In una nota pubblicata su queste pagine, in occasione del centesimo compleanno di Edgar Morin, Chiara Simonigh ricordava che la radice etimologica della parola complessità è il latino complector, intrecciare. In una delle tre conversazioni che il filosofo Mauro Ceruti ha avuto con il fisico Giorgio Parisi sul tema della complessità l’etimologia latina viene estesa:

Complessità deriva dal verbo latino plectere, che vuol dire intrecciare, unito alla preposizione cum. Potremmo dunque dire che complesso è qualcosa di intrecciato più volte. Complessità evoca una pluralità di componenti, ma anche un’idea di unità: è quasi un ossimoro. Anche il contrario di complesso, cioè semplice, viene da plectere, unito però alla particella sim, e vuol dire intrecciato una volta sola. 

L’Enciclopedia Treccani definisce complessità come un derivato di complesso dal latino complexus, participio passato di complecti «stringere, comprendere, abbracciare». Abbiamo così il significato di complessità «che risulta dall’unione di più parti o elementi», «il tutto, l’insieme, in quanto costituito di più parti o elementi». Complesso è quindi un aggregato di parti interconnesse e interagenti tra di esse. Come indicato dal progetto scientifico e culturale di Ludwig von Bertalanffy, la Teoria Generale dei Sistemi, questo principio euristico può trovare applicazione sia nelle scienze cosiddette esatte o naturali che nelle scienze sociali.

Gli ambienti che questi aggregati, questi sistemi, abitano e creano (si veda il contributo di Trist su come i sistemi creino i propri ecoambienti) sono stati negli ultimi vent’anni definiti ambienti VUCA. Si tratta di un acronimo che sta ad indicare come gli ambienti – cioè i contesti, le situazioni, i mercati, i territori etc. – siano VolatilityUncertainty, Complexity, Ambiguity. In altri termini parliamo di ambienti che rendono improbabile la progettazione e la programmazione a lungo termine, in cui l’informazione a disposizione è sempre insufficiente per prendere le decisioni e per orientare i comportamenti. Ambienti che hanno un connaturato elemento di rischio per tutti i tipi di organizzazioni, siano essi pubbliche o private, di servizio o industriali, for profit o not for profit.

In queste incertezze ambientali è utile, e importante per orientare l’azione, comprendere come funzionino le dinamiche delle interconnessioni e delle interdipendenze. Quali regole seguano i vari elementi quando si aggregano e quando si disaggregano; in altri termini quali sono i principi organizzativi che generano, producono e a cui rispondono i sistemi. Come si organizzano ed interagiscono le parti interne e esterne piuttosto di che tipo di organizzazione si tratti. Stiamo parlando dello shift dal sostantivo (organizzazione) al verbo (organizzare). Questo passaggio, solo apparentemente lessicale, sta ad indicare un passaggio paradigmatico. Passare infatti dal prestare attenzione all’”organizzazione” a privilegiare il focus sull’”organizzare” significa transitare dalla centralità della struttura alla centralità del flusso.

Il paradigma tradizionale e dominante, come ben indicato da Stacey (che parla di circolo vizioso organizzativo), richiede di: 1) analizzare l’ambiente esterno; 2) progettare strutture e processi; 3) allineare l’organizzazione. La velocità dello sviluppo tecnologico, l’incremento delle interconnessioni, la maggiore diversità e gli ambienti VUCA riducono le capacità di previsione e controllo. Questo crea ansia e genera paura di fallimento. Il paradigma di riferimento ha la funzione di proteggere dall’ansia attraverso il meccanismo della negazione; non ci sono alternative possibili: per raggiungere risultati di successo occorre prevedere ed esercitare controllo, senza il quale non ci sarebbe ordine ma solo anarchia. Conseguentemente, le attività di ricerca si risolvono in ricette e leve di cambiamento che possono produrre risultati di successo; dal punto di vista delle pratiche di management l’attenzione è sulla necessità di conoscere prima di agire in modo da esercitare controllo.

Ciò che l’analisi dell’ambiente rileva rende inconsistente previsioni, controllo e ricette da applicare. Tuttavia, il paradigma di riferimento spingerà ad ignorare queste incongruenze, con la conseguenza che quando una ricetta per il successo fallirà verrà immediatamente applicata la successiva “ricetta di salvataggio”. Il paradigma contrasta con l’esperienza concreta. Sebbene esso svolge una funzione difensiva nel breve periodo, alla fine i livelli di ansia aumenteranno al punto che i membri diverranno ostili verso l’organizzazione. Questo rende ancora più difficile prevedere e controllare. Ed il circolo vizioso continua.

Questo passaggio risiede nella caratteristica propria della contemporaneità e che la distingue dalla modernità: la modifica, come dice Perrow, del rapporto tra società e organizzazione. D’altronde che ci fosse un quid ambiguo nella questione lo dice l’analisi etimologica del termine. La radice del termine organizzazione contiene al contempo il contenuto e il contenitore. È qui utile richiamare il concetto di “loose coupling” (“legami deboli”) che aiuta a comprendere le relazioni nelle organizzazioni, tra loro e i loro ambienti (Weick 1995). Il concetto di legame debole implica che le organizzazioni mentre mantengono i loro specifici processi decisionali e la propria agency sono al contempo interconnessi e in una relazione di interdipendenza dal campo/dominio/ambiente. Con il concetto di “legami deboli” Weick ci aiuta a riconoscere che tra le organizzazioni esistono relazioni e connessioni che non sono stringenti, causali o gerarchiche. Connessione e separazione, e quindi confini organizzativi e attività sui e nei confini, non sono due stati separati e autonomi, al contrario sono due fasi di un’interazione dinamica e continua che serve alle organizzazioni per mantenere la propria specifica identità e svolgere il compito primario per cui esistono e operano. I “legami deboli” sono quindi legami organizzativi che connettono le organizzazioni e creano interdipendenza tra i loro comportamenti e le loro azioni.

Questo concetto fa legittimamente parte del paradigma della complessità che si colloca all’opposto degli approcci tradizionali alle organizzazioni fondati sul coordinamento, l’integrazione, il controllo dei processi e delle azioni. Il concetto di “legami deboli” riconosce la transizione dall’organizzazione come struttura oggettiva al flusso delle attività organizzate; come dice Strati, dalle “organizzazioni con mura” (dai confini chiari e ben definiti) alle “organizzazioni senza mura” (dai confini sfuocati e confusi). In queste organizzazioni (o ecologie organizzative) ai leader, ai manager e ai dipendenti è richiesto di operare con un grado elevato di discrezionalità individuale e collettiva.

All’interno di questo approccio allora le anomalie organizzative, le incertezze, le ambivalenze, i confini sfuocati, le apparenti incoerenze rappresentano un legittimo materiale organizzativo su cui lavorare e non una rottura, un’interruzione da prevenire e evitare. La flessibilità organizzativa è quindi incoraggiata e si persegue la negoziazione e l’adattamento interorganizzativo. Tutti gli stakeholders, nell’organizzazione e negli ambienti, sono impegnati nell’autodeterminazione e nell’adattamento reciproco. Dentro questo paradigma tutti gli aspetti “soft” delle organizzazioni sono significativi oggetti di studio: le pratiche sociali all’interno e tra le organizzazioni; i simboli, i riti e le routine come processi che sviluppano appartenenza e identificazione; le storie e le mitologie organizzative. Dopo tutto la questione rimane sempre la stessa: dare e fare ordine alle e nelle faccende umane.

Riferimenti bibliografici
C. Perrow, A Society of Organizations, in “Theory and Society” n. 6, 1991.
R. Stacey, Complexity and Creativity in Organizations, Berrett-Kiehler Publishers, San Francisco 1996.
S. Strati, L’analisi organizzativa. Paradigmi e metodi, Carocci Editore, Roma 2004.
E. Trist, A Concept of Organizational Ecology, in “Australian Journal of Management”, n. 2, 1977.
K.E. Weick, Sensemaking in OrganizationsVol. 3, SAGE, Londra 1995.

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