Il 68 nel 2001 quante volte ci sta? Se c’è un film year specific – un prodotto cinematografico che non poteva, che non doveva, che non voleva uscire nelle sale né prima né dopo il fatidico anno 1968 – questo è 2001: Odissea nello spazio. Perché il calcolatore Kubrick – che aveva realizzato Lolita a rimorchio del successo di scandalo del romanzo di Nabokov (risalente al 1955, anche se la traduzione italiana è del ’59) e Il dottor Stranamore a ridosso della crisi di Cuba (l’invasione della Baia dei Porci data 1961, il film finito ’63) – questa volta ha giocato d’anticipo: la pianificazione delle riprese (in Cinerama 70mm) e del montaggio (o meglio post-produzione, data la mole di effetti speciali) ha come obiettivo strategico quello di uscire prima della missione Apollo 11, destinata a portare nel luglio 1969 i primi uomini sulla Luna in diretta televisiva mondiale (anche se il documentario di Rodney Ascher Room 237, uscito nel 2012, teorizza che Shining è pieno di allusioni al fatto che l’allunaggio non c’è mai stato – e la finta diretta è opera dello stesso Kubrick!).
Prima che gli astronauti Armstrong (First Man, come titola l’ultimo Chazelle) e Aldrin piantino la bandiera americana sul suolo lunare, Kubrick immagina – assieme ad Arthur C. Clarke, che però nel racconto La sentinella ha piazzato una piramide anziché un parallelepipedo – che gli extraterrestri abbiano già lasciato un segno del loro passaggio: lo “shock culturale” (come lo chiama il Dr. Floyd nel film) è postposto al primo anno successivo al fatidico Duemila, numero carico di sentori apocalittici (ma le attese bibliche si concluderanno nella realtà con l’evento islamico dell’11 settembre 2001, oggi considerato data di morte dell’epoca postmoderna).
I classici nascono contemporanei, gli immortali nascono giovani e si circondano di giovani: all’epoca della realizzazione, Kubrick è un trentenne che sta mettendo in piedi un gigantesco regalo per il suo quarantesimo compleanno (che cade, guarda le coincidenze, il 26 luglio 1968) (si riveda in questa chiave la scena della tele-torta di compleanno per uno degli astronauti della missione Discovery); Douglas Trumbull, il realizzatore dello sliscan usato per visualizzare lo psichedelico “corridoio stellare” del gran finale (e futuro protagonista della storia degli effetti speciali), è un ventenne scovato casualmente alla fiera mondiale di New York; e John Alcott, futuro direttore della fotografia di Kubrick (premio Oscar 1976 per Barry Lyndon), fa ancora l’assistente.
La cultura contemporanea è il vero humus di questa opera che in Italia arriva contemporaneamente al libro di Desmond Morris La scimmia nuda: il monolite è una scultura minimalista che potrebbe portare la firma di Donald Judd (classe 1928, dunque coetaneo del regista); Lux aeterna dell’amato e saccheggiato Giörgy Ligeti, ovvero il coro a cappella che commenta la prima epifania del monolite, è appena uscito (1966); e il buon vecchio Khačaturjan, il cui celebre Gajaneh accompagna il footing di David Bowman nel corridoio ad anello, è ancora vivo e attivo.
Facendo carta col Sessantotto senza fare calco (ma al Korova Milk Bar i drughi sono in attesa), 2001 è un film destinato ai giovani, sia gli hippies che lo fruiscono come “ultimate trip” (il lisergico slitscan di Trumbull, che Gene Youngblood inserisce nella categoria “expanded cinema”, potrebbe andare bene per un light show dei Pink Floyd di Syd Barrett – che in effetti sono contattati da Kubrick ben prima che lo faccia Antonioni per il finale di Zabriskie Point) sia gli aspiranti artisti che ne verranno flashati: Steven Spielberg – il futuro autore di A.I., il progetto incompiuto di Kubrick – nel 1968 esordisce con Amblin’, un “andare a zonzo” che è un’odissea hippy, prima di dare il nome di David Mann (che è David Bowman senza il prefisso Bowie) al protagonista di Duel; David Bowie (nome d’arte assunto da David Robert Jones) fa uscire il 45 giri Space Oddity (che con Space Odissey ha in comune più che l’assonanza del titolo) in data 11 luglio 1969, cinque giorni prima del lancio dell’Apollo 11; e Carmelo Bene, che scopre lo scotchlite 3M utilizzato per la proiezione frontale dei fondali africani, decide di utilizzarlo per i costumi catarifrangenti di Salomè.
Nel 1968 la novità in ambito di teoria del cinema è la semiologia del cinema di Christian Metz; e gli studiosi della “grande sintagmatica” possono esercitarsi sull’alba dell’uomo, in cui si passa da un sintagma a graffa (una serie di inquadrature che non costituiscono una cronologia quanto piuttosto un elenco di eventi iterativi) all’improvviso emergere di un inserto soggettivo (l’inquadratura del monolito in quanto ricordo della scimmia, poi seguita da due inquadrature speculari dell’animale abbattuto, che valgono come immagini ipotetiche di una relazione causa/effetto fra osso-arma e uccisione-morte).
Insomma, Kubrick mette in scena nientemeno che la nascita dell’intelligenza, il salto evolutivo dalla scimmia all’homo sapiens, e lo fa costringendo lo spettatore a passare dall’immagine-movimento all’immagine-tempo, dalla percezione all’abduzione (“cinema del cervello” dirà Deleuze), dalla materia alla memoria. Lo stacco osso/astronave, che fluttua fino a trovare la sua soluzione formale nell’inquadratura della penna che vola in assenza di gravità, non solo elimina tutta la storia umana lasciando come dominio del cinema di fantascienza la preistoria e il futuro, ma condensa in un montaggio delle attrazioni (non unico debito con Ejzenštejn) il rapporto fra volontà di potenza e volontà di sapere, il legame di Nietzsche (sottinteso nella scelta di Also sprach Zarathustra) con Foucault (che all’epoca ha già pubblicato Le parole e le cose e sta scrivendo L’archeologia del sapere).
2001: Odissea nello spazio chiude gli anni sessanta del cinema d’autore, inaugurati da La dolce vita, con un omaggio esplicito a Fellini: il feto astrale che chiude il film compiendo una torsione che lo porta a guardare in macchina – ovvero a fissare lo spettatore dritto negli occhi – è un remake (all’interno di una storia senza donne) dell’analoga torsione compiuta da Valeria Ciangottini, che conclude misteriosamente La dolce vita con lo stesso sguardo muto rivolto verso lo spazio amniotico della sala cinematografica. Il film del 1960 si apriva con l’immagine di un elicottero che trasporta il Cristo dalle antichità romane ai quartieri del miracolo economico, clamoroso accostamento di classico e moderno, sacro e profano, misticismo e tecnologia; e il film di fantascienza, mostrandoci il corpo morto di un astronauta sollevato dalle braccia meccaniche di uno shuttle, forma una Pietà michelangiolesca di uguale intensità iconologica. Nessuna meraviglia che in data 4.9.68 arrivi agli MGM Studios di Borehamwood il seguente telegramma: «Dear Stanley I saw yesterday your film and I need to tell you my emotion my emthusiasm stop I wish you the best luck in your path Federico Fellini».
La rete ci rivela che nel 1963 la rivista americana “Cinema” ha chiesto al regista di Paths of Glory l’elenco dei suoi film preferiti: al primo posto della playlist c’è I vitelloni di Fellini, al settimo La notte di Antonioni (ancora fresco d’uscita). Il cinema moderno si nutre di cinema moderno, la contemporaneità è un dialogo. E così, forse Stanley Kubrick è riuscito a portare a termine il film di fantascienza che Guido Anselmi ha lasciato in sospeso nel 1963. Forse un giorno bisognerà indagare meglio: 8½ in 2001 quante volte ci sta?
Riferimenti bibliografici
J. Fenwick, a cura di, Understanding Kubrick’s “2001: A Space Odyssey”: Representation and Interpretation, Intellect Books, Bristol 2018.