Basterebbe osservare la sequenza iniziale di Look Back, per comprendere tutte le istanze (linguistiche, tematiche, ed anche estetiche) che attraversano le immagini del film. Qui Fujino, una giovane ragazza dotata di un talento eccezionale nel raccontare visivamente delle storie, è raffigurata mentre disegna nella sua stanza una breve striscia comica: la regia la inquadra di spalle, ma nel momento in cui termina di inchiostrare le vignette, ecco che la “camera” diverge l’attenzione verso l’illustrazione. Il mondo di Look Back, da che era dominato dalla figura di Fujino, è ora entrato nella cornice immaginifica di un racconto cartaceo: quasi le logiche del manga avessero soppiantato, senza alcuna soluzione di continuità, le coordinate della realtà.

Adesso le immagini del film possono cambiare di segno, e la referenzialità (naturalmente simulata) dell’universo simil-tridimensionale degli anime, lascia ora spazio ad inquadrature cartoonesche, prive di qualsiasi accenno alla profondità di campo o ad un minimo grado di verosimiglianza del quadro. Siamo entrati, sembrerebbe qui suggerire Oshiyama, nell’universo creativo dell’aspirante fumettista: una dimensione deliberatamente artefatta, che appare allo sguardo dello spettatore “credibile”, proprio perché denota una connessione evidente con il mondo interiore – e quindi profondamente umano – di colei che l’ha creata.

Un fil rouge che il film affermerà lungo tutto il corso dei suoi 58 minuti: destinati ad abbattere le barriere tra realtà e creazione, e ad individuare nelle capacità immaginative/drammaturgiche di un’artista il nesso intrinseco che lega la vita (con tutti i fenomeni sociali, emotivi e psicologici che ne derivano) all’atto creativo. Da intendere sì quale strumento di indagine del Sé: ma soprattutto come il viatico di espressione – sia emotiva che patologica – di personaggi/artisti incapaci di separare l’universo “finzionale” dei testi che quotidianamente producono dal loro stesso cammino esistenziale. Perché, agli occhi di Fujino e della sua ombra/collega Kyomoto, è solo attraverso il fumetto o mediante i codici di un’opera visuale, che è possibile ri-creare la vita, e restituirle senso e matericità. Specialmente per chi naviga tra crisi e traumi apparentemente impossibili da neutralizzare, e che una volta entrati in contatto con le estetiche del manga – e dell’animazione – permettono a coloro che ne subiscono gli effetti repressivi di accettarli.

Per Look Back, perciò, non esiste discontinuità tra i canoni fenomenici della vita, e i linguaggi deliberatamente artefatti che consentono ad un’opera di finzione di riprodurli in termini (più o meno) verosimili. E lo dimostra sia nell’incipit appena indagato, sia nella naturalezza con cui il mediometraggio animato traduce sullo schermo i temi, le istanze comunicative e le grammatiche fumettistiche dello straordinario manga da cui è tratto.

Adattato dall’omonimo one-shot pubblicato nel 2021 da Tatsuki Fujimoto, il film (distribuito a livello internazionale da Amazon Prime Video) appare sin da subito un’ode alla pulsione vitale delle estetiche-anime, e alle coordinate minimalistiche che muovono da sempre la grande tradizione grafica del paese del Sol Levante: basata sulla semplicità del tratto, e sull’immediatezza comunicativa delle illustrazioni a cui esso dà vita. E non sorprende, allora, che Oshiyama, nel raccontare la storia di due aspiranti mangaka, e di un’amicizia fondata su quella complicità assoluta che si può formare solo tra coloro che condividono la stessa propensione alla creazione, abbia voluto restituire alle immagini un senso di matericità spiazzante, derivato proprio da quell’approssimazione (apparente) con cui gli illustratori giapponesi tendono a configurare mondi e universi privi di limitazioni logiche o fisiche (si pensi, a titolo d’esempio, al “ghibliano” I miei vicini Yamada) che hanno nell’immaginazione il loro unico nucleo propulsivo.

Ecco allora che la sensazione di vitalità di cui si parlava in partenza, ravvisabile nelle strisce comiche o nei manga disegnati dalle due protagoniste, risulta in Look Back così radicale e tangibile, proprio perché è codificata nello stesso corpo testuale del film: prodotto secondo metodologie estetiche singolari e anche “anomale” rispetto alle consuetudini dell’industria anime contemporanea, deputate a connotare le animazioni di un afflato di verosimiglianza davvero deflagrante: lo stesso che ritroviamo, verrebbe da dire, nelle pagine disegnate originariamente da Tatsuki Fujimoto.

In piena discontinuità con le più classiche operazioni estetiche degli anime, sia seriali che cinematografici, Look Back non tenta di simulare la realtà attraverso la precisione del tratto grafico. Per nulla. Agli occhi di Oshiyama, l’unico modo per rendere omaggio alla carica pulsionale della storia e dello stile semi-approssimativo di Fujimoto, e per restituire solidità ad un racconto che oblitera i confini tra vita e immaginazione, è quello di codificare delle immagini deliberatamente “sporche” e grezze, più in linea con la tangibilità del mondo materiale. E per poter connotare la prossemica e i movimenti dei personaggi di un alto grado di verosimiglianza, il regista ha deciso di saltare o comunque di limitare la fase delle intercalazioni, per focalizzarsi direttamente sui movimenti-chiave.

Secondo le consuetudini dell’industria animata giapponese, i key-animator definiscono le porzioni principali di un movimento (genga) a cui poi gli in-betweener aggiungono ulteriori frame, in modo da “ripulire” le immagini, prima che vengano ultimate nella cosiddetta fase del nigen (“seconda key-animation”). Un processo, questo, che Oshiyama ha di proposito riconfigurato: e decidendo di bypassare quasi completamente lo stadio dedicato alle intercalazioni, il cineasta ha permesso agli animatori di codificare dei fotogrammi smaccatamente approssimativi, pregni di “imprecisioni” e tratteggi che usualmente vengono eliminati dagli intercalatori, e che qui di fatto non solo vengono mantenuti, ma contribuiscono a connotare i volti e i movimenti di Fujino e Kyomoto di sfumature altamente referenziali: da cui emerge la vitalità stessa del segno grafico.

È chiaro, poi, che la deriva realistica a cui tendono in questo modo le immagini non consente da sola di suggellare i temi del racconto o il nesso intrinseco di arte e vita che la storia vuole ribadire. Perciò ogni fotogramma, ogni singolo segmento del mediometraggio, è deputato a ragionare sul potere cosmogonico del tratto animato: sulla capacità incisa a caratteri indelebili nelle strutture linguistiche dell’animazione di creare mondi interi dal nulla, e di dare corpo a quei filamenti dell’immaginazione, che da invisibili ed interpretabili solo ad un livello di astrazione, assumono una forma concreta nell’istante in cui entrano in dialogo con le grammatiche del medium-anime, mutuato a sua volta dagli stilemi del manga.

Non sorprende, allora, che la morte tragica di Kyomoto, a cui Fujino non riesce in un primo momento ad attribuire alcun significato per quanto è inattesa ed insostenibile, venga rielaborata da Oshiyama – guarda caso – attraverso una striscia comica. Quasi come se la realtà, per poter essere accettata e compresa in tutte le sue ramificazioni dalla protagonista, dovesse prima essere riconfigurata mediante i codici di quell’espressione artistica a cui la fumettista ha delegato tutti i suoi processi mentali ed emozionali: appunto il manga.

In piena continuità con la sequenza iniziale di Look Back, anche qui è lo “spazio bianco” del fumetto a riempire di senso i dolori quotidiani di Fujino: un processo che agli occhi del cineasta non può che transitare dal potere immaginifico – ed altamente lenitivo – del racconto illustrato. Qui Kyomoto, poco prima di essere uccisa da un terrorista infiltratosi nell’accademia d’arte in cui studiava – un fatto che richiama apertamente l’attentato incendiario alla Kyoto Animation, dove nel luglio 2019 ben 36 animatori persero la vita, ad ulteriore dimostrazione della necessità del film di filtrare la realtà attraverso i codici dell’arte animata/illustrata – disegna un yonkoma (breve storia comica in quattro vignette) in cui Fujino arriva a salvare l’amica con un calcio volante arrecato al malfattore, per poi ritrovarsi conficcata un’ascia dietro la schiena.

Nella finzione Kyomoto non rimane uccisa, con il fumetto che dà così vita ad una realtà dove le tragedie possono essere derubricate a gag di spirito, e in cui il mondo, seppur assurdo, appare meno sfuggente, e quindi più comprensibile di quello con cui le due schive artiste si interfacciano quotidianamente. Il piano del reale, verrebbe da dire, è stato nuovamente soppiantato dalle grammatiche fumettistiche (del manga di Fujimoto) ed animate (del film di Oshiyama), le uniche che consentono di restituire una dimensione concreta alle logiche “astratte” su cui si basano le istanze del mediometraggio, e che permettono a ragazze così alienate dalla società nipponica, di attribuire un senso ai fenomeni di una realtà – ai loro occhi – inconoscibile.

Non è un caso che Kyomoto assegni qui al suo yonkoma un titolo come “Look Back”. Quasi a voler direzionare lo sguardo della collega/salvatrice verso le origini di quel rapporto di complicità assoluta su cui entrambe le protagoniste hanno fondato la “loro realtà” (di donne, di mangaka e di anime gemellari) percepita come vera proprio perché suggellata dalla passione per l’arte fumettistica: capace di creare mondi sì alternativi e paralleli, ma mai veramente astratti dal contesto reale. E la scena conclusiva, in cui Fujino continua a definire alla scrivania il nuovo capitolo del suo manga, mentre al centro della vetrata è affissa la breve striscia disegnata dalla defunta amica, certifica proprio questa interazione simbiotica tra arte e realtà. Con la prima che re-immagina la seconda, per renderla più domesticabile agli occhi dell’artista che le dà vita.

Look Back. Regia: Kiyotaka Oshiyama; sceneggiatura: Tatsuki Fujimoto, Kiyotaka Oshiyama; interpreti: Yumi Kawai, Grace Lu; produzione: Studio Durian; distribuzione: Amazon prime video; origine: Giappone; durata: 58’; anno: 2024.

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