Insh’Allah è un’espressione che indica, per musulmani e cristiani arabi, la necessità di rimettersi alla volontà di Dio: se Lui vuole, allora le cose andranno come devono andare. Mariem e Dali sono due giovani tunisini in attesa del loro primo figlio. Per quattro lunghi anni i due sposi si sono sottoposti a cure mediche per riuscire a diventare genitori e adesso, “se Dio vuole”, lo diventeranno. Del resto, l’ecografia non sembra lasciare alcun dubbio: l’immagine restituita dal monitor è, infatti, quella di un bambino sano. Insh’Allah – ripete loro la ginecologa – diventeranno genitori di un bel maschietto. Quando Mariem partorisce, tuttavia, le cose cambiano perchè il bambino appena nato è intersessuale: non è solo un bambino, ma è anche una bambina. Ai genitori vengono concessi tre giorni di tempo per decidere quale sarà il sesso della creatura che hanno appena messo al mondo: questo permetterà ai medici di operare con rapidità sul neonato per rimuovere l’organo genitale considerato “in eccesso”, e poter così iscrivere il bambino all’anagrafe evitando l’intervento dei giudici. 

Questo è l’inizio de L’Aiguille di Abdelhamid Bouchnak, film presentato in concorso nella sezione lungometraggi all’ultima edizione del Torino Film Festival, e che ha vinto non solo diversi riconoscimenti collaterali, ma anche il premio per la migliore sceneggiatura. Dopo l’horror Dachra (2018) – presentato alla Settimana Internazionale della Critica alla 75esima edizione del Festival di Venezia – il regista si trova questa volta ad affrontare un tema complesso ed estremamente controverso per la società tunisina: la legge, infatti, non riconosce l’esistenza di identità non binarie e ancora oggi i genitori di bambini intersessuali sono obbligati a scegliere quale sarà la sessualità del figlio/a e, di fatto, mutilarli per far sì che questi possano rientrare in una logica di genere normata, socialmente accettata e basata sul binarismo. L’Aiguille ci racconta proprio le 72 ore successive al parto di Mariem, ovvero il poco tempo concesso ai genitori per decidere come vorranno crescere il loro figlio. Non è un caso che chi qui scrive continui a utilizzare il sostantivo maschile: parenti e amici sanno che Mariem e Dali avrebbero messo al mondo un maschietto così come era stato decretato dall’immagine medica e, soprattutto, un vero uomo non può che mettere al mondo un figlio maschio – come aveva orgogliosamente annunciato Dali ai suoi amici. Cosa penseranno adesso? Dunque, non sembrano esserci dubbi, non possono esserci ripensamenti: l’intervento assegnerà un’identità definita al figlio che diventerà così uomo, e i due genitori potranno continuare la loro vita serenamente, senza doversi vergognare di aver messo al mondo un bambino contro-natura. Così è deciso. Ma è davvero così semplice? E soprattutto: se Dio ha voluto che il bambino non fosse solo maschio ma anche una bambina, chi sono Mariem e Dali per cambiare la sua volontà? Se così è stato, allora così deve essere. E poiché questo è l’unica legge da rispettare, afferma il padre di Dali, nessuno, neanche i genitori possono sostituirsi al volere di Dio. 

Se il film di Bouchnak è – per ammissione dello stesso regista – un chiaro atto di accusa nei confronti della società tunisina, l’Aiguille lascia tuttavia sullo sfondo il dibattito pubblico per concentrarsi su ciò che accade dentro le mura domestiche. Ugualmente, il film avrebbe potuto facilmente farsi portavoce di una delle tante storie di bambini intersessuali che hanno subìto la decisione dei propri genitori, ma questo avrebbe significato diventare traduttore di storie di corpi che non vogliono – e non devono – più essere “parlati”. La forza dell’Aiguille, insomma, è proprio quella di essere un film politico perché utilizza politicamente il linguaggio del cinema. Arretrando di fronte al corpo di Nour – questo il nome maschile e allo stesso tempo femminile assegnato dal nonno al/alla nipote – il film evita ogni tentazione voyeristica per indagare invece a fondo lo spazio aperto dal dilemma morale, etico, religioso che investe i genitori: se la decisione non può che aprire una frattura insanabile nella vita di Mariem e Dali allora è lì che la macchina da presa deve guardare, in quel dolore tutto personale che si genera di fronte all’impossibilità di decidere tra ciò che è giusto e ciò che deve essere fatto

Mentre i due genitori litigano per decidere quale sarà il futuro del figlio/a, richiudendosi sempre più nell’apparente sicurezza della loro casa, lo sguardo della macchina da presa si avvicina: via via che gli spazi si restringono, cambiano i colori che diventano neutri e che rendono la casa un luogo irreale, soffocante. Ma è proprio in questa vicinanza della macchina da presa che può emerge la natura complessa dei personaggi: Mariem è – letteralmente – il nome della madre che accetta Nour senza riserve, e che con il passare dei giorni matura la convinzione che il/la figlio/a debba poter decidere della propria sessualità solo una volta raggiunta l’età per farlo; Dali vorrebbe invece che Nour diventasse ciò che, di fatto, non è, e per questo motivo rifiuta ogni contatto con lui/lei. Ed ecco la cifra politica de l’Aiguille, il suo prendere posizione: di fronte all’amore incondizionato di Mariem, così come dei nonni di Nour, la vera mostruosità, sembra urlare il film, è un padre che non ama il proprio figlio/a, che ne rifiuta persino la vista – in una potentissima sequenza vediamo Meriam alle prese con il cambio di pannolino di Nour mentre ciò che riempie l’immagine è soprattutto il suono di Dali che vomita in bagno dopo aver visto il/la bambino/a nudo/a. Ed è proprio questo non-riconoscimento a generare la decisione che segnerà per sempre il destino di Nour: sostituendosi a Dio e diventando lui stesso legge, Dali rapisce il/la figlio/a e, mentre Mariem dorme, lo porta in ospedale. A nulla vale la disperata corsa della madre: Nour è già in sala operatoria, un ago sta decidendo per lui/lei. 

2023. Con un’ellissi temporale il film ci spinge avanti nel tempo, ci porta nel nostro presente che è soprattutto il presente di Nour. Un giovane ragazzo è seduto in un bar, sta fumando una sigaretta mentre attende l’arrivo di una ragazza che lo raggiunge dopo qualche secondo: la giovane si presenta, si chiama Nour. Il padre ha dunque deciso per lei un’identità femminile? Come a voler rispondere alla nostra domanda, la giovane si volta verso la macchina da presa e guarda verso di noi. Uno sguardo che sembra essere un riferimento – volontario o meno – al film di Bergman: così come lo sguardo di Monica (Monica e il desiderio, 1953), infatti, anche Nour interroga lo spettatore, lo chiama in causa. Nella grande infrazione del linguaggio classico del cinema, lo sguardo in macchina di Nour rompe la finzione sulla quale si costruisce il film, per collassare nel reale. Ciò che Nour ci chiede non è però un riconoscimento: ciò che sembra chiederci è, invece, di poter essere lasciata libere di essere finalmente Nour.

L’Aiguille. Regia: Abdelhamid Bouchnak; sceneggiatura: Abdelhamid Bouchnak; fotografia: Hatem Nechi; montaggio: Abdelhamid Bouchnak; interpreti: Fatma Sfar, Bilel Slatnia, Jamel Madani, Sabah Bouzouita; produzione: Shkoon Production; origine: Tunisia, Francia, Arabia Saudita; durata: 115’; anno: 2024.

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