L'operazione del discorso analitico consiste  nel costruire un modello della nevrosi. A che pro? Lo fa nella misura in cui vi toglie la dose di godimento. Il godimento infatti esige il privilegio: per ognuno non ci sono due modi di averci a che fare. Ogni reduplicazione lo uccide. Sopravvive soltanto se la sua ripetizione è vana, cioè sempre la stessa. L'introduzione del modello dà il colpo di grazia a tale riproduzione vana.
Jacques Lacan

«Non c’è nulla di più pericoloso delle confusioni a proposito di quello che è Uno» (Lacan 2020, p. 102), chiosa Lacan nel seminario, appena tradotto in italiano per Einaudi e intitolato, significativamente, … o peggio. Significativamente perché, volendo, si potrebbe dire che non c’è nulla di peggio della confusione intorno a ciò che è Uno. I 195 argomenti, divisi in 8 sezioni, con cui vengono discusse le due ipotesi intorno alla sua natura nel Parmenide di Platone – l’Uno, se è; l’Uno, se non è – lo provano. E nondimeno, che se ne parli, che cioè, come intuisce Lacan, il Parmenide sia «l’Uno che si dice» (ivi, p. 181), è indubbio, benché cosa se ne dica, che cosa, in sostanza, l’Uno vi dica e, di più, il fatto stesso che dica resti «dimenticato dietro quel che viene detto in ciò che si intende» (ivi, p. 219). E “dimenticato”, sia per Platone che per Lacan, il quale, proprio per questo, non esita a definire Platone «un lacaniano» (ivi, p. 127), vuol dire “aporetico”.

Il Parmenide è una macchina infernale di cui Lacan, nel seminario XIX, raccomanda comunque ai suoi uditori una lettura «innocente» (ivi, p. 108), a dire il più possibile scevra dai commenti che, nei secoli, ne ha prodotto il discorso universitario. Che la celebre ed estenuante gymnasia cui si assiste nella seconda parte del dialogo sia uno scherzo o la confutazione del deduttivismo eleatico, infatti, non lo interessa. A Lacan interessa solo che sia l’Uno a parlarvi e che dell’Uno, di quell’Uno che c’è a differenza del rapporto sessuale che, invece, non c’è, se ne parli. Ma come si può parlare dell’Uno senza alimentare la confusione che, attorno ad esso, cresce inesorabilmente come (un) Essere, come (un) Altro che l’Uno? Basta, dice Lacan, che sia l’Uno a parlare, che il dire sia suo o, come precisa nella prima lezione, che sia «Un-dire» (ivi, p. 6). Si vede bene nel Parmenide: qui “aporia” non significa “confusione”. “Aporia” vuol dire “contraddizione”, “impossibile”: quell’impossibile che bisogna scrivere proprio perché il rapporto sessuale dell’Uno con l’Essere, non si può scrivere.

Eppure, posto che il Parmenide è l’Uno che parla, come mai la sua parola è aporetica? Anzitutto perché, come accennato, «il fatto che si dica resta dimenticato dietro quel che viene detto» (ivi, p. 227), ossia dietro il sembiante, il vero. Secondariamente perché il dire che vi è intrapreso è un dire necessitato da qualcosa di irriducibilmente altro rispetto al dire stesso: un dire, possiamo tradurre, necessitato dalla sua stessa impossibilità. Per Lacan, in altre parole, la vertiginosa gymnasia protagonista di Parmenide (137c4-166c5) è una logica più che una semantica, ovvero quell’«arte di produrre la necessità di un discorso» (ivi, p. 43) che, tuttavia, da questa necessità differisce (ivi, p. 44). La logica, in effetti, è imparentata con un’altra necessità: quella che la produce come arte del produrre una necessità del discorso e che Lacan chiama “inesistenza”.

“Inesistenza”, insomma, è il nome di una necessità non logica che, nondimeno, la logica necessita. Un nome, dunque, dell’Uno, se “inesistenza” è inteso come sinonimo di “non essere”, di “disessere”, di “mancanza a essere”, e se queste privazioni, più che come negazioni, vengono intese, a loro volta, come espressioni di quell’eccedenza che, nella Repubblica, Platone indica con l’espressione «epekeina tes ousias» (Rep., 509 b-c). L’Uno, invero, è inesistente nel senso che non coincide con l’Essere, ossia con quell’Altro che, in Encore, Lacan definisce «l’Uno in meno» (Lacan 2011, p. 80). E non vi coincide perché è “sovra”, “al di là” di tutti gli esistenti: “autoerotico” ed “extrasemantico” lo definisce Miller (Lacan 2020, p. 243).

Riassumendo, per Lacan non c’è costruzione logica che non si effettui come costretta da un vincolo o limite interno. Ed è tale, nel XIX seminario, il Reale. Non, quindi, solo ciò che fa sì che dell’Uno non si possa parlare a vanvera. Ma, parimenti, ciò che fa sì che in matematica non si possa scrivere qualsiasi cosa e che l’associazione non sia mai libera, ma sempre legata. Il reale «è ciò che domina tutta la funzione della significanza» (ivi, p. 23), «il limite di ciò che può assomigliare alla punta più avanzata dell’articolazione di un discorso» (ivi, pp. 115-116). Lacan lo definisce altresì come ciò su cui nulla possiamo e che «non è alla nostra portata» (ivi, p. 151), perché la necessità d’altro ordine, in …. o peggio, si esprime nella forma di un «non poter non» (ivi, p. 16): non poter non essere così determinato nel discorso. Ecco perché Lacan si serve di un’altra categoria modale rispetto a quella del “necessario” per esprimerla: l’impossibile.

Per il Lacan che ha tanto ispirato Badiou, è solo in quanto si misura con questo impossibile che il discorso, sia analitico che logico che, infine, filosofico, permette «il passaggio del reale» (ivi, p. 11). Quest’ultimo, spiega, ec-siste più che esistere; insiste più che essere. Ed ec- o in-siste come un mantra che vale un oracolo: yad’lun. Dell’Uno, perciò, si deve parlare come di un reale «che può anche non avere nulla a che fare con una qualche realtà» (ivi, p. 136), ed è per questo, d’altronde, che se il suo avvicinamento avviene tramite il Simbolico, pure si deve dire che avviene solo quando il Simbolico si slabbra e si giunge a un’impasse, un’aporia, un paradosso: quello, per fare un esempio che si trova in …. o peggio, dell’insieme vuoto all’interno della Mengenlehre, l’altra tappa necessaria per accedere all’Uno.

Platone, nel Parmenide, ha avuto il merito di far parlare l’Uno in modo veridico, ossia fino al punto in cui arriva a ricusare ogni rapporto con l’Essere, ma la teoria degli insiemi, per parte sua, si è spinta oltre rispondendo alla domanda che chiede perché ve ne sia, ovvero “perché c’è dell’Uno?”. A quella che chiede “come si passa dall’Uno all’Essere?” o, e per Lacan è il medesimo, “dall’inesistenza all’esistenza”, la teoria degli insiemi affianca quella che chiede “donde viene l’1?”, e ciò nella convinzione che la genesi di questo dallo 0, assieme a quella del 2 dalla coppia 0-1, non proceda come Frege ha creduto. Pur avendo colto nel segno quando ha introdotto lo zero come un niente che non è un nulla e che anzi, proprio in quanto non-ente, è all’origine di tutti gli enti, Frege lo ha infatti schiacciato sullo zero iniziale della serie numerica in luogo di isolarlo come quell’insieme vuoto che, per Lacan, è un altro nome dell’Uno.

Per Frege, in breve, «tra zero e zero non c’è differenza» (ivi, p. 52). Ma, appiattendo lo zero, per così dire, trascendentale su quello empirico, anche la differenza tra quelli che Lacan individua come “due uni” – l’Uno solo e l’Uno che si ripete, la Nade e la Monade – si trova sacrificata. Lacan l’annuncia come “piccola” nella prima lezione ma, nella quattordicesima, precisa ch’essa apre su «un abisso» (ivi, p. 191): quello prodotto dall’Uno-sovraessenziale come «Uno che separa l’1 dal 2» (ibidem) e che «non si totalizza» (ivi, p. 240) nella ripetizione che pure fonda. L’Uno la fonda senza fondersi con essa perché, se vi si ripete, lo fa come inesistente, come qualcosa che «esiste in quanto non è» (ivi, p. 132). L’uno-uniano, cioè, esiste in quanto c’è, sovraè. E il reale è precisamente l’impossibilità di cavare il 2 da questo 1, à dire l’impossibilità di cavare il famoso ragno dall’altrettanto famoso buco.

Cèd’luno vuol dire «non due» (ivi, p. 182): inaccessibilità del 2 dallo 0 e dall’1. L’Uno, l’Uno reale, ec-siste in realtà traendo il proprio sostegno «da un fuori che non c’è» (ivi, p. 130), e questo vuol dire che insorge per effetto della mancanza di corrispondenza biunivoca, ossia per effetto dell’assenza di rapporto di cui, paradossalmente, è la causa. Irraffigurabile se non come un sacco bucato (ivi, pp. 142-143), l’Uno si designa esclusivamente come distinto, senza altri riferimenti qualificativi, e, soprattutto, come originantesi solo dalla propria mancanza. Sicché, a chiunque gli dia la caccia, l’Uno darà sempre «l’impressione di venire da chissà dove» (ivi, p. 133) legittimando la domanda che chiede da dove sorge e che, per il Lacan del XIX seminario, equivale a quella che chiede “quanto ve n’è?”

Il y a de l’Un (c’è dell’Uno) vuol dire y en a (ce n’è), ma il partitivo, in luogo di far luce sulla partecipazione dell’Uno con l’Essere, sembra trovarsi lì soltanto a difesa del suo mistero. “Y en a”, dice Lacan, si staglia su un fondo di indeterminazione che, però, non è quella della diade dalle cui grinfie Platone ha sottratto l’Uno. L’indeterminazione è un agente o una funzione, al pari del cèd’luno: l’agente o funzione che, in … o peggio, Lacan battezza “pas-toute” e promuove, come si sa, a cifra del godimento che è duale senza essere diadico e doppio senza essere contraddittorio: il godimento femminile.

Per vero, il seminario XIX è anche il seminario in cui le formule della sessuazione vengono incorniciate nel quadrato modale aristotelico e commentate ricorrendo all’uso di quelli che Lacan chiama «quantori» (ivi, p. 19) essendo “quantificatori”, spiega, un termine che si è accettato in mancanza di meglio e che, tuttavia, fa peggio alimentando l’illusione che, nei riguardi dell’Uno, si abbia a che fare con la quantità. Ma, sebbene si creda che derivi dall’idea di misura e di individuo (ivi, p. 154), l’Uno non è né un numero né un ente essendo, pur tuttavia, il fondamento sia dell’uno che dell’altro.

Ecco perché, chiedere quanto Uno v’è, è lo stesso che chiedersi, come facevano i teologi medievali, quanto è piena di grazia la vergine Maria. Invero, benché la grazia non sia, al pari dell’Uno, quantificabile, pure non si può non tentare di calcolare quanta ce n’è. Per farlo, Lacan costruisce una nuova logica rispetto a quella goduriosa dei Padri della Chiesa: un novum organum fondato sull’organum che non c’è anziché su quello che c’è. Essa è nuova sì, ma Lacan decide di articolarla grazie a tre, vecchi, strumenti: i prosdiorismi, la modalità e la negazione. Che sia nuova, in ultima istanza, significa solo che prende avvio dal reale e che, di più, si impegna a rendere conto di quella piccola differenza, né biologica né culturale, che è la “cosiddetta” differenza sessuale. “Cosiddetta” perché, per Lacan, i sessi non sono due o, come anche si esprime, “non c’è secondo sesso”. Ma allora come mai si distinguono? E in che modo lo fanno?

Secondo Le Gaufey, «la differenza che separa un (sesso) dall’altro non appartiene né all’uno né all’altro» (Le Gaufey 2016, p. 11), non essendo, in fin dei conti, una differenza tra due lati o posizioni. A scindersi in due, precisa Zupančič, è «la stessa inesistenza dell’Uno» (Zupančič 2018, p. 71), il quale, se esistesse, sarebbe l’Altro, l’Altro che, però, non c’è. Quello che si divide in due, secondo Zupančič, è lo stesso Uno che manca e, perciò, le formule della sessuazione non sono il tentativo di trovare una caratteristica pertinente per distinguere gli uomini dalle donne, bensì l’articolazione di due modi, logicamente diversi, in cui il meno costitutivo dell’ordine significante, meno espresso dalla funzione fallica, «viene iscritto nell’ordine stesso» (ivi, p. 77).

La differenza sessuale, cioè, «è una differenza nella configurazione di ciò che fa la differenza» (ivi, p. 78) – la castrazione –, differenza che il fallo rende significante essendo la sua significazione, la significazione del fallo, «l’unico caso di genitivo in equilibrio» (Lacan 2020, p. 64). L’Uno, di conseguenza, non può essere fondato su quella «medesimezza della differenza» (ivi, p. 173) che, solo a partire dall’Uno come insieme vuoto, può essere conteggiata ma, come la teoria degli insiemi ha arguito, «sulla pura e semplice differenza» (ivi, p. 140). La medesimezza giunge tardi e giunge come un essere diversi allo stesso modo. Tali sono il maschile e femminile colti dalla nuova logica: due significanti, l’eccezione e l’inganno, dello stesso significato, il godimento. La mascolinità, infatti, è «una questione di credo» (Zupančič 2018, p. 187) che si sostiene sulla repressione della castrazione, mentre la femminilità, per parte sua, è una questione di messa in scena: una questione di interpretazione della castrazione.

Né castrata né in-castrata, per Lacan una donna è una donna quando porta la castrazione come una maschera. Impossibile, quindi, sapere quanto e come una donna è donna, così come impossibile è fabbricarsi un sapere attorno al suo godimento. In quanto luogo-tenente del sapere che non esiste, esso si trova, dice Lacan, “tra centro e assenza”: centro, precisa, «è la funzione fallica di cui partecipa singolarmente […]; assenza è ciò che le permette di lasciare ciò che per cui non partecipa della funzione fallica nell’assenza che è comunque godimento» (Lacan 2020, p. 117).

“Dessenza”, omofono, in francese, di décence oltre che di dé-sence, può allora valere come uno dei suoi nomi, ché una donna, in fondo, è la decenza dell’uomo, allo stesso modo in cui la logica è la decenza del mito (ivi, p. 214) e l’Uno dell’Essere. Non, dunque, l’“almeno uno” per il quale «nulla lascia a desiderare» (ivi, p. 204) e che è di ostacolo al rapporto (è il Padre mitico di Totem e Tabù), ma il “non-tutto” che, della sua inesistenza, è un sintomo come un’eco, una scia o una coda. Non calcolarlo sarebbe fare peggio, ossia restare a bordo di quella barca su cui «il naufragio è assicurato» (ivi, p. 16): la semantica. Farlo, tosto ch’esso esiste in mancanza di meglio, è invece pagare, come il «debile» (ivi, p. 127) Platone ha fatto, il prezzo della piccola, o minima, differenza, credendo al suo reale senza aderirvi.

Questo, d’altronde, già faceva Freud quando «si lasciava ingannare dal reale anche se non ci credeva» (Lacan 1973). Ma questo fa, altresì, ogni orchidea-analista quando si deterritorializza formando un’immagine, un calco o «un modello» (Lacan 2020, p. 148) della vespa-analizzante affinché questa, poi, vi si riterritorializzi.  La vespa e l’orchidea – scrivono Deleuze e Guattari in Mille piani – «fanno rizoma in quanto sono eterogenee» (Deleuze, Guattari 2017, p. 46), vale a dire in quanto evolvono aparallelamente nello stesso luogo come «due esseri che non hanno niente a che vedere l’uno con l’altro» (Chauvin 1969, p. 205) e che, ciò nondimeno, lasciano sempre l’Altro a desiderare l’Uno.

Riferimenti bibliografici
R. Chauvin, Entretiens sur la sexualité, Plon, Parigi 1969.
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, vol. II, Orthotes, Napoli-Salerno 2017.
J. Lacan, Il Seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973, Einaudi, Torino 2011.
Id., Le Séminaire. Livre XXI, Les non-dupes errent. 1973-74. Inedito.
Id., Il Seminario. Libro XIX. …. o peggio. 1971-1972, Einaudi, Torino 2020.
G. Le Gaufey, Le Pastout de Lacan: consistence logique, conséquences cliniques, Epel, Parigi 2006.
A. Zupančič, Che cos’è il Sesso?, Ponte alle Grazie, Milano 2018.

J. Lacan, Il Seminario. Libro XIX. ….o peggio. 1971-1972, a cura di A. Di Ciaccia, tr. it. di A. Di Ciaccia, L. Longato, Einaudi, Torino 2020.

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