Pier Paolo Pasolini era uomo di lettere e artista plurale. Un poco come certi grandi delle età passate, spaziava e si appropriava di una molteplicità di tecniche e di generi, nel suo caso narrative, cinematografiche, figurative. Probabilmente in nome di una espressività totale. Era anzitutto uomo di lettere, quindi di poesie, di saggistica (spesso raffinamenti del continuo lavorìo di editorialista per i quotidiani nazionali) e di narrativa. E tra questi differenti generi e stili è difficile stabilire dove cominci la letteratura, intesa quale espressione artistica, e dove, invece, l’indagine sociale e, in generale, la saggistica; partizioni che perdono di importanza quando si considera l’autore de Le ceneri di Gramsci, di Poesie di forma di Rosa, degli Scritti Corsari, di Ragazzi di vita e di quel grande romanzo incompiuto che è Petrolio, vera e propria testimonianza del delirio di potere di un’epoca con cui, come paese, non abbiamo ancora fatto i conti.

Autore di cinema, era in grado di padroneggiare le tecniche più sofisticate e al contempo di fare sperimentazioni; i più attenti a simili questioni notano come facesse già uso delle riprese a mano, e sono attenti al suo particolare utilizzo della luce naturale nelle riprese in esterni. E poi il ricorso a lunghi piani sequenza e a tecniche, allora innovative, di montaggio. Elementi che sostengono il suo cinema e che però quasi sfumano discretamente nello scorrere di pellicole come Accattone, Mamma Roma, Salò, Edipo Re.

C’è ancora il Pasolini autore di teatro, attività che cominciò molto presto (scrive il primo dramma, La sua gloria, nel 1938 quando aveva appena quindici anni) e che lo accompagnò pressoché per tutto il suo tragitto di artista e di intellettuale, fino ad arrivare alle opere mature che si spingono sulla soglia terminale della sua vita: Orgia, Pilade, Affabulazione, Porcile, Calderon, Bestia da stile.

Meno nota è la sua attività di pittore, innescata forse dall’incontro universitario con il critico d’arte Roberto Longhi, di cui fu allievo universitario tra il 1941 e il 1942. Un incontro che lo spinse ad aprirsi alla immagine, alla figuratività, soprattutto attraversando, da studente metodico, le opere classiche, Masaccio e Caravaggio soprattutto. Eppure Pasolini che si cimentava con la pittura, pur così ispirato dai classici, mostrava con quell’arte un rapporto fisico, corporale, poco mediato, almeno agli inizi:

“Solo l’idea di fare qualcosa di tradizionale mi dà la nausea, mi fa stare letteralmente male. Anche trent’anni fa mi creavo delle difficoltà materiali. Per la maggior parte i disegni di quel periodo li ho fatti col polpastrello sporcato di colore direttamente dal tubetto, sul cellophan; oppure disegnavo direttamente col tubetto, spremendolo” (https://www.cittapasolini.com/post/pier-paolo-pasolini-e-il-suo-rapporto-con-la-pittura).

Un tratto molto personale dal quale prese corpo una discreta produzione pittorica che sarà l’oggetto di una mostra in corso di realizzazione a Roma, alla Galleria di Arte Moderna, dal titolo “Pasolini pittore”, in occasione del centenario della nascita.

Questo vagare, pur estremamente meditato, tra tecniche, stili e poetiche, si articola in una ricchezza di occasioni di osmosi e di contaminazione da cui nascono curiosi e prolifici giochi di specchi. La sua poesia è stata definita sorta di saggistica sociale e la sua saggistica è ricca di elementi tipici della intuizione artistica e poetica (a partire dall’uso delle metafore che diventano immagini sintetiche di un’epoca); il suo teatro è stato definito “teatro di poesia” per la particolare centralità data alla parola. In maniera analoga, il suo cinema è stato definito “di poesia”, anche se per comprenderne le caratteristiche più rilevanti è ancora più importante ricordare le contaminazioni pittoriche: tornando al suo rapporto con Longhi, pare che proprio da questi avesse maturato la predilezione per i primi piani e per quel particolare uso della luce che sembra trattenere il riverbero visuale delle opere classiche.

Bisogna allora scavare in questa inquietudine espressiva, in questa incapacità di trovare completezza nella pluralità di generi, tecniche e stili che usa, necessità continua di richiami incrociati. Magari per trovare non tanto un banale principio di continuità, ma un vero e proprio principio di identità. Quando a Pasolini venivano rivolte domande circa la cifra teorica delle sue opere (oggetto di approfonditi studi per un grande numero di studiosi italiani e stranieri), rispondeva, grossomodo, che quella tensione teorica è soltanto un’illusione, che ha al centro una presa di posizione nei fatti e nelle vicende della sua epoca attraverso il corpo.

Ecco quindi una traccia a partire dalla quale va cercata quella cifra comune. I mezzi espressivi sono gli strumenti incompleti a disposizione di un corpo inquieto e ostinato a vivere fino in fondo la sua vita in una epoca che produce strazio. L’intuizione mi viene da Pier Aldo Rovatti, che mise in evidenza, un decennio fa, come gli Scritti corsari siano nati da una presa prospettica esistenziale, dove l’aggettivo, lontano da ogni traccia filosofica, ha sede in un corpo che si immerge nel presente, con tutto lo strazio – appunto – che questo provoca. Sfondo esistenziale di questa vita e di questo strazio è quel capitalismo avanzato industriale e sempre più focalizzato sul consumo. “Cataclisma antropologico” lo definiva il poeta ansioso di viverlo nel corpo “esistendovi” – esattamente così disse all’amico Alberto Moravia.

Lo strazio gli veniva dalla constatazione della fine di un mondo – da qui l’espressione “cataclisma antropologico” – che veniva eroso e fagocitato nella logica del capitalismo, asservito, stravolto fino al grottesco (si pensi alle descrizioni dei marginali, abitanti al confine dell’opulenza). Ne nasce una bellissima metafora ormai celebre, quella delle lucciole, dove il saggio contenuto negli Scritti corsari perde quel tono distaccato per incarnarsi nell’aura letteraria:

Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta).

La metafora è uno dei modi che l’arte ha per conoscere e per proporre conoscenza. La scomparsa di esserini minuti, privi di importanza se non per il bambino incantato da quella magia inutile, è simbolo di una concatenazione che porta al cataclisma del mondo dell’infanzia, dei padri, delle tradizioni. È l’arrogante avvento di una industrializzazione che priva gli individui del loro mondo; e questi sono a loro volta portati all’assenso nell’illusione narcotizzante del luccichìo dei consumi.

Pasolini diventava testimone attivo, partecipante della sofferenza e dello strazio, della pena per la perdita di un passato che cadeva sotto i colpi della modernizzazione. Ma prima di tutto lo viveva col suo corpo che pretendeva di portare i segni di quell’apocalisse. Questo esistere dentro i processi, quindi, è tratto comune tanto dei saggi quanto del suo cinema, tanto della poesia quanto della narrativa. È illuminante a questo riguardo leggere quanto scrive nella prefazione a Poesia in forma di rosa, titolata “Al lettore nuovo”: «Non si può negare che un certo modo di provare qualcosa si ripete identico di fronte ad alcuni miei versi e ad alcune mie inquadrature». Quel “provare qualcosa”, ancora una volta, mette in gioco il corpo che si ostina a vivere, che poi significa sentire, percepire, appunto “provare”.

Pasolini visse pienamente quel mondo, considerando il ritrarsi una fuga. E lo faceva in tanti modi: calciatore di discreto successo, orgoglioso del corpo atletico e asciutto; tra ragazzi di vita nelle periferie delle città, zone liminali esposte all’opulenza che lascia spazio a quella grottesca mimesi. Vi è poi il Pasolini che scriveva da intellettuale raffinato sì, ma soprattutto critico, irriverente, acuminato, capace di provocazione, non su fogli confortati dall’aura di semiclandestinità, ma sulle testate giornalistiche di tendenza dominante, rappresentanti di quel composito blocco sociale e di potere responsabile dello strazio.

Pasolini morì il 2 novembre del 1975, sul Lido di Ostia, questa volta straziato materialmente: massacrato di botte, poi dilaniato nel corpo dai ripetuti passaggi della sua stessa autovettura, una fiammante Alfa Romeo Giulia 2000 GT Veloce. Al di là delle responsabilità, delle ricostruzioni più o meno complottistiche o politiche di quel delitto, al di là della stessa verità storica, credo che in quella morte si possa intravvedere, in un controluce simbolico, la filigrana del compimento di quello strazio.

Bruno Moroncini in un recente volume, La morte di un poeta, solleva un punto scomodo: non abbiamo fatto i conti con la morte di un poeta, e tutto il discorso, durato oltre un quarantennio, sulle ragioni della morte di Pasolini, ragioni politiche, omofobiche, a volte entrambe, mette in ombra che non abbiamo più a disposizione una voce critica. Troppo presi dal conforto dell’illusione emancipativa, ci siamo sbarazzati della parte più poetica di Pasolini, che è anche la parte più scomoda e urticante, proprio perché vissuta con quel corpo, mentre teniamo il nostro troppo riparato rispetto all’incombere del cataclisma.

Riferimenti bibliografici
B. Moroncini, La morte di un poeta. Potere e storia d’Italia in Pasolini, Cronopio, Napoli 2019.
P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2011.
Id., Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano 2014.
P.A. Rovatti, “Che cos’è uno scritto corsaro”, in Aut Aut numero monografico Inattualità di Pasolini, n. 345, 2010.

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