Quando si parla di Breaking Bad (2008-2013) si dimentica spesso di dire che la serie da tutti riconosciuta come uno dei capolavori della tv statunitense ha avuto, per la quasi interezza del proprio corso, un pubblico piuttosto ristretto. Per esempio, mentre The Walking Dead (2010) ancora agli inizi veleggiava già verso gli otto milioni di spettatori, numero che avrebbe poi quasi raddoppiato, il finale della quarta stagione di Breaking Bad veniva visto da meno di due milioni di persone, ed era già un miglioramento rispetto a quella precedente. Probabilmente solo l’ingresso nel catalogo Netflix le ha evitato la cancellazione, come ha dichiarato lo stesso showrunner Vince Gilligan: mentre su AMC il pubblico latitava, sulla piattaforma di streaming cresceva. Ed è stata Netfix, quindi, a creare le condizioni perché gli ultimi otto episodi vedessero incrementare geometricamente gli ascolti fino a raggiungere i dieci milioni del finale, creando un’interessante sinergia tra la nuova e la vecchia tv: da un lato visione personalizzata e fuori palinsesto, dall’altro l’eccitazione dell’episodio-evento da vedere in diretta.

L’ascesa degli ascolti di Breaking Bad è stata una sorpresa per tutti: l’anno precedente, durante un tesissimo processo di rinnovo, la Sony era arrivata a considerare l’ipotesi di trasferire la serie su un altro canale. alla fine le parti in causa si erano accordate per un’ultima stagione, pubblicizzando con molto anticipo il gran finale. Tornare indietro a questo punto era impossibile, e si è così creato il paradosso di una serie chiusa proprio nel momento in cui finalmente passava dal cult al mainstream. È probabile però che proprio grazie a questo slancio Vince Gilligan abbia ottenuto carta bianca per uno spinoff basato sull’avvocato criminale (accento su criminale) Saul Goodman, uno dei personaggi secondari di Breaking Bad. Gilligan ha condiviso il titolo di creatore con Peter Gould, sceneggiatore dell’episodio in cui Saul è apparso per la prima volta.

Nonostante alcuni scorci nel post-Breaking Bad, Better Call Saul è un prequel, ambientato nella stessa Albuquerque della serie madre circa sei anni prima dell’incontro tra Saul e Walter White, nel 2002. Saul usa ancora il suo vero nome, Jimmy McGill, e non è un buffone completamente sopra le righe e privo di scrupoli, ma una persona capace di restituire 1,6 milioni di dollari in contanti alle forze dell’ordine perché è “la cosa giusta da fare”. Insieme a Saul/Jimmy torna in scena anche Mike Ehrmantraut, probabilmente uno dei migliori “cattivi con codice d’onore” dai tempi di Omar Little in The Wire (2002-2008). Se Jimmy è sicuramente il protagonista, la guida di Mike acquista progressivamente spazio e storie forse non troppo autonome, tanto che almeno dalla seconda stagione in poi si sente quasi una bipartizione tra i due mondi narrativi contigui ma quasi disgiunti abitati dai due personaggi.

In un’operazione di questo tipo l’“effetto easter egg” (Maio, Rigel 2017, p. 19) è inevitabile, e infatti gli episodi sono pieni di riferimenti espliciti o criptati alla serie madre; altrettanto inevitabile è per gli spettatori andarseli a cercare: uno dei piaceri della visione è proprio riconoscere i riferimenti e rivedere i personaggi già amati. Ma in realtà Gilligan e Gould hanno ridotto al minimo l’interdipendenza tra i due titoli, e non è affatto necessario aver visto Breaking Bad per comprendere appieno Better Call Saul. Per di più, i nuovi personaggi (Chuck, Kim, Howard, Nacho ecc.) sono tra i migliori in assoluto, molto più interessanti e tridimensionali di un Tuco Salamanca che torna a fare lo psicopatico.

A prima vista Better Call Saul sembra ricalcare una struttura simile a quella di Breaking Bad: se la prima stagione racconta la trasformazione di Mr. Chips in Scarface, del timido insegnante Walter White nel boss criminale Heisenberg, nella seconda abbiamo la trasformazione di Jimmy McGill in Saul Goodman, di un avvocato un po’ sopra le righe ma onesto in un buffone privo di qualsiasi scrupolo e devoto al kitsch. Eppure già così è chiaro come la posta in gioco non sia affatto la stessa: in fondo Jimmy, nel diventare Saul, resterà pur sempre un avvocato. Better Call Saul è un low concept: poca adrenalina e bassa posta in gioco, l’interesse è tutto nella psicologia dei personaggi. Da questo punto di vista sembra appartenere a un ciclo della serialità ormai superato: c’è una certa equilibrata alternanza tra trame orizzontali e verticali; scarseggiano tanto i fuochi d’artificio narrativi quanto gli effetti speciali; lo sviluppo delle trame riguarda soprattutto le relazioni tra i personaggi. Questo tipo di racconto viene ormai prodotto molto più facilmente come dramedy da 30 minuti che come serie drammatica da un’ora.

L’istanza narrante, d’altra parte, sembra essere pienamente cosciente di tutto ciò: una delle caratteristiche più evidenti della serie nel suo complesso è il senso di staticità e di attesa, una lentezza ostentata che molti hanno considerato eccessiva. Alla fine della terza stagione, in effetti, Jimmy non è ancora diventato Saul e il suo incontro con il mondo della criminalità non è ancora avvenuto davvero. Si tratta evidentemente di una precisa scelta autoriale, perché la lentezza è spesso in primo piano, in maniera provocatoria: vediamo Kim passare minuti a decidere, nella redazione di un documento, se utilizzare un punto o un punto e virgola; vediamo Mike smontare la sua macchina pezzo per pezzo, con la sua caratteristica metodica pazienza, alla ricerca di un localizzatore satellitare nascosto. Gilligan, d’altra parte, ha detto in un’intervista che raccontare con lentezza è un lusso, e che intendeva distinguere Better Call Saul dal modo seriale tipico di questi anni, che richiede l’asticella della suspense sempre al massimo.

Lo sviluppo delle relazioni tra i personaggi è, in effetti, molto ben rappresentato. Il rapporto tra Jimmy e Kim, affettuoso ma asessuato, è forse una delle storie d’amore più originali mai viste in tv. Il conflitto tra i due fratelli McGill, Jimmy e Chuck, è tanto improbabile quanto intenso e psicologicamente realistico. La backstory di Mike gli conferisce finalmente la profondità che il personaggio meritava, e quando lo vediamo piangere mentre racconta dell’uccisione di suo figlio alla nuora Stacey l’effetto emotivo è devastante. Proprio perché si muove con lentezza, la serie quando colpisce è incredibilmente efficace.

A una narrativa consapevolmente decompressa fa da contraltare uno stile visuale a suo modo spettacolare: regia e fotografia sono di livello molto alto, e spesso sembra di vedere una successione di quadri, solo incidentalmente popolati dai personaggi che conosciamo. Come nella serie madre ci sono i cieli amplissimi, l’orizzonte infinito del Sud-ovest desertico e una grande attenzione all’uso drammaturgico delle gamme cromatiche. Molto meno usati invece i primi piani: i personaggi sono spesso mimetizzati nell’inquadratura, come fossero oggetti di scena. Sia nei frequenti campi lunghissimi, in cui le figure umane sono quasi perse nell’ambiente circostante, sia nei piani medi che sfruttano la geometria delle ombre per confondere i personaggi con oggetti e pareti, la figura umana sembra essere messa in secondo piano, in un universo dove su ogni scelta grava lo spettro delle conseguenze.

Saul è un personaggio grottesco e tutto sommato bidimensionale, dunque non era facile prevedere che la serie costruita intorno a esso avrebbe usato più spesso toni tragici che comici. Come rilevato più o meno da tutti i recensori, i temi fondamentali di Better Caul Saul riguardano la sfera dell’etica, il conflitto tra il voler fare la cosa giusta e la difficoltà di riuscirci. Tuttavia nella trasformazione di Jimmy in Saul e nell’enfasi posta sulle conseguenze di ogni azione mi pare si delinei un altro conflitto, più tragico e stridente, che riguarda invece lo scontro tra immaginazione e realtà, tra il personaggio che ognuno dei protagonisti cerca di costruire per se stesso e l’attrazione centripeta del mondo in cui vive. Chuck, ad esempio, incapace di empatia nei confronti degli altri esseri umani, crea l’illusione della propria malattia per chiudersi in casa, e finisce per autodistruggersi; Kim vorrebbe essere una perfetta macchina da lavoro, e finisce quasi per uccidersi. Jimmy, da parte sua, vorrebbe vivere con il suo stile “colorato”, inventando sempre nuovi giochi, trucchi, piccoli imbrogli. Ma ogni volta deve scontrarsi con il male che le sue azioni causano, fino a dover ammettere, alla fine della terza stagione, di essere più bravo a distruggere che a costruire. Ora che conosciamo Jimmy, la trasformazione in Saul sembra una morte, una rinuncia a Kim e a tutto quello che ha di umano. Eppure, non è nelle giacche colorate di Saul che Jimmy desidera vivere?

Riferimenti bibliografici
C. Checcaglini, Better Call Saul, in Osservatorio TV 2017, a cura di B. Maio, Rigel, Roma 2017.
S. Kornhaber, The Karmic Universe of Better Call Saul, in “The Atlantic”, 5 aprile 2017.
B. Martin, Difficult Men. Behind the Scenes of a Creative Revolution: From The Sopranos and The Wire to Mad Men and Breaking Bad, Penguin, New York 2014.

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