Un algoritmo, secondo la definizione del Vocabolario online Treccani, è «un procedimento di calcolo esplicito e descrivibile con un numero finito di regole che conduce al risultato dopo un numero finito di operazioni, cioè di applicazioni delle regole». Nel suo ambito, dall’informatica all’intelligenza artificiale, l’algoritmo svolge perfettamente il suo inumano e impersonale lavoro. Il problema sorge quando si prova ad algoritmizzare anche ambiti dell’esperienza umana che non sono algoritmizzabili, perché non esiste, per questi ambiti un «numero finito di regole» che, dopo un altrettanto «numero finito di operazioni» possano condurre «al risultato» finale. Al contrario, per la stragrande maggioranza delle interazioni umane – almeno quelle interessanti, certamente non quelle burocratiche – non solo non esistono delle regole predefinite per arrivare al risultato, ma non è nemmeno chiaro quale possa essere questo risultato. Ammesso che ci sia. Il problema, allora, nasce quando si estende la razionalità algoritmica anche alla razionalità non algoritmica, cioè quelle forme di ragionamento e di affettività che non possono essere, appunto, formalizzate e logicizzate.
Questa estensione è particolarmente esiziale quando si prova a normalizzare il linguaggio ordinario, e le forme di pensiero e di emozione che sono inseparabili da quelle forme. Perché è questa la posta in gioco, estendere il modello del calcolo, dell’algoritmo appunto, a tutte le forme di comunicazione e di ragionamento. E siccome attraverso e nel linguaggio si organizza tutta la nostra esperienza, rettificando il linguaggio si rettifica l’intera esistenza, che sempre più si adatta al modello dell’algoritmo, e quindi aspira ad assumere i caratteri di un «procedimento di calcolo esplicito» che risponde ad un numero finito, e possibilmente ridotto, di regole. Si discute delle forme della comunicazione, ma in realtà si stanno proponendo forme di vita. Le questioni linguistiche sono immediatamente questioni politiche. È questo, in fondo, il tema del libro di Enzo Melandri, L’analogia, la proporzione, la simmetria (a cura di Luca Guidetti, Quodlibet 2023, prima edizione 1974), che discute in modo preciso e dettagliato delle forme di discorso/pensiero che, appunto, si basano su procedimenti non algoritmici di ragionamento: «Tutti facciamo uso di analogie. L’apprendimento, l’esperienza, lo sviluppo intellettuale dipendono da tale uso; senza di esso non si potrebbe neppure pensare» (ivi, p. 13). È questo il punto, il pensiero umano è fondamentalmente analogico, cioè basato su operazioni razionali ma non per questo logico-algoritmiche:
Un punto dovrebbe esser chiaro. L’esistenza di procedimenti di pensiero del tutto razionali di cui non è possibile render ragione con criteri strettamente logici deve assumersi come un fatto. […] Ne consegue che l’illogico (intendendo il termine letteralmente come complemento del logico, di ciò di cui è possibile render ragione per mezzo della logica, classicamente intesa) non coincide affatto con l’irrazionale (ossia di ciò che, o per contraddizione interna, o per mancanza assoluta di giustificazione, per principio resta al di fuori di ogni controllo) (ivi, p. 138).
È questo uno dei meriti maggiori di questo libro, mostrare attraverso descrizioni analitiche e affatto razionali la non riducibilità al calcolo del fondamentale dispositivo cognitivo ed affettivo dell’analogia, cioè di quel tipo di ragionamento che trova e/o inventa somiglianze e corrispondenze laddove, invece, il pensiero puramente logico esclude che possano esistere. Il punto consiste proprio nel fatto che pur essendo una forma razionale di pensiero l’analogia non è formalizzabile, ossia non se ne può dare una definizione algoritmizzabile: «Il concetto stesso di analogia implica che non se ne possa dare una definizione univoca e inclusiva di tutti i suoi usi» (ivi, p. 13). Non è che l’analogia sia illogica, al contrario, è quel modo di pensare che è logicamente illogico, ma non per questo è logicamente irrazionale.
Il pensiero logico è il procedimento lineare della deduzione da principi dati, e per mezzo di essi soli. Da questi principi si richiede solamente che funzionino come assiomi: cioè che siano coerenti-tra-loro, applicabili a tutti i casi possibili e minimi nel numero complessivo. Il pensiero analogico è per converso circolare, perché ribalta la conclusione sulle premesse e mette in corto circuito la deduzione. Questa circolarità può esser talmente angusta da far ‘saltare le valvole’, e allora si annulla il discorso razionale. Ma può anche esser tanto ampia da ricomprendere in sé come caso particolare quello della linearità del discorso. Ciò avviene quando dall’opposizione ai principi logici, in senso stretto, si può ricavare un quadro alternativo, analogico, ma non per questo irrazionale: proprio perché altrettanto coerente, semplice e completo (ivi, p. 139).
Pensare in modo analogico significa allora pensare, e sentire, in modo da cercare nel mondo dell’esperienza delle assonanze, delle segrete analogie appunto, che solo una volta formulate possono diventare – talvolta, ché spesso le analogie risultano invece inefficaci – evidenti, cioè visibili a tutti. Allo stesso tempo Melandri mostra come il procedimento analogico funzioni solo se si scontra con un pensiero che pretende invece di essere del tutto non analogico, del tutto logico e tendenzialmente algoritmico. Un pensiero esclusivamente analogico non sarebbe propriamente un pensiero, perché l’efficacia possibile dell’analogia si manifesta solo quando si stabilisce quello che Melandri chiama un «gioco analogico» (ivi, p. 15) con la razionalità non analogica:
Diremo che nell’analogia operano due momenti opposti e al tempo stesso complementari, quindi anche cospiranti. Chiamiamo l’uno la trasgressione e l’altro il controllo delle regolarità discorsive (più specificamente, argomentative) inerenti al suo uso. L’analogia risulta dall’interazione di questi due momenti. Il momento della trasgressione esprime l’eccedenza, l’innovazione, la non conformità di un pensiero o meglio della sua espressione rispetto a quanto è già stato pensato o espresso in forme regolari, consuete, di prammatica. Il momento del controllo opera nel senso opposto, sforzandosi di eliminare l’irregolarità e quindi di riformulare l’emergenza, l’altro, il nuovo in termini di identità o di equivalenza con quanto è già noto, accettato, canonico. La molla della trasgressione è l’intelligenza intesa quale atto creativo, produttivo, innovatore; l’istanza del controllo spetta alla cultura intesa come atto critico, inibitore, riassimilativo (ivi, pp. 14-15).
Si comprende perché parlare di pensiero e di linguaggio significa anche, e allo stesso tempo, parlare di politica. Il pensiero analogico intravvede fra campi diversi del mondo e della vita corrispondenze e simmetrie che invece il pensiero del «controllo» esclude che possano esistere. In questo senso si tratta di un pensiero che forza il pensiero al di là di «quanto è già stato pensato» ma che contemporaneamente ha bisogno di quello stesso pensiero «espresso in forme regolari» – la «cultura» di un dato periodo storico – perché altrimenti non sarebbe altro che un banale e inutile ragionamento campato in aria. In che consiste, propriamente, il peculiare procedimento illogico ma razionale della analogia? «La matrice di ogni analogia è sempre una funzione di proporzionalità. […] La funzione di proporzionalità ha la forma di un’eguaglianza tra due coppie di due termini: f(x1/x2 = x3/x4) […] che è la struttura dell’analogia» (ivi, p. 39); questo sta a quest’altro come quello sta a quell’altro.
È garantita l’analogia? Evidentemente no, ché altrimenti ricadrebbe nel pensiero logico/algoritmico. C’è una regola per stabilire/vedere analogie? Altrettanto evidentemente no, ché il pensiero analogico è per sua natura avventuroso e problematico. È necessaria, l’analogia? Non è semplice rispondere a questa domanda, perché rispondere in modo affermativo significherebbe già valutare l’eventuale validità pragmatica dell’analogia in base ai suoi effetti, e questo significherebbe riportarla in qualche modo nel campo del pensiero calcolabile. Si può fare a meno del pensiero analogico? Evidentemente sì, il trionfo globale del pensiero algoritmico non dimostra altro che non solo se ne può fare a meno, ma che questo dispositivo logico-economico non sa che farsene di un pensiero che cerca sistematicamente la «trasgressione». Se la «molla della trasgressione è l’intelligenza intesa quale atto creativo» in realtà questo pensiero appare tutte le volte, e sempre in modo imprevedibile (la scienza dell’analogia è sempre e solo a posteriori, mai a priori), che il mondo ci sorprende, e ci mostra assonanze che la ridicola limitatezza dei nostri calcoli non riusciva a immaginare.
Melandri ha ragione, il pensiero analogico è sicuramente un «pensiero creativo», tuttavia si tratta di una creatività non soggettiva, che è il mondo, in primo luogo, ad essere analogico. L’intelligenza, almeno questa logicamente illogica forma di intelligenza, consiste allora, propriamente, nel risuonare all’intelligenza analogica del mondo stesso. Si spiega così la meraviglia che si prova di fronte all’accostamento analogico riuscito: «Il valore dell’analogia evocativa, qualora sia efficace, sta nel fatto che provoca una temporanea sospensione del giudizio – sia gnoseologico, sia morale ed estetico – e questo a sua volta si manifesta emotivamente in un sentimento estatico quale lo stupore o la meraviglia. […] L’effetto di stupore è determinato dall’accostamento, peregrino ma sensato, di significati in precedenza non collegati tra loro e che anche dopo di ciò restano l’un l’altro estranei» (ivi, p. 26).
È questo il punto decisivo, nel pensiero analogico i significati dei concetti risultano collegati anche se non smettono di rimanere «l’un l’altro estranei». L’analogia non è mai pacifica né tantomeno pacificante, per questo ha sempre bisogno dell’istanza del controllo con cui confrontarsi. Non si tratta di vedere il mondo come un luogo in cui tutto corrisponde a tutto (questo non sarebbe più un pensiero), piuttosto di vedere l’analogia all’opera in un mondo del tutto logicizzato, ma anche vedere la logica come sempre sul punto di lasciare spazio all’analogia. Si comprende così, forse, il curioso esempio che compare ad un certo punto del libro, in cui si pone la questione – lontanissima dall’andamento del resto della trattazione di Melandri, sempre tesa sul filo della logica e del calcolo – della credenza in Dio. Non si risponde logicamente alla domanda sul senso del mondo, si tratta forse di sostare in quello che potremmo chiamare un vero e proprio spazio analogico, lo spazio dello «stupore e della meraviglia», fra trasgressione e controllo, fra abbandono e chiusura:
Supponiamo che io mi chieda le ragioni che ho di credere o di non credere in Dio, e che voglia procedere in maniera equanime. Per semplicità, assumiamo che io dia il valore di prova a ogni dimostrazione dell’esistenza o della non-esistenza di Dio, ponendo ciascuna dimostrazione sullo stesso piano. Poniamo inoltre che il responso dia 7 prove a favore dell’esistenza di Dio e 3 contro. Che cosa ne concludo? – Sarebbe forse logico dire: l’esistenza di Dio batte la sua inesistenza per 7 a 3, quindi ci credo? O piuttosto: credo in Dio non del tutto, ma al 70%, quindi la sua esistenza è dell’ordine dello 0,7 (cioè inferiore a quella delle cose sensibili)? – Il pensiero logico dirà sempre che in Dio, o in qualsiasi altra cosa, si può o credere o non credere; mentre il pensiero analogico sosterrà la tesi opposta della perplessità, o, meglio, dell’irrilevanza di una conclusione posta in tali termini. L’importante non è credere in Dio (chissà che cosa vuol dire?), ma dare un senso alle proprie credenze. Ma tutto ciò che ha senso, lo ha secondo un più o un meno, è comparabile e quindi rapportabile (anche se non necessariamente misurabile) (ivi, pp. 175-176).
Enzo Melandri, L’analogia, la proporzione, la simmetria, nuova edizione riveduta a cura di Luca Guidetti, Quodlibet, Macerata 2023.