Affrettatevi, la teleferica è lontana
e Bernardo, che ha le gambe lunghe dei quattordici anni, la smania dello storyteller,
insiste sul tempo reale, vuole
che vi perdiate fra castagni e felci.
Attilio Bertolucci, La teleferica.
La tentazione più forte, mentre deflagrano sulle reti televisive e nei social media, le immagini dei film di Bernardo Bertolucci (e sembrano essere state fatte per vivere per sempre così, oltre la compattezza dell’opera e dentro la perfezione del segmento, di una poesia visiva che in più momenti ha sofferto le pretese della narrazione) è quella di farsi travolgere dalla geografia di questo cinema, dall’“alchimia dei luoghi”, come diceva lui. Faccio zapping, la sera della sua morte, senza troppo pensare.
Le strade e le piazze metafisiche di Strategia del ragno (1970) regolano la sinistra presenza dei contadini, mentre il giovane Athos Magnani cade nella trama paterna; cambio canale e il bosco di castagni de La tragedia di un uomo ridicolo (1981) nasconde la stessa inquietudine e c’è un altro padre che cade stavolta nella trama del figlio. Torno a Strategia: la Bassa padana (“la Bassa è come un fotogramma di pellicola, il fotogramma di un film che non si chiude sopra, in basso, a destra e a sinistra”) mi pare ora che si tocchi con l’Appennino della Tragedia, hanno la stessa forma, si curvano alla volontà poetica di Bertolucci, l’una e l’altro impegnati ad ingoiare i corpi e assimilare i gesti e i pensieri dei personaggi. Ora, in Strategia, sono seduti in un bar di Tara, un luogo dal nome perduto nelle histoire(s) du cinéma e riaffiorato tra l’Emilia e la Lombardia.
Cambio ancora e altrove ci sono John Malkovich e Debra Winger, corpi diversi, corpi di divi, più belli e più malati, seduti anche loro in un bar, il tavolo di legno grezzo, ancora figure sinistre, tutt’intorno, di uomini della terra, di altri “contadini”. La stessa forma, di nuovo spazi che ingoiano i corpi fino ad assorbirli, a trattenerli. Su La7 invece c’è Little Buddha (1993) e ci arrivo mentre Siddharta scopre la morte. Il corpo più bello dialoga con l’immagine terrificante del suo sfacelo, riflessa negli occhi dipinti di Keanu Reeves; poi ancora contadini, sempre sinistri, e corpi umani restituiti alla terra, all’acqua, al fuoco. Mi perdo nei film di Bertolucci, come i personaggi de La luna (1979) pensano di essersi persi nella pianura padana e invece si sono persi dentro un’inquadratura di Novecento (1976).
Mi perdo entro la geografia sconfinata di questo cinema, che non è stata di nessun altro regista italiano, fatta di mondi lontani e di piccole comunità, di imperatori e contadini, di viaggiatori e traditori, di prescelti e opportunisti. Una geografia fatta di spazi aperti e claustrofobici, di luoghi votati all’eversione e di altri destinati alla tradizione, una geografia costellata di riferimenti (“cammino per Parigi o sono in un film di Godard?”) e segnata dai corpi e dai volti di divi e di sconosciuti che respirano l’aria di un universo poetico fondato sulla ricorsività di azioni che hanno rime profonde di film in film e il cui banco di prova, ogni volta, è l’adesione a un contesto diverso e ad una topologia ed una geografia che impone le regole del confronto.
Che sia a Parma o in Cina, nella Bassa o in Nepal, a Roma o sulla Via del petrolio, Bertolucci filma la corrispondenza tra i luoghi e l’azione che li presuppone e che dà loro una forma percepibile e comprensibile. Bertolucci è stato uno dei pochi paesaggisti italiani che ha avuto la forza di curvare i luoghi sulla forma del suo cinema, di accordarli al verso visivo della sua poesia e il vero mistero del suo cinema, la sua unicità e probabilmente la sua irripetibilità, sta in questa particolare aderenza, nella perturbante e incompiuta bellezza di chi sa indovinare la forma cinematografica e le riconosce una forza di vita pari solo alla pulsione di morte che promana.
A me è successo, un giorno, di vedermi sbattere in faccia le mystère Bertolucci, vale a dire, per proseguire sulla citazione baziniana, la radicalità di un cinema che sa tenere in equilibrio il tempo concreto delle riprese (i luoghi, i corpi, i gesti: Attilio diceva che Bernardo “insiste sul tempo reale”) e il tempo “astratto, intellettuale, immaginario, spettacolare” del cinema. Quando nel 2014 l’Università di Parma ha conferito a Bertolucci la laurea honoris causa, Bernardo mi disse che per la sua lectio magistralis avrebbe lavorato con Jacopo Quadri ad un montaggio di 35 minuti di suoi film. E lì, davanti agli occhi miei e di altre mille persone che gremivano la platea e i palchi del Teatro Regio, Bertolucci è andato ad un passo da spiegarci il suo mistero.
Il montaggio cominciava con la nascita del Buddha: la carovana, il parto, il canto, i veli, il corpo della donna che dà la vita nel rigoglioso e sacro paesaggio indiano e il bambino che subito cammina e crescono fiori dove posa i piedi. Poi d’un tratto il mare di Sabaudia (e la villa che diventerà di Bertolucci): un’altra madre e un altro bambino che giocano e un uomo a piedi nudi che con gesto antico squarta i pesci appena pescati; il bimbo lo guarda e piange. Altra musica, il twist, altra danza, l’uomo e la donna ballano divertiti e lascivi. Non importano già più le date, siamo rapiti e come tutti i sequestrati perdiamo il senso del tempo; non importano più i luoghi, quei due film parlano la stessa lingua, quella del cinema e il bambino di Sabaudia se ne va nudo, come il Buddha, ma più pesante nel passo e in lacrime. Un altro bambino, in un luogo ancora diverso. Un bambino imperatore, portato a spalla dai servi; «fermi! L’imperatore vuole camminare».
Di nuovo a piedi, a misurare e sentire la terra, a correre nella Città Proibita per consentire alla macchina da presa di sperdere i personaggi e di sancire un’altra temporalità del luogo, rituale, decadente, non più divina come quella di Little Buddha, non più moderna e sfacciata come quella de La luna. La corsa nelle mura della Città Proibita è raccordata su un’altra corsa, quella di due donne che entrano in una sala da ballo a vetrate e rifinita di rosso, che sembrerebbe essere quasi ricalcata sulle architetture cinesi; ma Il conformista viene prima o dopo The Last Emperor? Stacco.
Uomini, donne e bambini che ballano sotto una enorme bandiera rossa, che vista ora, così, sembra perfino parente delle sete e delle porpore indiane e cinesi; sembra che il ritmo di quella gioia abbia qualcosa da dire alla coppia di amanti in quella villa sul mare, o a quelle strane figure che danzavano a Parigi. Anche sotto quella bandiera rossa sta nascendo qualcosa: un dio come in India? Un imperatore? Un bambino che non capisce cosa fanno i grandi? Intanto qualcuno condanna, qualcuno decide, qualcuno dispone della vita e dei corpi degli altri e lo fa guardando in macchina. Stacco. Un uomo e una donna in un appartamento vuoto, si direbbe abbandonato: “Hai deciso?”, “Era già deciso, ora non so più”.
Ancora decisioni, ancora corpi che danno forma allo spazio deforme e riempiono un tempo insensato, azioni nette eppure impotenti e si capisce che in quel luogo non nascerà nessuno, non ci sono i prati indiani, non c’è il mare, non c’è il sole, né un’aia. Alla fine l’uomo e la donna sembrano morti, uno sopra l’altra, sostituiti nel montaggio da due ragazzi. Siamo in un altro appartamento, spoglio, anzi sembra una cantina, e i ragazzi si abbracciano e danzano, lui ha un cappello che arriva dritto da Il conformista; David Bowie che canta in italiano ha l’incanto della musica sacra indiana più che del twist di Sabaudia.
Qui all’improvviso si sente Bertolucci, che lo si conosca o meno, che si abbia o meno mai visto un suo film, si sente fisicamente la presenza del regista, sembra che danzi con i suoi personaggi, che li abbracci, che non sia più su una sedia a rotelle, fino a che Macbeth di Giuseppe Verdi non ci porta altrove. Appare scritto che siamo al Teatro Regio di Parma nel 1962. Un altro rito, la première, ripresa dal vero, e poi un uomo e una donna; questa volta i loro corpi sono lontani, si guardano, ma sono divisi, la donna piange. Piange come la nutrice dell’Imperatore bambino, quando li dividono.
La macchina da presa corre circolare lungo le file dei palchi e adesso ci sembra così chiaramente lo stesso movimento visto a Sabaudia e nella Città Proibita, sembra lo stesso angolo rialzato de Il conformista, ma dove siamo finiti, dove ci hanno portati? Che cosa vogliono dire questi 35 minuti? Bertolucci non poteva farci lezione altrimenti che così, sfidando ogni regola analitica e storiografica, costringendoci all’emozione e allo scavo semiconscio tra le consonanze formali. Ci ha portati dall’India al Lazio, dalla Cina a Parigi, fino alla Bassa padana, ci ha portati in spazi aperti che si rivelavano chiusi e in spazi di reclusione nei quali era possibile aprirsi. Ci ha chiesto di interrogarci su che cosa lega quei luoghi: i corpi e i gesti degli uomini, delle donne e dei bambini; l’azione, anche quando non è veicolo di risoluzione della storia. “Avete capito che cosa cerco?”, ci chiede; e a tutti sembra di averlo capito, ma nessuno riesce a pensarlo in un linguaggio che non sia quello delle immagini.
Nel 1966, in un’intervista a John Bragin, un Bertolucci venticinquenne si augurava un cinema «truly open […] having things never too far away and never too close» e diceva che «it would be good to see films becoming conscious of what they are». Il mio zapping di quella sera triste, caro Bernardo, mi ha fatto pensare che i tuoi film, in mezzo ai reality, ai varietà, ai talk politici, alle televendite, avessero veramente preso coscienza di quello che sono e si muovessero liberi là in mezzo, sapendo l’uno dell’esistenza dell’altro, penetrando l’uno dentro l’altro, come in quei magici 35 minuti in cui il tuo mistero si è affacciato nel montaggio senza volersi, o potersi, rivelare del tutto.
Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Un Film bergsoniano: «Le mystère Picasso» , in Id., Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1973.
B. Bertolucci, Un “uomo ridicolo” guidato dalla “forza del destino”, “Bologna incontri”, 4, aprile 1981.
J. Bragin, A conversation with Bernardo Bertolucci, “Film Quarterly”, 1, Fall 1966 .
M. Guerra, Entrare in una inquadratura. Il senso di Bertolucci per l’Emilia, in A. Aprà, a cura di, Bernardo Bertolucci. Il cinema e i film, Marsilio, Venezia 2011.
E. Ungari, Scena madri di Bernardo Bertolucci, Ubulibri, Milano 1983.