Ai fini della formazione del discorso filosofico, tre, per Deleuze, sono le figure rilevanti: il professore, il maestro e l’intercessore. I professori di filosofia non sono affatto demonizzati da Deleuze come sono invece soliti fare gli aspiranti innovatori. Deleuze ne ha avuti di grandissimi, da Martial Gueroult a Jean Hyppolite a Jean Wahl, solo per citarne alcuni, ai quali è rimasto sempre legato da un profondo debito di riconoscenza. Il suo rapporto con la filosofia tutta, dai greci a Spinoza, fino a Kant, Nietzsche ecc., è stato mediato da questi professori. Raramente le letture dei classici in Deleuze sono di prima mano, quasi sempre presuppongono i commenti straordinariamente eruditi dei grandi storici francesi della filosofia.
I maestri sono coloro che hanno prodotto enunciati filosofici, che hanno cioè operato dei “colpi di sonda” nel fondamento eterno del reale, facendo venire a galla dei segni che riorientano, turbano e traumatizzano il nostro pensiero, liberandolo dalla sua immagine precostituita. I maestri non sono tanti. Lo sanno bene gli estensori dei manuali di storia della filosofia. Per quanto si affannino ad arricchirli con informazioni di contorno, quasi sempre inutili, alla fin fine si trovano ad aver a che fare con i soliti noti. Il che dimostra che stanno maneggiando un canone dotato di una fortissima oggettività e non una sommatoria di visioni del mondo. Maestri e intercessori sembrano poi appartenere allo stesso genere, ma in realtà differiscono per natura. Il maestro è un sistema, un ordine delle ragioni, un’architettonica, l’intercessore è una funzione.
A fungere da intercessori sono quegli enunciati di altro ordine rispetto agli enunciati filosofici, gli enunciati “artistici” o “scientifici”, che hanno però una pertinenza filosofica. Anche in questo caso abbiamo dei nomi ricorrenti in Deleuze: Francis Bacon, Samuel Beckett, Franz Kafka, Jean-Luc Godard ecc., se consideriamo l’arte. Il nome però non rimanda al “monumento”, vale a dire all’opera, oggetto esclusivo dell’interesse dello storico della letteratura o del critico cinematografico, ma alla “occasione” di pensiero che quell’enunciato rende possibile. Non è che si debba “usare” Bacon, Kafka ecc. per illustrare un concetto con una immagine, ma si deve apprendere da Bacon, Kafka ecc. un nuovo concetto come avviene quando ci si rapporta ad un diagramma per immaginare nuove soluzioni operative. Se prendiamo in considerazione gli enunciati scientifici, ad esempio quelli della biologia, ambito molto caro a Deleuze, vale lo stesso discorso: l’embriogenesi diagrammatizza il sillogismo disgiuntivo ad uso inclusivo di Differenza e ripetizione (a fare eccezione in questa tassonomia sono gli enunciati della “matematica”; in questo caso il rapporto tra matematica e filosofia è di isomorfismo).
Gilles Deleuze è stato indubbiamente “per noi” un maestro. Il pronome sta per le generazioni di filosofi che in Italia si sono formate nell’ultimo scorcio del millennio scorso. Uso il “noi” perché non credo che sia possibile parlare sensatamente di Deleuze prescindendo dal soggetto dell’enunciazione: la relazione magistrale suppone una esperienza alla prima persona. L’orizzonte intellettuale nel quale ci si muoveva in quegli anni era caratterizzato dalla presenza di uno storicismo ormai esausto, che nell’ermeneutica cercava una stampella per reggersi ancora in piedi, dalla fenomenologia, che aveva portato nell’Italia del secondo dopoguerra una ventata d’aria fresca, dall’imperante decostruzionismo derridiano, vera e propria lingua condivisa soprattutto tra le nuove generazioni. Su tutti pesava però l’ombra inquietante dei “nipotini di Wittgenstein”. La filosofia analitica anglo-americana si stava infatti apprestando a portare a termine la sua opera di colonizzazione del pensiero (e dei Dipartimenti di Filosofia). In questo contesto segnato da una generale dismissione dello “speculativo”, Deleuze impartiva agli aspiranti filosofi alcune “lezioni” indimenticabili.
Innanzitutto, una lezione di ingenuità. Si poteva, anzi si doveva restare filosoficamente ingenui. Uso il termine nell’accezione che esso prende nella letteratura fenomenologica dove indica l’abbaglio di cui resterebbe vittima chi non pratica la “riduzione”. Ai “maestri del sospetto”, già in auge al tempo della formazione dello stesso filosofo francese, Deleuze obiettava che si poteva fare filosofia in buona coscienza, ingenuamente, senza preoccuparsi di far precedere al lavoro teorico una immensa propedeutica, con la quale di fatto veniva “sospesa” e sostanzialmente dismessa la stessa pratica teorica che si stava mettendo in atto. E in effetti, una delle caratteristiche costanti di Deleuze commentatore dei classici è il suo iniziare sempre in medias res, assumendo senza esitazioni l’ordine delle ragioni del filosofo che discute, confrontandosi con lui all’interno del suo orizzonte concettuale, mantenendosi sullo stesso suo piano e prendendo per così dire alla lettera i suoi enunciati.
Deleuze non dubita mai della veggenza dei suoi interlocutori filosofici, anche quando questi sembrano affermare il contrario delle sue tesi (esemplare, mi pare, a questo proposito, il rapporto con Kant). Nella rivendicazione della ingenuità come metodo sta poi tutta l’abissale differenza che lo separa dal collega filosofo al quale per anni, soprattutto in Italia, per una sorta di tic ermeneutico, il nome di Deleuze era sistematicamente associato: Jacques Derrida. Niente più della decostruzione è infatti estraneo allo spirito filosofico di Deleuze. “Per noi” che eravamo stati educati a giudicare storicamente la filosofia – comunque si intendesse questo avverbio: come storia dello spirito, come storia dell’essere o come relativismo ermeneutico – l’autorizzazione all’ingenuità significava riguadagnare di colpo la contemporaneità assoluta del discorso filosofico, la sua legittimità di principio e la sua indistruttibilità di diritto.
Dall’ingenuità discende poi la seconda grande lezione deleuziana, la lezione didattica. Per Deleuze non c’è filosofia senza didaché. Senza insegnamento. Le celebri immagini delle sue lezioni di Vincennes dove parla letteralmente soffocato dalla pressione (e dal fumo) degli studenti che si accalcano attorno a lui sono molto più di un aneddoto biografico. Manifestano il senso profondamente platonico del suo fare filosofia. La filosofia ha bisogno della scuola, della comunità, della relazione, ha bisogno della presenza, ha bisogno di quella giovinezza turbolenta e ha bisogno anche della istituzione così come un vivente necessità di ossigeno. Non ci si lasci travisare dalle dichiarazione anti-istituzionali di Deleuze. La sua incondizionata ammirazione per il filosofo “privato”, come Nietzsche, ad esempio, vale a dire per il filosofo che agisce al di fuori dell’apparato di cattura statale (l’Università), non è dogmatica affermazione di anarchismo, ma critica dell’ordine dato. Il filosofo parla sempre per un popolo a venire. L’istituzionalità, intesa nel senso fondativo dell’instaurazione di un nuovo ordine, è l’orizzonte permanente degli enunciati filosofici.
La didattica comporta un metodo. La lezione di metodo di Deleuze concerne il modo di fare filosofia. Per Deleuze è palmare che filosofia e storia della filosofia coincidano, come del resto è testimoniato da tutte le grandi filosofie, nessuna delle quali può sottrarsi, se è filosofia e non semplice visione del mondo, al compito di ritotalizzare all’interno del proprio discorso l’insieme a cui appartiene (con patente violazione degli assiomi della teoria degli insiemi). La postura dell’ingenuità permette a Deleuze un approccio alla filosofia che è ad un tempo monadologico, diagrammatico e performativo. Monadologico perché i sistemi filosofici sono senza porte e finestre, comunicando tra loro solo per la comune partecipazione al “tutto aperto” da cui tutti provengono: sono insomma prospettive differenti sul medesimo reale.
La storia della filosofia, ha detto una volta Deleuze, è una «conversazione interstellare»: «Essa avviene in uno spazio ideale che non fa più parte della storia e tantomeno è un dialogo tra morti» (Parnet 2006, p. 20). L’immagine bergsoniana del “colpo di sonda” o quella leibniziana della “piega di pieghe” può aiutare a comprendere questo delicatissimo snodo metodologico, che probabilmente Deleuze deriva dalla lezione di metodo del “professore” Martial Gueroult. Diagrammatico perché pensare filosoficamente, “creare concetti”, significa per Deleuze tracciare diagrammi. A differenza del rappresentare, il pensare diagrammatico è uno schematizzare e gli schemi non sono mimetico-rappresentativi ma funzionano operativamente come icone delle relazioni reali e di quelle possibili dei loro “oggetti”. Non figurano il dato ma il darsi del dato, stanno non per significati ma per eventi.
Ne consegue il tratto performativo del discorso filosofico, che ci ricollega al tema della istituzionalità e della instaurazione. Il discorso filosofico, infatti, lungi dal presupporre un reale di cui sarebbe la descrizione, diventa generatore (o instauratore) del reale di cui après-coup ci offre la descrizione in concetti. I sistemi filosofici sfuggono così alla bivalenza del vero e del falso, che vale solo per la loro dimensione superficialmente dichiarativa (per quello che astrattamente affermano o negano del “mondo”), ma non per quella instaurativa. Per questo Deleuze concorda con lo Hegel storico della filosofia: non ha alcun senso confutare un filosofo, bisogna piuttosto comprenderlo, cioè tracciare la “macchina astratta” che governa la generazione dei suoi concetti.
Dalla performatività del filosofico deriva l’ultima lezione impartita dal maestro Deleuze. È la lezione etico-politica. “Etica” per lo spinoziano Deleuze significa “ontologia”, filosofia prima, scienza dell’essere in quanto essere. Etica significa ontologia perché per Deleuze, come per Spinoza, vale l’equazione (di origine megarica) secondo la quale l’ente non è nient’altro che potenza in esercizio. Nulla a che fare con la possibilità, semmai qualcosa che ha il senso del praticabile nelle condizioni date. Per questa potenza all’opera, che implica alla sua radice dei puri differenziali, non ci può essere un giudice esterno che ne vagli il valore. La possibilità di una morale è così compromessa sul nascere. Ne consegue quell’ambiguità che sempre è rinfacciata ai filosofi di ispirazione megarica. Da un lato li si annovera tra i mistici per i quali tutto è grazia, dall’altro se ne condanna l’indifferentismo morale di fondo. Mancherebbe, insomma, un criterio per distinguere l’agire bene dall’agire male. Nessuna azione politica emancipatoria si potrebbe razionalmente fondare su di essa.
Ma le cose stanno veramente così? Sappiamo che Deleuze era un filosofo schierato, non meno del suo “maestro” Sartre e del suo amico Foucault. In Italia Deleuze è arrivato, insieme a Guattari, a rimorchio dei movimenti insurrezionali della fine degli anni settanta. Come è possibile allora “schierarsi” per una parte senza che questo comporti il venir meno della ontologia della potenza? Come è possibile farlo senza fuoriuscire dalla logica della potenza e tenendo saldo il carattere differenziale della potenza? Come essere, insomma, realisti e, al tempo stesso, non riconciliati? Bisogna ripetere il classico gesto cartesiano e chiedersi se c’è da qualche parte una potenza capace di resistere all’onnipotenza di un ipotetico padrone del possibile (come lo era il celebre “demone maligno” della Seconda Meditazione, che può tutto, anche far sì che 2 + 2 sia uguale a 5).
Se ci fosse, è indubbiamente lì che si dovrebbe andare a cercare la pietra angolare su cui costruire. Lì sarebbe il Bene ontologico, non certo quello “morale”, e l’azione che ne conseguirebbe sarebbe l’azione eticamente “giusta”. Quello che al fondo trova Deleuze non è né l’Io né Dio, sebbene per certi versi assomigli ad entrambi. Ciò che trova come fundamentum inconcussum è la “pietra di scarto” di “una vita” ridotta al lumicino, spogliata di tutti i suoi predicati. Si dà una effettività che sfugge per natura alla dimensione del possibile-che-sia, che c’è, che è massimamente reale, senza essere possibile.
Fare della pietra di scarto la pietra angolare è la lezione etico-politica (e aggiungerei, provocatoriamente, la lezione cristiana) che Deleuze ci lascia con il suo ultimo scritto quasi testamentario: Immanenza: una vita… (1995). Non è certo un caso se c’è una parola nel dialetto arabo palestinese che indica ad un tempo tanto il fatto del semplice vivere quanto la resistenza alle condizioni di intollerabile oppressione. Lo stesso non si può forse dire anche dei migranti per i quali già il semplice fatto di sopravvivere è un atto politico sovversivo? E, infatti, nella logica perversa del discorso razzista ciò che è intollerabile è qualsiasi pratica che limiti in modo consistente la possibilità per il migrante di morire durante il viaggio.
Riferimenti bibliografici
C. Parnet, Conversazioni, Ombrecorte, Verona 2006.