Come molti degli articoli che prendono in esame una serie tv, anche questo ha l’obbligo di cominciare mettendo in guardia il suo lettore: il testo contiene spoiler. La paura dello spoiler esibisce in modo esemplare il carattere popolare di questo nuovo formato della narrazione audiovisiva, che si presenta come un racconto per immagini che ha nella scrittura e nello sviluppo del suo intreccio narrativo ciò che tiene insieme la sua intera (e spesso complessa) struttura, a tal punto che l’anticipazione di parti della trama può condizionare la stessa esperienza estetica del racconto.

Non fa eccezione a questa regola Social Addiction, il primo racconto seriale pensato non per la tv (o per lo schermo di un computer), ma per un altro dispositivo della visione, lo schermo dello smartphone. Prodotta da Fabrica e realizzata da due giovani sceneggiatori Giovanni Galassi e Tommaso Matano, la serie è ambientata interamente sugli schermi degli smartphone dei tre personaggi, Gloria, Gianni e Michele. Attraverso le interazioni social che avvengono tra di loro – quindi tramite lo scambio e la condivisione di messaggi, testi, immagini e link trovati in rete  –  lo spettatore (per il momento lo chiamiamo ancora così) è portato ad inferire all’inizio, in maniera anche piuttosto didascalica, che i tre personaggi siano coinvolti in un triangolo amoroso, per poi scoprire, alla fine, che si tratta, in realtà, di una genuina dinamica familiare (Michele è il figlio di Gloria e Gianni). L’espediente dell’equivoco si gioca tutto sull’idea che questa nuova tecnologia di comunicazione, abilitata dai media e dai dispositivi digitali contemporanei e basata sulla complementarità di testo e immagine, sia diventata ormai l’ambiente principale in cui si istituiscono e si sviluppano le relazioni, anche quelle più intime e familiari.

Nel caso di Social Addiction, tuttavia, lo spoiler funziona al contrario, ovvero non pregiudica il piacere della “visione”, bensì aiuta a cogliere più efficacemente il tema in gioco nel racconto:  la social addiction non viene esibita solo sul piano della rappresentazione –  e quindi della trama e dell’intreccio – ma ad un livello fisico, corporeo, aptico.  Quello che infatti alla prima visione, quando siamo ancora intenti a scoprire la dinamica che lega i tre personaggi,  sembra essere un effetto indesiderato della specifica forma di mediazione, cioè lo schermo touch, una volta che l’intreccio è svelato, si rivela essere la vera scoperta da compiere insieme al racconto.

Infatti, come chiaramente specificato nelle istruzioni alla fruizione che accompagnano la serie, i cinque video/episodi (ognuno lungo non più di tre minuti) devono essere visualizzati dallo smartphone attivando la modalità a schermo intero. In questo modo la scena dell’azione viene a coincidere completamente con lo schermo dello spettatore. Fin qui nulla di strano; del resto chi è abituato a guardare le serie tv dallo schermo di un computer attiva la stessa modalità. Ciò che cambia però – rendendo il progetto imparentato, ma molto diverso da alcuni esperimenti simili, come il film Unfriended – è che l’utente (non più spettatore!) è naturalmente (ovvero tecnicamente) portato ad interagire con quello specifico dispositivo tecnico. Del resto è esattamente la possibilità di tale interazione tattile e aptica a definire la specificità dello schermo dello smartphone, rispetto a qualsiasi altro schermo tradizionale e Social Addiction tematizza proprio questa configurazione. Lo spettatore, infatti, viene continuamente sollecitato ad interagire con la scena/interfaccia ed è stimolato, proprio dall’interazione mediata dei protagonisti, a compiere egli stesso delle azioni: spostare il cursore, scrollare la pagina, rispondere al telefono (quando Michele chiama Gloria), verificare che il proprio cellulare sia ancora acceso, quando il primo episodio si conclude perché la scena letteralmente si spegne a causa della batteria scarica di uno degli smartphone dei protagonisti.

La serie, dunque, genera nello spettatore/utente una confusione tra il piano del reale (dove per reale si deve intendere il piano della mediazione del quotidiano attraverso i dispositivi e i software digitali) e il piano del racconto. Questa confusione,  proprio nel suo carattere che potremmo definire ingenuo, sembra richiamare alla memoria il noto aneddoto, veritiero o meno che sia, degli spettatori che scappano dalla sala cinematografica alla prima proiezione del film del fratelli  Lumière, per paura di essere investiti dal treno proiettato sullo schermo. Secondo Tom Gunning in quel cinema delle origini, che lui definisce il cinema delle attrazioni, la narrazione costituisce un mero pretesto per potere esibire lo statuto di visibilità dell’immagine in movimento, un’occasione per mostrare “le possibilità magiche del cinema”. Credo che qualcosa di molto simile si possa dire per Social Addiction che, nelle attuali condizioni dell’esperienza percettiva, certamente molto diverse da quelle di inizio secolo scorso, esibisce, mostra, fa sentire il potenziale partecipativo e interattivo del primo racconto seriale per mobile – che è forse il potenziale del racconto seriale tout court.

L’immersività della narrazione di Social Addiction è direttamente proporzionale alla sollecitazione all’interazione che essa dispiega. La storia di Michele, Gloria e Gianni non avviene altrove, in quella dimensione spazio-temporale altra che tradizionalmente istituisce il cinema classico, ma avviene lì dove, oggi più che mai, accade il mondo per noi, cioè nella mediazione e nel suo dispositivo per eccellenza, lo smartphone. Social Addiction e l’esperienza estetica che con esso facciamo (dove mai come in questo caso in tale parola deve risuonare la sua etimologia greca, aisthesis, sensibilità) espongono quella che, con le parole di Mauro Carbone, possiamo chiamare la “perturbante promessa” (p. 129) degli schermi contemporanei, ovvero la promessa della continua ed inesauribile reversibilità tra il vedente e visibile, che si traduce oggi nel vivere, non attraverso gli schermi, ma negli schermi. E se è vero, proprio come sostiene Carbone, che lo schermo, piuttosto che la finestra, è il dispositivo ottico di riferimento dell’epoca che stiamo vivendo e che esso diventa il terreno dove si misurano non solo le trasformazioni nel nostro rapporto con le immagini, ma più in generale delle nostre facoltà percettive, affettive e cognitive, allora possiamo dire che il piano della visione oggi coincide sempre più con quello dell’interazione aptica e della reversibilità della mediazione, tra ciò che media e ciò che è mediato. Ed è proprio in tale reversibilità e nel nostro coinvolgimento corporeo che bisogna rintracciare l’origine e la natura della nostra comune e condivisa social addiction.

Riferimenti bibliografici
M. Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Cortina, Milano 2016.
T. Gunning, The Cinema of Attraction[s]: Early Film, Its Spectator and the Avant-Garde, in The Cinema of Attractions Reloaded, Amsterdam University Press, Amsterdam 2006.