Napoli, città porosa. La celebre definizione coniata da Benjamin, insieme alla regista e attrice lettone Asja Lācis – esponente di punta dell’avanguardia teatrale russa –, in un lungo articolo pubblicato nel 1925 sulla “Frankfurter Zeitung”, sembra oramai diventato un consunto luogo comune dopo essere stato riproposto innumerevoli volte negli ultimi decenni. Eppure, riflettendo con attenzione, l’espressione conserva ancora una sua efficacia, vicina alla pregnanza semantica affidatale da Benjamin. Caso strano. Da attribuirsi alle capacità vaticinanti di Benjamin e Asja Lācis oppure alla mancata evoluzione di Napoli, al suo irrigidimento in un passato anacronistico, spesso sottolineato dagli storici anche secondo prospettive diverse? A entrambi i fattori. Certo che leggendo le pagine di questo articolo, o breve saggio, è difficile non proiettarle sul presente, leggerle come un fedele resoconto, antropologico e architettonico-urbanistico, della Napoli attuale. Bastano poche osservazioni:

La città ha un aspetto roccioso. […] L’architettura è porosa quanto questa pietra. Costruzione e azione si compenetrano in cortili, arcate, scale. Ovunque viene mantenuto dello spazio idoneo a diventare teatro di nuove impreviste circostanze. Si evita ciò che è definitivo, formato. Nessuna situazione appare come essa è, pensata per sempre, nessuna forma dichiara il suo “così e non diversamente” (Benjamin, Lācis 2001, p. 39).   

Sono proprio questi, ancora oggi, i connotati distintivi impressi sia nell’architettura di Napoli sia nei rituali della sua vita collettiva, irripetibile intreccio di arcaismo e ipermodernità. Tutto continua a “compenetrarsi”, ad annodarsi in uno spazio che, nelle cavità porose della sua forma urbana, riesce ad assorbire anche le “nuove impreviste circostanze”, lasciando così buchi e varchi sempre aperti. Quelli nei quali si è infiltrato, per poi insediarsi saldamente, l’allarmante overtourism che si è riversato nell’ultimo quindicennio (sul quale si è soffermata con l’intelligenza e l’autonomia critica che da tempo la distingue Lucia Tozzi, tra le più incisive esperte delle nostre politiche urbane, nel volume Napoli. Contro il panorama, arricchito dall’ampio apparato fotografico di Giovanna Silva). Un fenomeno davvero inquietante se si pensa che il richiamo privilegiato proviene, accanto al centro storico, oramai impraticabile, dai cosiddetti Quartieri Spagnoli, che rimangono tutt’ora tra le aree maggiormente degradate della città. Da vari anni è questa, non certo il Museo archeologico (tra i più importanti al mondo) o la Reggia-Museo di Capodimonte, la meta obbligatoria per la folla di turisti – ne sono previsti venti milioni solo per il 2025 – incuriositi e stupefatti. Aggirandosi con evidente soddisfazione in un labirinto di vicoli malfamati, costellati dai celebri bassi sopra i quali sono allineate le trafile di panni stesi (lenzuola, biancheria intima e abbigliamento di varia tipologia) dalla sovraffollata popolazione del luogo, dopo una lunga e paziente ascesa le torme di pellegrini possono finalmente contemplare il gigantesco murale che ritrae Maradona, divenuto rapidamente, insieme al Vesuvio, la nuova icona della città.

Ma a Napoli, osservano Benjamin e Asja Lācis, «nessuna forma dichiara il suo “così e non diversamente”», la compenetrazione e l’osmosi tra «cortili, arcate, scale», stili e forme di vita, tradizioni e modelli antropologici, trovano un radicamento talmente capillare da integrare e sovrapporre caoticamente le istanze tra loro più remote, se non addirittura conflittuali. «In angoli come questi – continuano Benjamin e Asja Lācis – è difficile distinguere le parti dove si sta continuando a costruire da quelle ormai già in rovina. Nulla infatti viene finito e concluso» (ibidem). 

Non a caso, a meno di due anni dalla morte, l’eco della voce di Enzo Moscato, da vari decenni considerato unanimemente tra i maggiori talenti del teatro italiano, risuona con intatta vitalità. Anzi le sue fabulazioni visionarie stanno moltiplicando il loro magnetismo, disseminandosi lungo l’intrico di vicoli e la topografia scoscesa che, secondo Benjamin e Asja Lācis, hanno qualcosa dello “sfarzo tellurico”. Definizione che si adatta perfettamente anche alla lingua e alla presenza scenica di Moscato, agli strappi inconfondibili di un’avidità pulsionale che trova qui, nei Quartieri Spagnoli dove è cresciuto – senza le masse vaganti di turisti e senza il murale di Maradona –, la sua origine. Animato dal furore di una perpetua instabilità, Moscato ha fatto di Napoli il suo baricentro, per sottoporlo, però, a un tradimento continuo proveniente dalla commistione con le più sofisticate esperienze estetiche e filosofiche dell’intero Novecento europeo. È quanto ribadisce egli stesso in un testo del 2018, Da una Festa a un Compleanno e da un nuovo Compleanno a un’altra Festa: «Ho potuto in pari tempo affrancarmi da Napoli (conquistare intellettualmente il resto del mondo affrancandomi da Napoli) e parimenti conservarla, averla dentro, trarne continua e positiva ispirazione, nello scrivere e nel far teatro. Ed è per questo che in me, in quanto autore, si trova l’alto accanto al basso, il destro ed il sinistro, il colto e il plebeo» (Le scritture del Grande Infante 2025, p. 16).

Questi stridenti contrasti sono al centro delle Scritture del Grande Infante. Sull’opera-vita di Enzo Moscato, pubblicato da Cronopio, l’editore che, negli ultimi anni, è stato scelto da Moscato tra gli interlocutori privilegiati, dando alle stampe nel 2017 i Ritornanti. Adattamento filmico della pièce teatrale «Spiritilli» e nel 2020 Archeologia del sangue (1948-1961), prima parte di un’autobiografia “creativa” che avrebbe dovuto avere un seguito in altre due sezioni. Che tale progetto sia stato concepito come un colloquio con Moscato lo conferma la sua singolare elaborazione, prevista attraverso un confronto critico degli autori con lui, partecipe interlocutore dei vari contributi che poi sarebbero confluiti nel libro. Di questo cantiere critico è rimasto, però, a causa della scomparsa del geniale drammaturgo (spesso anche regista e attore), solo l’incontro relativo all’intervento di Matteo Palumbo, rivolto, con particolare vigore interpretativo, a ricostruire il rapporto, oltremodo aporetico, intrattenuto da Moscato con la geologia culturale della sua città: epicentro intorno a cui ruota fin dall’inizio ogni segmento di ardori e furori teatrali sempre cupi, ma insieme smaglianti, avvinti a ogni frammento della storia e della vita napoletana mentre le sono intimamente avverse. «Il ruolo che Napoli assume – scrive Palumbo – non è accostabile a modelli già fissati. Non implica nessuna prigionia dentro le visioni che la città porta incise nel proprio corpo, Moscato, al contrario, eccede la tradizione. Se ne impossessa e la riusa, producendo dissonanze e rivolgimenti. La città e la lingua che le appartiene subiscono una torsione radicale» (ibidem). 

Non c’è nulla di strano. Moscato, infatti, è l’unico artista napoletano, nel corso dell’intero Novecento e in questo scorcio del nuovo millennio, a risultare pienamente consapevole (grazie alla sua straordinaria cultura, messa già alla prova dalla laurea in filosofia con una tesi su Lacan) del nodo inestricabile che stringe, etimologicamente, il termine di tradizione a quello di tradimento. Il verbo italiano tradire viene dal latino tradĕre che significava in primo luogo consegnare, affidare. Da un simile plesso semantico è derivato il termine tradizione, che indica l’atto di trasmettere un patrimonio condiviso di usanze, schemi comportamentali e procedure cognitive. In una seconda accezione, più tarda e ristretta, il verbo latino poteva riferirsi anche alla consegna di qualcosa che, invece, avrebbe avuto bisogno di protezione, indicando, di conseguenza, il venire meno ai propri doveri, l’abdicazione ai vincoli della fedeltà.

Nel crocevia di una divaricazione così lacerante va ricondotta e interpretata l’opera drammaturgica di Moscato. Ogni richiamo alla tradizione si esprime, per lui, all’insegna di un clamoroso tradimento, calibrato sempre con estrema attenzione. A partire innanzitutto dal linguaggio di volta in volta impiegato, medium decisivo dei suoi tradimenti, o meglio delle sue “tradinvenzioni”, per riprendere lo sfrontato neologismo da lui coniato nei primi anni del duemila, sulla cui genesi e articolazione insiste Antonia Lezza in uno dei saggi compresi nel volume, che si conclude con una sequenza di appunti inediti lasciati da Moscato. Davvero preziose, come testimonia il nitido e incisivo riepilogo relativo alla improrogabile necessità dei suoi “tradimenti” linguistici. Così ne descrive la genesi: «Più che ricerca, allora, di un luogo (in tutti i sensi), il teatro, semmai, è essere “tra” i luoghi – pellegrinaggio, vagabondaggio, nomadismo inesausto e fuga instancabile dal già visto, dal già udito, dal già noto, dal già vissuto. […] Lo spaesamento, l’essere stranieri, strani, estranei, rende impossibile l’apprendimento e il dominio imperialistico di una sola lingua – rende impraticabile il suo uso autarchico e autistico. Meglio contattarle tutte, le lingue, e contattarle imbrattandole, contaminandole, tra di loro» (ivi, pp. 180-181). Attraverso un azzardato pastiche la lingua italiana viene, dunque, deformata sia da continui innesti del dialetto napoletano – anch’esso sottoposto all’impellenza inderogabile della “tradinvenzione” – sia da termini tratti dall’inglese e dal francese, se non, addirittura, dal latino e dal greco. 

Siamo nel cuore della più aderente conformità a quella “letteratura minore” rintracciata da Deleuze e Guattari nel loro libro su Kafka (autore cruciale per Moscato, ricorda opportunamente Palumbo). «Una letteratura minore – essi scrivono – non è la letteratura d’una lingua minore ma quella che una minoranza fa in una lingua maggiore. Il primo carattere di tale letteratura è che in essa la lingua subisce un forte coefficiente di deterritorializzazione» (Deleuze, Guattari 1996, p. 29). Lontane, abissalmente lontane, dagli sgargianti compiacimenti di uno sperimentalismo linguistico fine a se stesso, le tensioni e le torsioni immesse da Moscato sul tronco delle numerose “lingue maggiori” utilizzate discendono da una sorta di vocazione filosofica sulla quale insiste Zanardi in un saggio particolarmente articolato e impegnativo, sottolineando come in questo caso non si possa adoperare il termine «teatro “colto” nel senso che studia la cultura ed è disposto a subirne il contraccolpo: decostruzione della presunta spontanea arte teatrale napoletana» (Le scritture del Grande Infante 2025, p. 90). Piuttosto il costante ricorso a categorie e concetti tratti da disparate costellazioni letterarie e filosofiche deriva, per Moscato, dallo “spaesamento”, dall’”essere stranieri”, rivendicati quali tratti ontologici, prima che geografici o culturali. Perciò, puntualizza Zanardi, «l’atto di decostruire […] apre lo spazio alla venuta di ciò che è ignoto sia al colto che all’incolto» (ibidem).

Nel tentativo di accogliere e restituire ciò che si manifesta come ignoto, imprevedibile – «diventando tutt’uno con chi parla e, quindi, con la sua pelle, il suo fiato, la sua carne», osserva Gerardo Guccini (Le scritture del Grande Infante 2025, p. 127) –, la scrittura drammaturgica deve entrare ogni volta in conflitto con i propri statuti programmatici, trasformandosi, appunto, in “letteratura minore”. È precisamente l’itinerario seguito da Moscato con assoluta coerenza e consapevolezza: da Scannasurice, Signurì, signurì…, Bordello di mare con città, La psychose paranoiaque parmi les artistes («tradinvenzione» della tesi di dottorato discussa da Lacan nel 1932, poi pubblicata nel 1975 con il titolo di Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità), Ritornanti e la Quadrilogia di Santarcangelo fino a Lacarmèn, tra le ultime opere. 

Una cantilena di parole sdrucite, di vibrazioni e sussulti intermittenti, costituisce la colonna sonora di ciascun testo, scandito da un ritmo che cerca, vuole a tutti i costi, la dissonanza piuttosto che l’armonia, perché «è ritmo puro, personale, fortemente performante, soggettivo, quel ritmo che hanno solo alcuni grandi autori» – scrive, nelle ultime pagine del libro, Antonio Latella, tra i protagonisti della scena teatrale internazionale (ivi, p. 164). Un ritmo che Napoli non può lasciare svanire, strozzato dai roboanti tributi ai nuovi murales e gli applausi, più composti, che accompagneranno la partenza e l’approdo delle scintillanti imbarcazioni concorrenti all’America’s Cup in programma nel 2027, tra le fibrillazioni già in atto della rampante classe dirigente. Le cantilene di Enzo Moscato, con le sue prepotenti scosse ritmiche, potrebbero segnarne un salutare antidoto. 

*Foto: © Paolo Visone

Riferimenti bibliografici
A. Lācis, W. Benjamin, Napoli, in W. Benjamin, Opere complete. II. Scritti 1923-1927, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, edizione italiana a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2001.
Id., Napoli porosa, a cura di E. Cicchini, Libreria Dante & Descartes, Napoli 2020.
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 1996.
G. Silva, L. Tozzi, Napoli. Contro il panorama, nottetempo, Milano 2021.

Gerardo Guccini, Antonio Latella, Antonia Lezza, Enzo Moscato, Matteo Palumbo, Maurizio Zanardi, Le scritture del Grande Infante. Sull’opera-vita di Enzo Moscato, a cura di C. Affinito, A. Lezza, M. Palumbo, M. Zanardi, Cronopio, Napoli 2025.

Tags     Enzo Moscato, Napoli, teatro
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