L’incipit del film diretto da Greta Gerwig sembra porre in primo piano temi e intrecci focali della vicenda, la quale corrisponderebbe a un passaggio di vita di stampo autobiografico, un consuetudinario coming of age dai toni ribelli (o indie) che mette a dura prova nervi e cuore di un’adolescente come tante, travolta dai disordini di un’età difficile da gestire. Ecco, dunque, i primi tête-à-tête con l’esasperante madre e il senso di attesa e ardente desiderio che accada “qualcosa di memorabile”, nella fattispecie la partenza tanto agognata per un college della East Coast statunitense – dove, a detta della sognante protagonista Saoirse Ronan, “gli scrittori vivono nei boschi” – per dare finalmente avvio a quella vita e a quel sogno così americani di liberarsi dall’oppressione della ristretta provincia e iniziare una vita da vera newyorkese.

Gerwig, che ruba pezzi della propria esperienza per questo primo lavoro in solitaria, colloca la sua Lady Bird dai capelli rosa e indole anarchica, che la spinge a darsi un nome da sola, proprio nella sua natale Sacramento e proprio all’inizio degli anni Duemila, moltiplicando ulteriormente il livello di finzione attraverso lo sdoppiamento di sé nella Ronan, e poi di Christine McPherson in “Lady Bird”. Sotto questo primo superficiale strato narrativo, si scorge presto un problema teorico di maggiore pregnanza: quello di un cinema nel quale personaggio e regista entrino di forza in un comune intermezzo di vita e pensiero, costituendo una sorta di cortocircuito creativo e intenso, un’apertura nella quale lasciare spazio a un individuo estraneo al reale, al quale preferisce il sogno, fuori dalla società dalla quale viene rigettato e invitato costantemente all’adeguamento a regole e ad aspirazioni più “misurate”. Cinema aperto che tenta di sondare gli spazi di crisi e di squilibrio – con il pretesto dell’adolescenza –, ove la vita può aspirare a creare nuovi mondi e sogni, al di là di ogni infausta logica razionale.

È solo in questa faglia, per l’appunto, che trova posto una ragazza come Lady Bird, senza particolari doti né valore, nei fatti anonima e per questo così legata a un sogno irrealizzabile con il quale fuggire la propria realtà di coercizioni; senza sostegno né fiducia da parte di famiglia e istituzioni (cattoliche, in questo caso), che la considerano sempre meno di ciò che ella vorrebbe essere o diventare, castrando aspirazioni e presunte volontà orientate al futuro. Christine Lady Bird rimane, allora, chiusa in un cerchio di costrizioni e regole alle quali tenterà ostinatamente di ribellarsi, e tutte imposte dall’alto di un sistema che rimane cieco di fronte al suo desiderio di realizzazione per poi, in fin dei conti, rivelarsi “finzionale” e inadeguato esso stesso, tanto alla formazione del soggetto quanto nella capacità di garantirne un inserimento nella società costituita.

Non sembra casuale che Gerwig scelga deliberatamente di assegnare i ruoli determinanti alle sole figure femminili, uniche protagoniste dell’azione che resta: di fronte alle impossibilità economiche, è la madre infermiera Marion (Laurie Metcalf) a usare le maniere forti, e gestire per quanto possibile una famiglia vittima come tante altre di un’improvvisa disoccupazione – la loro casa si trova “dalla parte povera dei binari” – e, ancor più, i raffronti con le famiglie benestanti (e repubblicane), il cui giudizio grava in incognito su tutta la vicenda. Per contro, i presunti padri, appaiono come spodestati del potere e dell’autorevolezza di un tempo, tanto da risultare infine inetti, senza futuro e in crisi esistenziale, ciascuno a suo modo: il padre di Lady Bird è disoccupato e depresso da anni; il fratello maggiore, laureato in matematica a Berkeley, resta ancora senza alcuna reale prospettiva lavorativa; il primo fidanzato Danny rinnega e nasconde disperatamente a se stesso e alla famiglia la propria omosessualità; persino padre Leviatch, rappresentate della parola della Chiesa, dunque presunta guida spirituale e di vita per i ragazzi della scuola, si rivelerà infine un uomo senza carattere, gravemente segnato da una perdita personale.

I baluardi della società sembrano cadere a pezzi, sempre più incapaci di orientare il reale contemporaneo; l’ideologia moralizzatrice appare soffocante e priva di senso in rapporto all’emergere (e all’emergenza) del soggetto che si avvia al processo della vita, inteso come libera e autonoma costruzione del Sé, al limite ribelle quanto creativo tentativo di fuga dal reale. La sottigliezza del film viene colta nel suo sapere scrutare delicatamente, e nello stesso tempo colpire a fondo, quell’America dimentica dei propri figli e fratelli, impegnata in un conflitto che ha già visto precipitare le sue fondamenta in quell’11 settembre che il film non smette di ricordarci, come non cessano le notizie dei bombardamenti in Iraq al telegiornale. Adesso, alla vigilia della partenza per il college nella Grande Mela, il primo pensiero è “Come la metti con il terrorismo?”, manifestando tutta l’inautenticità del sogno stesso d’emancipazione; ma ancor prima, la preoccupazione principale dei genitori per i propri figli, è che non frequentino più la scuola pubblica, luogo di violenze e possibili accoltellamenti (il caso del fratello Miguel). Il quadro che ne viene restituito è sempre più denso di riferimenti, manifesta in modo esplicito sempre più numerose e profonde crepe nel sistema (americano) del quale non ci si fida più – o almeno così è dalla parte povera dei binari –, disconoscendone il ruolo di guida e garante. “Un’unica Nazione sotto Dio… Libertà e giustizia per tutti… Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”: sono preghiere vuote, prive di convinzione, messe in bocca a una ciurma di ragazzi scialbi, che nei fatti non credono né in Dio né alla Nazione, e oramai si battezzano da soli.

La tesi portante dell’opera viene esplicitata attraverso il personaggio smaliziato del giovane Timothée Chalamet, unico tra i suoi compagni a leggere e a interessarsi a un mondo che per lo più resta inesplorato dai suoi coetanei. Kyle porta con sé dappertutto il testo di Howard Zinn, A People’s History of the United States (1980) – oltre ad avere una band che si chiama emblematicamente “L’Enfance Nue” –; parla spesso di microspie che il governo avrebbe distribuito per meglio sorvegliare la popolazione; sostiene di non volere partecipare all’economia americana e di essere nemico dei soldi, mostrando un controcanto naïf di una più consapevole Marion che, dal canto suo, insegna alla figlia quanto il denaro non sia un buon indicatore di vita né faccia la felicità.

Sembra che il film viri sempre più decisamente verso il ritratto di un mostro invisibile che resti in agguato, che si insinui nel più meschino paese di provincia quanto nel più grande e globalizzato che scrive (e ri-scrive) una Storia e un’Informazione storpiate dallo sguardo di chi le fa dai posti più alti (la lezione, appunto, dello storico Zinn), negando oltremisura possibilità o modi di esistere, quelli appunto più creativi e pronti a bucare il sistema coercitivo per liberarsene.

Dietro una fisionomia da film generazionale che, per alcuni tratti pop e senso del soffocamento sociale ricorderebbe le “vergini suicide” di Sofia Coppola (1999), Lady Bird di Greta Gerwig diventa invece vera e propria vigilia del distacco anche politico, molto più di una partenza verso il college dall’altra parte del Paese: un vero e proprio ritratto, duro ma anche semplice e poetico, del tentativo di emancipazione da una Madre (non più un Padre) più grande, ove la perdita della verginità (anche registica per la Gerwig) corrisponde alla realizzazione di un’esperienza piena, personale, secondo regole proprie, che riportino ogni rapporto di forza al sé, al fine di riscoprire la vita (o la patria o il cinema), in quanto costruzione finzionale, ma pur sempre liberatoria e artistica.

Riferimenti bibliografici
H. Zinn, Storia del popolo americano. Dal 1942 a oggi, Il Saggiatore, Milano 2005.

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