«Sto scivolando verso una forma di umorismo di cui diffido profondamente» (Pasolini 1999, p. 1442), dichiara a Jean Duflot Pier Paolo Pasolini nel corso della famosa intervista Il sogno del Centauro. Reduce dall’incontro distruttivo con la storia, Pasolini scivola, con un moto quasi involontario, nell’umorismo, indice espressivo della borghesia. Quello che appare l’esito di un ripiegamento – il poeta rientra, «attraverso l’umorismo», nell’ordine (Pasolini 2003, p. 60) – rivela, tuttavia, una straordinaria potenza estetica e politica che trova, nella seconda metà degli anni sessanta, il luogo della propria articolazione nel teatro. Tra il 1966 e il 1967, Pasolini si dedica alla scrittura delle sue più famose tragedie: Orgia, Pilade, Affabulazione, Bestia da StilePorcile, Calderon. Il teatro assurge a un ruolo impensato nell’opera pasoliniana.

Nel testo Le tragedie umoristiche di Pasolini e altre eresie (ETS 2022), Stefano Casi compie un’operazione decisiva: strappando la genesi dell’impegno teatrale di Pasolini alla vulgata che ne farebbe il frutto di un’ispirazione improvvisa, dall’origine quasi mitica (l’attacco d’ulcera che costringe, nel 1966, il poeta ad una lunga convalescenza durante la quale rilegge i tragici greci e i dialoghi platonici), Casi ripercorre le tracce teatrali che ne attraversano l’opera per disegnare una parabola eretica che conduce alla scoperta di una vis umoristica inedita. Il teatro – attività drammaturgico-scenica e pensiero teatrale che lavora nella poesia, nel cinema, nella letteratura, fino all’esito estremo di Petrolio diviene il luogo fisico e ideale in cui Pasolini, deciso a rappresentare per la prima volta il mondo borghese, può misurarsi con il regime di Irrealtà sancito dal neocapitalismo trionfante.

Quando la borghesia, conquistando a sé l’intera umanità, non ha più alcun altro a cui deferire l’incarico della propria condanna, il tentativo di smascherarne la condizione tragica non potrà che assumerne il linguaggio. L’«umorismo santo» dei contadini e dei sottoproletari – trasfigurato negli schemi comico-danteschi della scrittura, nello stile espressionistico del teatro, nello sguardo umanistico-chapliniano del cinema – cede il passo, in maniera strategica e tuttavia «irreversibile» (Casi 2022, p. 58), all’umorismo borghese, al sorriso ironico e dissacratore di chi, ponendo una distanza conservativa tra sé e la realtà, non la vive, ma la possiede, non ne abita le contraddizioni, ma ne elude la potenza affettiva. Attraverso un duplice approccio (drammaturgico e teorico), Casi individua nel teatro la soglia in cui il poeta, precipitandosi in una lingua in grado di fagocitare ogni alterità, instaura una nuova interrogazione sulla realtà, sui corpi che la abitano, sulle parole che la evocano.

Se ne La Ricotta la vita di Stracci appare, insieme, tragica e comica, grazie alle accelerazioni da pellicola slapstick che ne precedono la morte; se, in fondo, comica appare la vita di Totò e Ninetto che, nella favola Uccellacci Uccellini (luogo di un intenso corpo a corpo del regista con il teatro epico-ideologico di Brecht) si allontanano, moderni Charlot, sulle vie desolate della Nuova Preistoria, le vite dei protagonisti borghesi delle tragedie risuonano sul palco – immaginato nelle sceneggiature, sperimentato con la messa in scena di Orgia nel 1968 – come anomale e aberranti «barzellette tragiche» (Casi 2019, p. 155).

Il Padre che, in Affabulazione, vuol vedere il sesso del figlio e finisce per ucciderlo e girovagare insieme a un barbone; l’Uomo che, in Orgia, dopo una sessione sadomasochistica finisce per impiccarsi in abiti da donna; Julian che, in Porcile, amando i maiali, ne finisce divorato; Pilade che si oppone, mite e ridicolo, alla modernità democratica sancita da Oreste; Rosaura che, in Calderon, si sveglia ogni volta in un luogo diverso senza riconoscerlo, divengono vettori umoristici e ambigui di una verità borghese assolutamente «adamantina» e «inscalfibile» (Casi 2022, p. 66), che si iscrive, in maniera “un po’ mostruosa e folle”, nell’inattualità tragica dei versi, nel fitto tessuto di una matassa verbale esposta fino al limite della logorrea.

Tragedia umoristica è il primo titolo che Pasolini riserva alla tragedia Affabulazione; “tragedia linguistica” è la definizione che Pasolini dà alla tragedia Orgia. Nel movimento tra queste due espressioni, sotto il segno del bifronte lemma umorismo, «teatralità della riflessione teatrale» (ivi, p. 98) e riflessione linguistica, scrittura drammaturgica e pratica scenica si contaminano, aprendo nuove deviazioni nelle sperimentazioni con cui Pasolini si confronta. Se umoristiche possono essere definite sin dal principio le tragedie proprio in quanto borghesi, se l’umorismo che si iscrive tra i versi costituisce il cemento delle opere, è l’assunzione radicale del dispositivo di distanziamento che esso implica – la produzione incessante di ulteriori, umoristici dislocamenti – a minacciarne l’implosione (ivi, p. 55).

Il disequilibrio che, sin dall’esperienza di Nel 46! (tragedia licenziata nel 1965, sulle orme della lezione di Carmelo Bene), trascina la struttura narrativa della tragedia in un vertiginoso stato allucinatorio; la visionarietà che cattura lo sguardo dello spettatore in un intreccio centrifugo di immagini tanto potente da cristallizzarsi nell’immobilità dei tableaux vivant; gli slittamenti linguistici che, sin dalla fantasia cabarettistica Italie Magique (1964), trasformano la parola nell’espressione di un’indecidibilità concettuale e ontologica, installano nelle tragedie borghesi un’irrecuperabile inclinazione dell’asse percettiva, tanto intensa da tradurre ogni umoristico distacco in uno scollamento radicale, che coinvolge e compromette persino la parola, il corpo, la voce.

Così, in Orgia, la percezione, alterata fino a rovesciare il rapporto tra realtà e sogno, spalanca la frattura tra “la gesticolazione oscena” e la parola chiamata ad esprimerla e, in Affabulazione, il teatro ri-vela, nell’inversione speculare del mito edipico, il mistero di una realtà impenetrabile alla parola logico-deduttiva. «Non parlare la parola, ma la cosa» (Pasolini 2001a, p. 851) vorrà dire, allora, dilatare ogni distanziamento fino a produrre un «cortocircuito» iper-umoristico tra l’enunciazione e il corpo sofferente che, di fronte al pubblico, la de-clama, tra la realtà e la sua rappresentazione (Casi 2022, p. 83).

Rompendo il flusso naturalistico della prosaicità borghese – che risolve i rapporti tra parola e cosa nella trasparenza della referenzialità – e la temporalità omogenea di quel “teatro in natura” che è la realtà («La vita è uno spettacolo, dunque, sempre», afferma l’Uomo in Orgia), la Parola sorge catturando in una mania monologante i corpi, irrimediabilmente scissi e, tuttavia, inseparabili dalla verbosità che li attraversa.

Nell’incarnazione scenica di Orgia, la parola, nell’uso parossistico e straniante dei microfoni, eccede con straordinaria potenza la propria funzione segnica o simbolica, incidendosi dolorosamente su corpi divenuti, attraverso l’abile riduzione dello spazio scenico, figure assolute, abnormi come sculture di un templio greco (ivi, p. 90). Incapace di dirne il linguaggio muto («Quale spettatore non ci avrebbe compresi/ANCHE SE NON AVESSIMO DETTO UNA PAROLA?»; Pasolini, 2001a, pp. 275-276), la parola poetica ne evoca, sul palco, il misterioso pragma, esibito e sottratto alla sua pura presenza.

Nella sublimazione astratta del verso, i personaggi che soffrono, piangono e tremano, dicono di piangere, tremare e soffrire, mentre i loro confini, risucchiati «come nei quadri di Bacon» (Casi 2019, p. 159), sono dalla parola segnati e destituiti. Il corpo, «né totalmente presente né semplicemente assente, né visibile né totalmente invisibile, né dicibile né indicibile» (Hervé 2011, p. 15), infesta lo spazio violentemente fisico e apparentemente sincronico del teatro come uno spettro, vitale e immobile, mentre la parola abdica, in una caduta insieme tragica e umoristica, a ogni funzionalismo psicologico o drammatico.

Se già la recitazione dei versi impone ai personaggi-attori «immersi nel loro stato borghese fino agli occhi» (Pasolini, 2001a, p. 327) di esprimersi come illuminati da una coscienza incollocabile (tra l’autore e l’attore), più radicalmente spettrale e umoristica è la phonè che erompe – elementare, elefantiaca – nell’avvicendarsi degli effluvi verbali. L’urlo, «non si sa se più ridicolo o drammatico» (ivi, p. 234) che, in Bestia da Stile, lo Spirito della Madre giustappone all’emorragia poetica del protagonista Jan, consegna la parola, insieme, al proprio corpo sonoro e al fantasma della vocalità che la abita. Irriducibile ad una prospettiva verbo-logo-centrica, essa diviene «partitura fisico-musicale» in grado di ricucire lo iato tra corpo e parola (Casi, 2022, p. 84), senza produrre, tuttavia, alcuna conciliazione.

Così se il “teatro di Parola” – scrive Pasolini nel suo umoristico e provocatorio Manifesto per un nuovo teatro (1968), fratello antinomico delle tragedie – non può esercitare la sua funzione dialettica originaria che in una comunità omogenea – quella del paìs casarsese o della polis moderna –, in un’orizzontalità dialogica tra autore, attore e spettatore, tale esercizio non risponde, sin dall’esperienza drammaturgica, ad alcun principio di ri-composizione.

L’ambiguità di Rosaura e Julian, che giunge a trasformare l’afasia, malattia cronica della borghesia, in diserzione dell’ordine anatomico e il non-sense in grazia; l’inversione parodica che, in Calderon, ribalta la «ricostruzione patetica» del dipinto di Velasquez Las Meninas nell’immagine di un lager nazista, trascinando lo spettatore sulla scena fino a inchiodarlo e accoglierlo nello sguardo sovrano dell’autore; il dibattito tra il regista e gli studenti africani che, nel film-teatro Appunti per un’Orestiade africana, installa nel cuore dell’opera (secondo i principi enunciati nel Manifesto) i presupposti della propria destituzione, rispondono – nonostante le differenze e le apparenti inconciliabilità – alla medesima urgenza: introdurre, nella pacifica “normalità” borghese, un conflitto che, senza alcuna possibile sintesi o catarsi, consegni la democrazia a ciò che eccede ogni pretesa democrazia, il teatro a ciò che eccede ogni aspettativa sul teatro.

Tra l’empirismo tragico dell’esperienza drammaturgico-scenica e l’«empirismo teorico» del Manifesto; tra l’operazione tragica e umoristica che, nell’epoca dell’immanentizzazione borghese di esistenza e lingua, colloca parola e corpo in un luogo interstiziale, insieme in scena e fuori scena, e quella che, nel Manifesto, rifiuta la tradizione del teatro borghese fino a decentrare radicalmente teatro («Il  teatro di Parola ricerca il suo “spazio teatrale” non nell’ambiente ma nella testa”» giunge a scrivere Pasolini) e polis, può apparire uno scarto insaturabile, che evoca il nome di un’altra politica.

Nelle alleanze eretiche con cui Casi conclude il volume, persino nel riso infernale di Petrolio e Salò, l’umorismo, assunto da Pasolini fino a trasformare la tragedia in farsa, fino a esporre un’immedicabilità che giunge a contaminare la propria stessa scrittura, sembra rilanciare una sfida irrinunciabile. «Il teatro dovrebbe», ancora, «essere ciò che il teatro non è» (Pasolini 2001b, p. 2482): perché «la democrazia non sta in nessun luogo» (Pasolini 2001c, p. 1998).

Riferimenti bibliografici
S. Casi, I teatri di Pasolini, Clueb, Bologna 2019.
S. Hervé, Un spectre hante le théâtre – le spectre du corps. Le corps dans le théâtre de Pier Paolo Pasolini, in AA.VV., Les corps en scène, Acteurs et personnages pasoliniens, Fabrizio Serra, Pisa-Roma 2011.
P.P. Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, in Saggi sulla letteratura e sull’arte II, Mondadori, Milano 2001b.
Id., Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999.
Id., San Paolo, in Per il cinema I, Mondadori, Milano 2001c.
Id., Teatro, a cura di Walter Siti, Mondadori, Milano 2001a.
Id., Tutte le poesie II, Mondadori, Milano 2003.

S. Casi, Le tragedie umoristiche di Pasolini e altre eresie, ETS, Pisa 2022.

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