Andava in onda quest’inverno, in seconda serata su Rai 3, la trasmissione televisiva Lessico Amoroso, ideata e condotta dal noto psicoanalista milanese Massimo Recalcati. Il programma otteneva un significativo successo in termini di ascolti e consenso di pubblico e critica, ma riceveva anche una serie di “stoccate” da parte della comunità psicoanalitica, la più rappresentativa (e pesante) delle quali è probabilmente quella espressa dallo psicoanalista napoletano Sarantis Thanopulos. Quest’ultimo ha infatti intravisto nel tentativo di Recalcati di portare in TV una lettura lacaniana del tema amoroso una sorta di “variante populista” della lezione teorica di Lacan. Sembra quasi di assistere alla prosecuzione delle critiche avanzate due anni fa a Recalcati da Jacques-Alain Miller, curatore testamentario di Jacques Lacan, a proposito dell’impegno politico recalcatiano a sostegno del PD (all’epoca a guida renziana).

Pur riconoscendo la problematicità di un’operazione che intenda coniugare psicoanalisi e televisione, cosa invero ben più difficile che, ad esempio, portare l’inconscio al cinema, trovo fortemente ingiuste le accuse personalistiche rivolte all’ideatore di Lessico Amoroso. Non vedo affatto in Recalcati l’intenzione di operare una sorta di proselitismo lacaniano o l’aspirazione narcisistica a far innamorare di sé gli spettatori del late-night show. A mio avviso, vi è piuttosto in Lessico Amoroso l’ammissione di un non-sapere condiviso tra il conduttore e il pubblico: la verità è che siamo tutti “studenti impreparati” di fronte alla chiamata dell’evento amoroso. Mantieni il bacio (Recalcati 2019), uscito da poco per Feltrinelli, è di Lessico Amoroso il “canovaccio” inedito, strutturato in una serie di brevi lezioni sulla vita amorosa.

In estrema sintesi, l’amore conserva per Recalcati «il carattere straniero e inappropriabile della lingua [intesa] come lingua dell’Altro» (ivi, p. 17). Questo suo radicarsi nell’alterità lo espone inevitabilmente allo spaesamento ma lo libera dalla prigione dell’io. Recalcati rimarca efficacemente lo smarcamento di una simile idea dell’amore rispetto alla pregiudiziale freudiana: laddove Freud ravvisa nella vita amorosa un inganno segnato dall’egoismo, l’apertura lacaniana libera il sentimento amoroso dalle catene dell’identità. Non si tratterebbe infatti di cercare nell’altro solo un Io ideale, un rispecchiamento narcisistico di se stessi, né di rimanere confinati in una ripetizione del passato che ricerchi nell’amato l’ombra del primo oggetto di attaccamento, secondo una logica esclusivamente edipica. Piuttosto, il miracolo dell’incontro amoroso (ivi, p. 25) svincolerebbe l’io da se stesso, sostituendo la sorpresa al meccanismo della ripetizione, il desiderio dell’Altro al godimento autotrofo. Da avvitamento regressivo l’amore si riconfigura in questo modo come moltiplicatore di possibilità: «Qualcosa di non previsto, non programmato, non atteso accade interrompendo la sequenza del già noto, del già stato, del già visto, del già conosciuto» (ibidem).

L’amore è così una sorta di “festa mobile”, nel senso festivo di ogni incontro amoroso già ravvisato da Roland Barthes (2001) e in quello di movimento imprevedibile e casuale della dinamica di coppia, esemplificato mirabilmente dalla scena dello scambio di sguardi attraverso le acque trasparenti di un acquario tra i due protagonisti di Romeo + Giulietta di William Shakespeare (Luhrmann, 1996). Incontro di sguardi, dunque, incontro di corpi, ma anche e soprattutto incontro mancato o incontro con una mancanza. Perché per quanto due corpi possano unirsi, come insegna Lacan, non faranno mai Uno: l’ut unum sint è perennemente destinato allo scacco, ma questo è, paradossalmente, una benedizione. Anzi, la mancanza è ciò che permette all’amore di continuare a bruciare e al desiderio di durare. L’impossibilità di ridurre a identità l’alterità, di fare una cosa solo con il corpo dell’Altro, anche nell’impeto della passione più travolgente, ci consegna al suo mistero, lascia intatto il suo enigma e ci fa languire indefinitamente per il desiderio. Più ci si avvicina all’appagamento, nell’unione degli sguardi, delle lingue, dei corpi, più si scopre che l’oggetto = x del desiderio non cederà il segreto della sua differenza, lasciando aperto il debito e spalancata la mancanza.

Amare è quindi andare a sbattere contro un muro, «è sempre l’incontro con un amur, con qualcosa che resiste nella sua alterità, come un muro, un “amuro” appunto, qualcosa che non si può possedere, né valicare, né assimilare» (ivi, p. 29). Il fatto di non poter “avere” l’Altro, di non poterlo “fare mio”, è ciò che mi permette di incontrarlo, di stare con lei o con lui. Non si tratta di identificarmi narcisisticamente con l’amato, di farlo diventare più simile a me, di ridurlo a me, alle mie logiche, al mio desiderio, ma di farmi spiazzare dal desiderio dell’Altro, di accettare la sua differenza inemendabile, la sua alterità irriducibile. L’amore dell’Altro irriducibile all’Uno mi spinge infatti a situarmi sulla sponda del fiume che ci separa senza poterlo attraversare, a gettare costantemente lo sguardo al di là.

Consegnato a questa tensione desiderante, che abbraccia l’amato come fosse un orizzonte, senza poterlo mai ricomprendere pienamente, l’amante si trova ad agognare non una parte del corpo dell’altro, ma il suo tutto. Al feticismo del dettaglio subentra la pienezza del Nome (ibidem), quel nome che invoco e a cui dichiaro il mio amore, senza saper dire di cosa sia esattamente, perché quel desiderio mi trascende. Tuttavia, se è vero che il tratto trascendente del desiderio amoroso lo caratterizza come inassimilabile e imprevedibile, legandolo all’insondabilità del caso, è altrettanto vero che, secondo la lezione di Alan Badiou, la casualità assoluta dell’incontro amoroso, per poter contare come un Evento, deve assumere le vesti del destino (Badiou 2013).

L’amore – che come la salvezza o il regno dei cieli giungerà inatteso, perché “non sapete né il giorno né l’ora”, come recita il Vangelo di Matteo – ci introduce nella dimensione dell’attesa, dell’estote parati. Se è vero che, come nota Barthes, l’innamorato è sempre in attesa, addirittura è colui al quale è stato intimato di aspettare (Barthes 2001, p. 41), l’incontro d’amore è ciò che, in verità, è impossibile da attendere. Allora, l’incantesimo, il gioco, è trasformare questa cosa in cui ci imbattiamo per caso in ciò che stavamo da sempre aspettando, facendo finta che il caso fosse destino. Ma sappiamo da Winnicott e da Bion della serietà del gioco, e di come ogni far finta vada preso sul serio, più che mai nel caso dell’amore. Così l’incantesimo d’amore mi paralizza nell’attesa come fossi legato a una ragnatela, nell’attesa di una telefonata, di un messaggio, di una parola: ciò cui fa segno l’amore è l’attesa del segno dell’Altro. L’amato che mi fa segno è l’indizio del fatto che l’Altro mi ha finalmente scelto, che ha trasformato la casualità della mia vita in un destino.

“Era già scritto da qualche parte”, così piace dire agli amanti, ma non nel senso platonico della ricerca dell’altra metà della mela, come nel mito dell’androgino. Al contrario, non era scritto da nessuna parte, ma si fa finta che ciò che scriviamo adesso sia destinato ad essere riscritto, ancora e ancora. Più che al trapassato prossimo, l’amore si scrive al futuro anteriore: tenendo fede alla promessa, infatti, avremo fatto in modo che un semplice caso sia valso come destino, che la contingenza si sia tradotta in necessità, che l’istante si sia moltiplicato nella durata. Non c’è astrologia o fede nuziale che possa garantire il per sempre: c’è solo il tentativo, sempre esposto ai venti e alle maree, di far valere un momento per l’eternità.

La legge del desiderio è più forte di quella del vincolo. Proprio per questo una promessa d’amore non è vincolante, ma emancipatoria: se da un alto è più esposta al rischio della perdita, dall’altro mette a rischio la vita per far vivere il desiderio. Ciò si vede bene nell’episodio di Ulisse, che rinuncia all’immortalità offertagli dalla dea Calipso per la nostalgia d’amore verso Penelope. Rinunciare persino alla vita per tener vivo l’amore è il prezzo da pagare per essere fedeli all’evento. Se “chi ama la propria vita la perderà”, chi arriva a trascurare i possessi perenni e le certezze granitiche mettendo in gioco tutto se stesso in una storia d’amore, vivrà in eterno. O, almeno, destinerà l’amore all’eternità.

Che poi una storia d’amore possa consumarsi invece di durare nel tempo non rende vana la verità di quella promessa, non la spoglia di senso: non c’è più merito nel durare che nel consumarsi, questo Recalcati lo sa bene, ed è ben lontano dal proporre una visione conservatrice o moralistica dei sentimenti. Il significato del “per sempre” e dell’“ancora” non vanno giudicati col metro della longevità di un rapporto, ma con quello della forza vitale del desiderio che accendono. Se un sentimento ti fa desiderare di dire “per sempre” o “ancora”, al di là della sua durata cronologica, sa di eternità (ivi, p. 35).

Questa apertura al desiderio, all’“ancora”, non è dato però senza pagare un prezzo: con le parole di Philip Roth ne L’animale morente, contrariamente a quanto afferma il mito sempreverde dell’altra metà della mela, è l’amore a separarci da noi stessi: «E l’amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due» (Roth 2002, p. 74). Il sentimento amoroso apre in noi la mancanza, ci fa sentire insufficienti, divisi, scopre il Due al cuore dell’Uno. In realtà, nessun incontro sarebbe possibile senza l’amore. Se rimanessimo nella logica del godimento, i Due non si incrocerebbero mai, per quanti rapporti sessuali possano avere. Ciò che rende possibile l’incontro è solo l’amore (Recalcati 2019, p. 47), lasciando che i Due restino Due, e che anzi l’Uno stesso si scopra incompleto. Ed in questo senso l’incontro amoroso è capace di aggirare l’impossibilità del rapporto sessuale, facendo da cerniera tra desiderio e godimento.

È così che la mancanza disvelata dall’amore, come nell’arte giapponese del kintsugi, che dipinge d’oro le crepe degli oggetti danneggiati, fa della ferita del cuore una poesia (ivi, p. 76). “Amare è dare ciò che non si ha”, è regalare l’oro dei propri difetti. È questa, forse, la lezione delle lezioni di Mantieni il bacio.

Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Elogio dell’amore, Neri Pozza, Vicenza 2013.
R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 2001.
M. Recalcati, Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull’amore, Feltrinelli, Milano 2019.
P. Roth, L’animale morente, Einaudi, Torino 2002.

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