“Non descrivere più la vita delle persone, ma soltanto la vita. La vita da sola: quello che c’è tra le persone, lo spazio, il suono e i colori”. È con queste parole pronunciate dal protagonista Ferdinand che sembra venir disvelato il cuore di Pierrot le fou (Godard, 1965) e tracciata, al contempo, una direttrice di ricerca decisiva per tutta l’opera cinematografica di Godard. Questa intenzione narrativa è sostenuta nel film da un racconto che si serve del modello classico del noir per scombinarne i canoni ed aprirsi verso spazi inediti entro cui far irrompere la vita. Ferdinand è un uomo con una vita borghese, sposato con una ricca ereditiera e padre di famiglia. Dopo l’incontro con una sua ex innamorata, Marianne, decide di scappare con lei e abbandonare la sua vecchia vita. 

Girando gran parte del film in pieno giorno, Godard si muove tra i cliché del genere per riempirli di elementi ulteriori: citazioni di romanzi, riproduzioni pittoriche, rimandi ad opere cinematografiche e ad alcuni suoi film. Rivela ad esempio un poster di Le Petit Soldat (Godard, 1963) e interrompe un documentario sulla guerra del Vietnam con una clip di Jean Seberg tratta dal suo episodio Il profeta falsario (1964) del film collettivo. Per l’intera pellicola, il regista francese fa razzia di dati che provengono dal fuori, accumulando elementi che aprono le immagini componendo riferimenti e contesti alternativi. In questo senso è frequente e ricorsivo l’uso di meccanismi di contrasto che spesso arrestano la continuità narrativa, come quando una scena d’azione viene interrotta dalla scritta al neon “Las Vegas” che tronca anche il motivo musicale. 

La voce fuori campo della narrazione è affidata a Ferdinand e Marianne che continuano le frasi l’uno dell’altro, ma danno al contempo l’idea di essere due parti frammentate e atomizzate. Queste misure sembrano allargare le maglie della narrazione aprendosi ad uno spazio alternativo, oltre i cliché, con Deleuze (2007), per raccontare la vita fuori legge, l’apertura agli eventi, l’amore folle, la trasgressione dell’ordine simbolico, esprimendo così un patrimonio del visibile altrimenti nascosto, in grado di svelare altre ipotesi di storie possibili. Solo quando il pensiero sarà in grado di far emergere l’elemento politico che si cela in un’esistenza singolare, «la politica potrà uscire dal suo mutismo e la biografia dalla sua idiozia» (Agamben 2018).

Come muoversi dentro una vita, quella di Max Stirner, per scovarne il carattere che travalica il puro tratto biografico è il problema con cui Adrián Cangi e Ariel Pennisi in L’Anarca. Filosofia e politica in Max Stirner devono confrontarsi per ricostruire il pensiero del “cospiratore solitario” della modernità. Un testo che ci ricorda quanto profonda è stata la penetrazione del pensiero di Stirner nella storia moderna dell’Occidente, ma soprattutto un lavoro in grado di mettere in luce una domanda che l’autore sembra porre ancora oggi: come valicare la pura speculazione in favore del gesto esistenziale?

Di Stirner non restano che pochi resti di una biografia; in fondo lui si mostra solo attraverso l’unico libro pubblicato in vita, L’unico e le sue proprietà. «Io sono solo l’indicibile, mi mostro solo» (1979) scrive di sé stesso. Stirner è cioè non solo un uomo solo, ma chi si sottrae ad un certo modo di essere in pubblico, alle modalità della vita sociale del suo tempo. In questo senso scrivere non vuol dire altro che rompere la relazione tra la parola e se stessi, per appartenere ad una lingua che nessun altro parla e che non si rivolge a nessuno, ma che mostra solo sé stessa. Muoversi tra le maglie concettuali dell’unico libro di Stirner, significa muoversi in una vita “singolare”. La forma di ribellione stirneriana non prevede adepti o compagni di viaggio, né tantomeno è interessata ad una qualche forma di leadership intellettuale o politica. 

Il libro sarà attaccato e screditato per la radicalità della sua critica che vede nell’umanesimo del tempo il nemico per eccellenza, minando – secondo l’alto consiglio Prussiano di Censura nel 1845 – i fondamenti religiosi e morali, l’ordine politico e sociale. Stirner rifiuta qualsiasi autorità e disprezza qualsiasi forma di catechismo statale o morale. La sua figura e il suo pensiero non intendono essere uno strumento per la rivoluzione, ma un’arma di difesa in tempo di dispersione, non la possibilità di appropriarsi di nuovi territori, ma la possibilità di tracciare una nuova mappa del mondo. Stirner deve allora attraversare la più complessa delle conoscenze, impossibile da acquisire attraverso le istituzioni della società: saper fallire. Una pratica non adattabile al successo borghese, ma anzi antidoto alla normalità meritocratica e al trionfo della società capitalista. Stirner non vede alcuna possibilità di redenzione, egli non è un umanista, ma è un “fallente” – non un fallito

Il cuore della modernità che intende abbattere è l’autoreferenzialità dell’Io, che rivolge la sua logica verso un “Io”, un “Soggetto” o un “Individuo” totalizzanti che sfociano nel paradosso neoliberale che ci vuole “imprenditori di noi stessi”, accomunando la cultura imprenditoriale e la vita, ovvero la sete del guadagno ad una generosità esondante inassimilabile al business. Obiettivo de L’unico e le sue proprietà è di rendere inoffensiva l’unità della sostanza trascendentale, la cui vetta massima è raggiunta dallo “Spirito assoluto” di Hegel. Un gesto che si compie tra l’appropriazione del mondo e la «riduzione di ogni trascendentale al proprio corpo» (ivi). Uno, Io, Proprietà, sono esattamente questi i gesti egoici che intendono rompere con la prospettiva umanistica che ne fa dei gesti moralmente riprovevoli – contro il diritto, l’economia, la religione e le istituzioni sociali – per poter fondare sul nulla la propria causa. Per Stirner, il principio di tutte le cose, e Dio stesso, non è altro che il nulla. Questo carattere scettico, che non riconosce alcun fondamento e rischia di trasformarsi in autoannullamento, viene traslocato da Stirner sul piano della scrittura spezzando il rapporto tra parola ed esistenza, per ricomporre nella vita il silenzio dell’esistenza e il grido del rivoltoso

Per Albert Camus, Dostoevskij instilla in Karamazov le caratteristiche dell’eroe esemplare di questo nuovo ribelle radicale e profondo, che non accettando né il mistero né il male ritiene la creazione stessa inaccettabile ed è così in grado di portare alle estreme conseguenze una forma di ribellione che rifiuta ogni consolazione e che prevede l’allontanamento da tutto ciò che è sociale. Ma se per Dostoevskij Dio è morto e siamo tutti inevitabilmente nichilisti, per Stirner gli dèi tornano sotto mentite spoglie dentro le pieghe del capitalismo e abitano l’interiorità umana. L’uomo è solo un ulteriore versione dell’essere supremo. Per questo la sua “controstoria del nulla” non è da concepire come negatività che svuota i concetti logici o metafisici dalla storia, ma va pensata come una categoria filosofica che spinge l’essere verso la libertà in grado di dare una nuova chance al pensiero.

La questione che si pone, allora, è se questa presa di distanza dal mondo è una condanna all’inazione. Altrimenti quale stile di vita percorrere? Sarà Ernst Jünger, in uno dei suoi romanzi, a saggiare le caratteristiche di una figura di ribelle radicale proprio a partire dalla lettura de L’unico e le sue proprietà. Il protagonista di Eumeswill (1977) è l’”anarca”, non un idealista ma un pragmatico avventuriero di nuovi possibili mondi. Per Stirner, dunque, l’uomo è altrettanto opprimente di Dio. L’uomo è la nuova astrazione idealista, che nega la materialità sensibile dell’individuo pretendendo di “parlare per lui”, di rappresentarlo. È uno spettro che dissacra l’unicità dell’individuo paragonandolo a un ideale.

Al corpus del pensiero del moderno, Stirner intende contrapporre un pensiero di natura “egoistica”, ma che si oppone fortemente ai principi neoliberali. Come è noto per Marx la proprietà privata deriva da un processo di espropriazione sanguinario – della terra, dell’uso del mare, delle persone o della tecnologia – che trasforma ogni cosa in profitto. Stirner invece affronta la proprietà dal punto di vista filosofico e antropologico: «Prenderò secondo i miei mezzi» (ivi). Concependo così l’appropriazione come potenza dell’io che si dispiega, Stirner intuisce che il problema della proprietà privata è un tema concreto che il comunismo di Marx problematizza, ma che non può risolvere. Che ne è infatti dell’appropriazione singolare, senza utilità, che non ha una destinazione produttiva? Che ne è dell’Unico che abita ogni individuo ed è tra tutti gli individui? Nei termini di Stirner l’”interesse personale” ovvero le modalità con cui la vita si dà e la cui unica necessità dei corpi di espandersi: gli “appetiti legittimi” della vita.

Proprietà e libertà sono in lui fortemente connessi, insistendo però, sull’idea che è la nozione di proprietà, di esprimere cioè la propria potenza sulle cose, a dare concretezza alla libertà, fino a fargli chiedere: “A cosa serve una libertà che non ti dà niente?”. Per Stirner la proprietà è quindi un momento della potenza, che non è semplicemente una rivendicazione della libertà, ma l’affermazione del potere del corpo, la liberazione come possibilità di avere, a partire dall’ “avere-se” come esperienza dello sdoppiamento che sperimenta immanentemente il proprio limite. Affrontare l’opera e la vita di Max Stirner significa, allora, confrontarsi con una filosofia che coincide con una sperimentazione politica, tentando d’inceppare un tempo saturo di forze “realiste” che intrappolano la capacità di immaginare nuovi stili di vita e nuovi mondi possibili.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, L’uso dei corpi, Homo Sacer IV, in id., Homo Sacer, Edizione integrale 1995-2015, Quodlibet, Macerata 2018.
G. Deleuze, Cinema 2, L’immagine tempo, Ubulibri, Milano 2007.
M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, Biblioteca Adeplhi, Milano 1979 (1844).

Adrián Cangi, Ariel Pennisi, a cura di, L’Anarca. Filosofia e politica in Max Stirner, Mimesis, Milano 2023.

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