Ahmed affila con pazienza la punta del suo spazzolino da denti. Ogni sera, prima di addormentarsi, nella stanza del riformatorio in cui è chiuso, sfrega la plastica contro le mattonelle ruvide del pavimento. C’è tutto il mondo dei Dardenne in Le Jeune Ahmed, compresa l’eredità bressoniana, che in questo caso riporta alla mente alcune delle immagini più ossessive e impressionanti di Un condannato a morte è fuggito (1956): le immagini del prigioniero che, con pazienza e costanza quasi ottusa, trasforma il manico arrotondato del cucchiaio, che è riuscito a trafugare durante il rancio, nello strumento appuntito che gli consentirà, dopo mesi di lavoro, di aprire la porta della sua cella ed evadere nel cuore della notte.
Ahmed progetta con la stessa rigorosa meticolosità il suo piano per diventare un “perfetto musulmano”, un cammino che forse anche per lui assomiglia a un processo di liberazione, a una fuga vera e propria dal mondo che gli sta accanto eppure non riconosce: la famiglia, la scuola, gli amici. Vuole andare alla Mecca, Ahmed: è il solo desiderio che, prima di entrare in riformatorio, esprime all’Imam della moschea che da tempo frequenta, ormai regolarmente, ogni giorno. Ha tentato di accoltellare l’insegnante di arabo della sua scuola.
Nelle parole che Ahmed ha sentito pronunciare dall’Imam, è blasfemo chi pensa di poter insegnare una versione dell’arabo diversa da quella contenuta nel Corano, sporcandola e consegnandola agli affari della comunicazione quotidiana: per questo merita di essere punito addirittura con la morte. Ahmed prova così a colpire l’insegnante con un coltello, appuntito come lo spazzolino da denti trasformato in arma, e il gancio che stacca dal muro della scuola, per farne, anche in questo caso, uno strumento di aggressione. Oggetti che non sono armi, ma possono diventarlo, proprio come Ahmed può diventare un assassino.
Il tentativo fallito di uccidere l’insegnante di arabo diventa per il ragazzo una vera ossessione, che lo trascina fino a determinare ogni sua azione. Come accade per tutti gli altri personaggi del cinema dei fratelli Dardenne, a questo precedente: una forza che domina i corpi e in molti casi li induce a cadere. Qualcosa, però, distingue il giovane Ahmed da tutti gli altri personaggi. Ahmed non è un “ultimo”, ha una famiglia che gli vuole bene e si prende cura di lui. E soprattutto bisogna riconoscere che, per quanto difficile da comprendere e forse addirittura folle, la determinazione di Ahmed risponde a una volontà vera e propria, a un disegno perseguito con lucidità e perseveranza.
Focalizzato sul raggiungimento del proprio obiettivo, Ahmed non distoglie mai l’attenzione dal proprio progetto, non guarda mai negli occhi i suoi interlocutori, non ascolta o fa solo finta di farlo. Non è mai davvero predisposto all’incontro con l’altro: è questo l’elemento che rende Ahmed diverso dai personaggi dei film precedenti, e questo film forse il più disperato dei fratelli Dardenne. Soltanto una volta, per qualche breve istante, il ragazzo guarda dritto in macchina e ci parla: Ahmed non cambia, non vuole cambiare e, per questo motivo, se cade, non può rialzarsi.
Come accade in Rosetta (1999) e in altri film successivi, ne Le Jeune Ahmed la macchina da presa segue il ragazzino, mentre sale affannosamente le scale, già nella primissima inquadratura. Gli sta addosso, ne sente il respiro, lo pedina nel senso più letterale del termine. È la posizione che i registi decidono di avere anche in questo caso, come in tutte le altre storie che hanno raccontato. Diversamente da sempre, però, questa volta la macchina da presa registra – suo malgrado forse – uno scacco che l’ultima inquadratura del film restituisce, con la forza e la pregnanza di cui i finali dei film dei Dardenne sono capaci.
Uno scacco che forse è legittimo interpretare come il segno del riconoscimento di una distanza (che pure non si trasforma mai, come ovvio, in giudizio) dall’altro, le cui ragioni rimangono profondamente insondabili. Ahmed è come tutti gli altri personaggi del cinema dei Dardenne – in alcuni passaggi il film quasi ricalca Il ragazzo con la bicicletta (2011) – eppure al contempo non lo è. E la macchina lo riprende nello stesso modo in cui aveva ripreso tutti gli altri, eppure no. Quella che Ahmed incarna è esattamente questa diversità, nell’uguaglianza, che il film ha il coraggio di raccontare e che il mondo occidentale stenta ancora, in più di qualche caso, a riconoscere.
Di madre belga e di padre probabilmente arabo (assente, però, come molti altri padri scomparsi da tempo dal cinema dei Dardenne), Ahmed è cresciuto in una famiglia non religiosa, in cui sono i valori della laicità a essere osservati, proprio come a scuola. Questo però non basta a fare di Ahmed semplicemente un ragazzo belga, come tutti gli altri. Ahmed non vuole essere uguale agli altri e sogna per sé un altrove in cui gli altri non possono arrivare. In fondo e a questa diversità, che ormai è tutta nostra, che Ahmed ci chiede di guardare, senza valutazioni e giudizi. È quello che fa l’ultimo film dei fratelli Dardenne, quando sceglie di raccontare una storia come questa: la diversità non può essere negata, anche quando ci è prossima. Riconoscerla è il grande gesto politico che questo film compie, con gli strumenti che il cinema dei Dardenne ci ha insegnato a riconoscere.
Riferimenti bibliografici
A. Cervini, L. Venzi, a cura di, Jean-Pierre e Luc Dardenne, Pellegrini, Cosenza 2013.