Per il regista Harry Kümel l’operazione di restauro del suo cinema riguarda principalmente il colore; supervisionarne il grading nel passaggio dal negativo originale alla digitalizzazione in 4K, corrisponde ad una funzione conoscitiva (Brandi, 1977) che riflette un’evidenza nel lavoro di restauro. Lo scopo primario infatti non è solo ristabilire la funzionalità riproduttiva di un film, ma condurre a quel «singolare riconoscimento che avviene nella coscienza» del singolo individuo (ivi, p. 4). Esso può sopraggiunge solo d’innanzi all’opera d’arte in quanto prodotto della spiritualità umana, distaccandola dal semplice prodotto industriale, che pure è soggetto al restauro.
La dimensione da festival de Il Cinema Ritrovato, con la Cineteca di Bologna, ha la capacità (rispetto ad altri spazi) di rendere esplicito quel sottile legame tra restauro e film, garantendo una riscoperta che ha una duplice condizione. «Come prodotto dell’attività umana l’opera d’arte pone infatti una duplice istanza: l’istanza estetica che corrisponde al fatto basilare dell’artisticità per cui l’opera è opera d’arte; l’istanza storica che le compete come prodotto umano attuato in un certo tempo e luogo e che in un certo tempo e luogo si trova» (ivi, p. 6).
Approcciarsi al programma della 38esima edizione, come per i precedenti, significa però accorgersi di un’altra istanza legata alla visione collettiva delle opere restaurate: dare spazio ad un dialogo continuo tra retrospettive e film, ricongiungendoli in un presente che rivive sugli schermi delle sale bolognesi. Per questo guardare al festival il cinema di Harry Kümel permette di mettere a fuoco un’ulteriore autorialità o, se vogliamo, artisticità: quella dell’attrice Delphine Seyrig.
Se la filmografia di Kümel risente del suo approccio a un visuale bizzarro, tutto nella recitazione di Seyrig è invece lavoro di costruzione (Cauqui 2024, p. 87), soprattutto se si pensa ad uno dei suoi personaggi più celebri: la magnetica Madame Tabard in Baci Rubati di Truffaut (1968). Nel film il protagonista interpretato da Jean-Pierre Léaud non solo invoca la sua immagine di fronte ad uno specchio, ma si riferisce a lei come un’apparizione più che una donna, gettandole addosso il mito dell’eterno femminino (Tissot, 2024). Ed è proprio dal mito (più correttamente dal folklore) che si origina il suo personaggio nel film di Kümel La vestale di Satana (1971).
Sensuale, malinconica, glaciale, la recitazione di Seyrig nasce dal colore rosso inserito come motivo estetico e ritmico per scandire il tempo narrativo, usato cromaticamente da Kümel per ammaliare i suoi personaggi. Delphine dona corpo e voce alla storica e sanguinaria contessa Elisabeth Báthory, la cui leggenda richiama il mito del sangue come linfa vitale (Groom, 2018), per questo unito alla prolifera figura del vampiro. Nonostante ciò, per il regista il tema del vampirismo non è che uno status di potere politico e sociale che consente di indagare, nell’ottica di un film con richiami erotici, il rapporto tra maschile e femminile.
La sessualizzazione della figura del non morto è infatti un processo recente che inizia a partire dal XX secolo (ivi, p. 253), legandosi perlopiù al culto della donna-vampiro per renderla portatrice di una fascinazione inesauribile. Allo stesso modo ne evidenzia un aspetto relativo alla sua mostruosità, usato perlopiù come elemento proibito e di ostilità: quello del lesbismo (Armantieur 2024). Nella rappresentazione di Kümel però vi si rintraccia un superamento dello stesso, inteso non più come tabù sociale da dover essere allontanato, quanto come elemento erotico che si stabilisce nel rapporto tra creatura/carnefice e vittima umana.
Il contraltare della vampira Seyrig è infatti l’elemento maschile incarnato dalla figura di Stefan, il novello sposo che nel dare sfogo alla sua potenza sessuale finirà per rendere evidente una pulsione di morte distruttiva, ben peggiore della sete vampiresca. Egli proverà quindi attrazione verso tutto ciò che è scomodo: i corpi morti di giovani donne, i racconti scabrosi della contessa, il tradimento verso la giovane moglie Valérie. Mettere in scena una commistione tra maschile e femminile, passato e presente, carnefice e vittima, suggerisce uno schema di reciprocità nei rapporti tra i personaggi, il cui culmine è da ricercare in una versione del doppio interiorizzato (Sacchini 2016). Come se la mostruosità fosse sintomo di alterità rispetto all’identità sociale dei protagonisti, anche se entrambe sono unite nello stesso corpo.
Ne consegue che la rappresentazione della contessa Bathory forgiata ad immagine vampiresca, il cui titolo sociale richiama ad un antico baluardo nobiliare, diventa un simbolo di potere strategico quanto decadente, che ha bisogno di intermediari per poter sopravvivere in un presente infinito che non le appartiene più. Il vampirismo secondo Harry Kümel dunque non può che essere performato, rappresentato come icona glamour e di consumo, spogliato di ogni cliché appartenente alla letteratura gotica. Il castello, le bare, i paletti di legno, sono accantonati in favore delle suite in stile neoclassico dell’Hôtel des Thermes in cui si ambienta la storia, con vista sul lungomare di Ostenda rendendo la villeggiatura prerogativa delle creature orrorifiche.
Verrebbe da chiedersi, approcciandosi alla retrospettiva del festival su Delphine Seyrig, che fine fa il suo corpo, la sua costruzione femminile, la sua attenta militanza nella scelta dei ruoli da ricoprire, soprattutto da metà anni ‘70. Ma ancora questi, uniti alla visione di Harry Kümel, conducono ad ulteriori domande: che ne è dei suoi abiti scintillanti sotto la luce artificiale delle lampade, delle sue unghie smaltate o delle labbra carnose ricoperte da rossetto rosso? Che cosa resta della sua voce ammaliante, delle parole sussurrate come in un incantesimo nel buio della notte?
La risposta, sfuggente, potrebbe essere ricercata proprio nelle immagini dei suoi film che conservano il passaggio del suo corpo, «come uno spettro o un vampiro impresso su pellicola» (Armantier 2024, p. 91): si necessita del buio di una sala per farla rivivere, non come apparizione ma come donna.
Riferimenti bibliografici
C. Brandi, Teoria del restauro, Einaudi, Torino 1977.
È. Cauquy, F. Tissot, J. Armantier, in Il Cinema Ritrovato XXXVIII edizione, Cineteca di Bologna, Bologna 2024.
N. Groom, Vampiri. Una nuova storia, Il Saggiatore, Milano 2019.
S. Sacchini, La ragione lo nega: ma la fede c’induce a crederlo, in Carmilla La vampira e la detective dell’occulto di J.S. Le Fanu, Feltrinelli, Milano 2021.
La vestale di Satana. Regia: Harry Kümel; sceneggiatura: Pierre Drouot, Harry Kümel; fotografia: Eduard van der Enden; interpreti: Delphine Seyrig, John Karlen, Daniele Ouimet, Andrea Rau, Paul Esser; produzione: Showking Films; distribuzione: Indipendenti Regionali; origine: Olanda, Inghilterra; durata: 100’; anno: 1971.