the Contexts, Politics, Style, and Reception of the Television Series, a cura di D. P. Pierson, Lexington Books, Plymouth 2013, pp. 15-32.