Nel saggio Fame di realtà, David Shields ci ricorda che l’etimo di “fingere” richiama l’atto di “plasmare”, “foggiare”, “dare forma”. “Modellare” le cose, dandone altre configurazioni, e dunque immaginare, simulare. Insomma, la realtà con altri mezzi. Ma cosa ci interessa della realtà quando facciamo esperienza di un’opera di finzione? Tutto, verrebbe da rispondere. Perché in effetti la realtà ci accompagna come la condizione di possibilità del senso stesso dell’opera: un film di fantascienza sovverte alcuni elementi del reale, non tutti, pena l’inintelligibilità. E del resto (ma la domanda è fin troppo antica) è anche solo concepibile qualcosa di totalmente svincolato dalla realtà?
Nell’opera di finzione non è tanto importante la realtà della sua referenza – il fatto cioè che racconti una storia vera – ma l’effetto di realtà che l’opera scatena nello spettatore, e che lo spinge a riconoscere il mondo rappresentato come qualcosa che lo riguarda. Chissà se le piazze di spaccio di Gomorra – La serie sono veramente così come le rappresentano, a vederne il grado di dettaglio e la specificità sembrerebbe proprio di sì. L’accuratezza è una qualità, spesso presunta, che lo spettatore attribuisce all’opera e lo induce a un riconoscimento, come se il testo dicesse: questo è un pezzo del tuo mondo, e in quanto tale ti appartiene e ti interessa. Il valore assoluto che attribuiamo all’effetto di realtà – la fame di realtà di cui parla Shields – sembra resistere indipendentemente dall’oggetto della storia. Non si può certo dire che Game of Thrones sia un racconto realistico, eppure i costumi, le location, il trucco e le acconciature suggeriscono un’idea di Medioevo che, affondando le sue radici nell’immaginario collettivo, rende digeribile anche l’entrata in scena di draghi e creature zombie.
Ma veniamo al punto. Il formato seriale intrattiene un qualche rapporto privilegiato con la realtà?
Le serie (non solo tv, si pensi all’universo Marvel o a Star Wars) sembrano contenere in sé risorse specifiche in grado di inaugurare veri e propri mondi narrativi e non semplici storie. Esse si presentano come dispositivi in grado di produrre racconti potenzialmente infiniti, matrici che generano storie perpetue. Come ci riescono? Grazie a un certo rapporto che intrattengono con il tempo. E non soltanto in senso quantitativo: se le serie riescono così bene a configurare mondi, ciò non si deve meramente alla loro durata, ma alla qualità del tempo che dispiegano. Perché quella delle serie è una temporalità non orientata verso la fine, e dunque, in qualche misura, “insensata”.
La struttura di senso di un film, ciò che ce lo rende comprensibile e apprezzabile, prevede una storia che corre in direzione della sua risoluzione. Tant’è vero che la fruizione corretta di un lungometraggio consiste in una visione finita, dall’inizio alla fine. Viceversa, non è previsto che una serie sia conclusa nello spazio di un’unica visione (anche se può accadere col bingewatching). Perché le sue strutture narrative non sono fondate su una dimensione teleologica del racconto, ma piuttosto sul paradigma della ripetizione. E dove altro è che facciamo esperienza di questo paradigma? Nella realtà. Il tempo della vita, come quello delle serie, non inizia e non finisce, ma è sempre in mezzo, in un’ideale progressione che si ripete all’infinito.
Seguendo questo ragionamento, l’analogia tra il tempo seriale e il tempo “reale” risulterebbe tanto forte da giustificare una certa specificità delle serie nel creare mondi, cioè oggetti spazio-temporali che l’immaginazione possa abitare come se fossero reali. Questo, forse, potrebbe essere uno dei motivi per cui vogliamo così bene a quei personaggi seriali che tornano, anno dopo anno, proprio come se avessero una vita che va avanti anche mentre non li guardiamo.
Tutte le serie dispiegano mondi, ma non sempre è semplice coglierne questo aspetto specifico. Appare infatti controintuitivo assegnare ad opere come True Detective o Fargo lo statuto di serie anziché, ad esempio, di lunghi film. E infatti, e per paradosso, il potere delle serie nel creare realtà sembra visibile in modo eclatante tutte le volte che queste ci portano “ai confini della realtà”, ovvero quando il racconto si avventura in territori come fantastico, sci-fi o soprannaturale (per una recente disamina di queste categorie, si veda il saggio di Mark Fisher, The Weird and the Eerie). “Generi” in cui il potere della serie si mostra in tutta la sua forza perché, nel raccontare un mondo, definisce anche regole metafisiche di funzionamento dello stesso. Twin Peaks, Lost, Les Revenants, Stranger Things, The Leftovers, Game of Thrones, Dark: pensare di ridurre queste serie a delle semplici storie è un’impresa gnoseologica impossibile, ed è anche il motivo per cui il loro finale non può che essere “deludente”.
Come si fa a finire un mondo? Viceversa, si comprendono se si considerano come un insieme di pieghe spazio-temporali e metafisiche, cioè realtà uniche e irripetibili. Cosmologie sovvertite, spazi di pura meraviglia, in cui deflagra l’orrore o la magnificenza: nel dominio dell’irreale esperiamo la vertigine di un mondo narrativo senza bordi, grande quanto l’intelligenza che riesce a immaginarlo. E non è più soltanto questione di effetto di realtà, è che la serie istituisce un universo che sta lì per noi e al tempo stesso indipendentemente da noi. Stranger Things ci riguarda perché è ambientato nell’infanzia collettiva degli anni ’80 ma soprattutto Stranger Things ci offre una vera e propria esperienza di mondo, quando ci trasferiamo nella sua realtà di Sottosopra, Demogorgon e biciclette.
Eppure, c’è ancora qualcos’altro da considerare.
Perché se la realtà, intesa come effetto, sensazione di mondo, finzione, intrattiene un rapporto speciale con il seriale, di contro è il reale, inteso come l’Altro dal testo, la referenza, ciò che è là fuori, a ribadire anche al formato seriale la sua irriducibilità. Per dirla meglio: il reale è sempre più della sua rappresentazione, e le serie non fanno eccezione a questa regola. Le docu-serie non sono altro che documentari lunghi, non aprono mondi, raccontano storie, proprio come i film. Dispongono di possibilità di racconto quantitativamente superiori ma qualitativamente identiche a un lungometraggio. The Jinx, Making a Murderer, Wild Wild Country, si “limitano” a raccontarci la loro verità, giocando col nostro stupore di fronte alla constatazione che ciò che vediamo sia accaduto davvero. Non istituiscono nuovi mondi perché il mondo nel quale si muovono i loro racconti è già sempre anche quello dello spettatore. È l’Altro dal testo, ciò che sta al di qua dello schermo. Una storia vera ha sempre luogo nel nostro universo. Ma è pur sempre una “storia”, e dunque inizia e finisce, fallendo nel tentativo di esaurire l’eccesso di senso della sua referenza, mancando la sfida impossibile di risolvere l’interezza della realtà nel racconto.
E dunque eccoci al paradosso per cui anche se la temporalità del formato seriale si avvicina in modo speciale a quella della vita reale, le serie non riescono a raccontare in modo speciale la vita reale. O almeno questa potrebbe essere un’ipotesi di lavoro.
Riferimenti bibliografici
M. Fisher, The Weird and the Eerie, minimum fax, Roma 2010.
D. Shields, Fame di realtà, Fazi Editore, Roma 2010.