Poiché gli uomini che si dovrebbe amare sono gli stessi che non riescono ad amare e quindi, per parte loro,
non sono affatto amabili.
Theodor W. Adorno

“Mio padre si affeziona. Perché, è un reato?” si domanda Giovanna Mezzogiorno nell’ultimo film di Gianni Amelio, La tenerezza, il cui tema, che ha il raro coraggio – almeno nel cinema italiano – di farsi anche titolo, sembra ancora più delicato di quell’invito alla gentilezza, oggi oggetto di culto, lanciato qualche anno fa da George Saunders agli studenti di Syracuse. La tenerezza è infatti in grado di scatenare una sorta di pudore inconscio nel momento stesso in cui viene nominata, perché la tenerezza non è, come la gentilezza, un fatto di costume, ma è un sentimento, è una tonalità del sentire. Si può imparare ad essere gentili, si può praticare la gentilezza come cura dell’egoismo, ma si può soltanto essere teneri o, meglio, tornare alla tenerezza da cui tutti veniamo perché “è da lì che veniamo e lì siamo chiamati a dirigerci e a sostare”, come scrive Isabella Guanzini in una tra le più accurate riflessioni contemporanee sul tema.

Il rischio, parlando di tenerezza, è di cadere in quella sentimentalità che “rende osceno l’amore” (R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, 1979, p. 148); di scivolare nel patetico considerando una risorsa pubblica quello che può essere solo un atteggiamento privato; di cadere in una retorica oggi non più sopportabile perché nel clima incerto e minaccioso della condizione attuale, l’invocazione alla tenerezza viene subito considerata come un’imperdonabile ingenuità, una grave debolezza di spirito. Occorrerebbe allora parlare della tenerezza quasi senza nominarla, oppure, occorre affidarsi alle immagini.

Nel film di Amelio la tenerezza è nel passo stanco di un uomo vecchio, Lorenzo (Renato Carpentieri) che, dimesso dall’ospedale, sale affannato le scale del suo palazzo, e negli occhi di una giovane donna, Michela (Micaela Ramazzotti), che su quelle scale aspetta ancora una volta il marito perché ha dimenticato ancora le chiavi di casa. La tenerezza è poi, anche, nello sguardo vuoto del marito di lei, Fabio (Elio Germano), che prima ha uno scatto d’ira con un venditore ambulante, poi uccide moglie e bambini.

Perché la tenerezza è, prima, nella fragilità, quando non si converte in quella disposizione alla violenza che riguarda tutti perché tocca le corde intime di una pressione collettiva a essere forti e non chiedere mai, ma che appare evidente soprattutto tra gli uomini, nei loro meccanismi di difesa e di aggressività, sintomo di una incapacità di sopportare la stanchezza del nervosismo metropolitano (la ben costruita scena nella galleria Umberto I), riconoscendo alla donna una “pazienza” che è sopportazione e talento di vivere. La forza, senza forma (la difficoltà di elaborare il trauma), precipita in violenza, rendendo le insicurezze di un bambino magrissimo e balbuziente fragilità di un padre infantile che gioca con l’elicottero telecomandato del figlio; trasformando le verità intollerabili dei bambini (Fabio che da piccolo confessa ai genitori di aver buttato l’amico dal burrone) nelle bugie dei grandi che generano intolleranza (“non c’entro niente con il ragazzo del burrone” ritratta Fabio da grande, come il “sono innocente” dell’immigrato che mente).

Perché, al fondo, la tenerezza si insinua nel vuoto che scava il potere quando non ha più la forza di generare passioni tristi: la tenerezza è perciò nel sorriso di un vecchio e nel riso di un bambino. Così il nonno al nipote ne La tentazione di essere felici a cui il film di Amelio è liberamente ispirato: “in fondo siamo uguali noi due, senza alcuna responsabilità e nulla d’importante da fare se non giocare” (p. 20), ma “in un vecchio di ottant’anni e in un neonato, se guardi con attenzione, riesci a scorgere le stesse paure” (p. 52) perché ciò che i vecchi condividono con i bambini è, come la mancanza di potere, l’egoismo. Quello dei due figli piccoli di Fabio e Michela che non vogliono giocare con un “vecchio, con le rughe e la barba”, come quello dei due figli adulti di Lorenzo che non sono “neanche pronti a diventate orfani” e quello del nipote, Francesco, che “come Sansone” ha pure “i capelli sensibili” e ha già pronta a scuola la poesia per quando nonno muore.

Come gli altri film di Amelio, e come anche quel racconto fenomenologico di un bambino mancato che diventa un adulto sbagliato (la storia di Luigino nel romanzo del regista Politeama), anche La tenerezza è un film in cui il racconto di formazione passa attraverso i bambini che guardano e gli uomini che diventano padri: Lorenzo che smette di amare i propri figli quando sono cresciuti, perché essere padri di figli adulti comporta le stesse paure ma diverse, ovvero – sempre – la paura di non riuscire ad amare che diventa paura di non essere amati: “nella vita tutto quello che facciamo è una scusa per farci volere bene” dice Fabio che è un altro modo per dire, con Adorno, che “ognuno oggi, senza eccezioni, si sente poco amato, perché riesce ad amare troppo poco” (p. 124). E allora Lorenzo può tornare ad amare e a ricucire il rapporto con la figlia solo grazie all’incontro imprevedibile con Michela, che è come una carezza, un vento fresco che invade ma non opprime, una gioia contagiosa in grado di avvicinare dove la tristezza (della figlia Elena) divide.

È per questo che la tenerezza appare del tutto inadeguata allo spirito del tempo, un’imperdonabile debolezza, come una postura sbagliata del corpo. Perché nella fragile società che abitiamo, separati e insensibili alla nostra reciproca vulnerabilità, a distanza di sicurezza gli uni dagli altri, il dovere di essere tolleranti verso l’altro, che è diventato diritto di non essere molestati, porta a evitare la prossimità dell’altro per non invaderne lo spazio perché “l’Altro va bene nella misura in cui la sua presenza non è intrusiva, nella misura in cui l’Altro non è veramente Altro” (S. Zizek, Distanza di sicurezza. Cronache dal mondo rimosso, 2005, p. 82). Una via di umanizzazione del tempo presente è allora data dalla tenerezza come disposizione umana fondamentale per riallacciare i rapporti col mondo; la tenerezza diviene cioè il centro di una piccola o forse grande rivoluzione, il tema che ha rimodellato anche il corrente paesaggio simbolico del discorso cristiano e a cui anche Amelio, presentando il film, ha fatto riferimento: la rivoluzione della tenerezza è una nuova tonalità del sentire, il ritorno a una partecipazione stupita al gioco del mondo a partire da processi di riconoscimento e di prossimità, è una possibilità di “superare il sospetto, la sfiducia permanente, la paura di essere invasi, gli atteggiamenti difensivi che il mondo attuale ci impone” (E.G., 88), creando un modo di stare al mondo che è come un modo di pregare, possibile per tutti.

La tenerezza è, dunque, anche un film sulla verità e le bugie, quelle sepolte dalle famiglie come nelle aule dei tribunali. È un film, al fondo, sull’autenticità. Che un’arringa non può dimostrare, che non può essere tradotta – “si dovrebbe tradurre il tono della voce, il fiato, gli occhi” –, perché l’autenticità è nella fenomenologia degli sguardi, nei primi piani del film, nei gesti. Quello di Elio Germano che imboccando Micaela Ramazzotti si apre all’attesa di un gesto a venire, quello di un vecchio impotente che raccoglie le sciarpe di un gesto compiuto. Quello di un padre che, innocente e colpevole come l’immigrato iniziale, si ritrova dietro il vetro, “per la prima volta”, insieme alla figlia. E quell’ultimo. Nella mano di Lorenzo che si posa su quella di Elena, quel gesto da cinema italiano che in Ladri di biciclette (1948) di De Sica significava il ritorno del figlio al padre dopo il riconoscimento del padre con la sua colpa e, con questa, della sua vergogna di essere uomo. Qui è nel ritorno del padre alla figlia con un gesto, di tenerezza, l’unico in grado di combattere la paura di non saper amare e assecondare la tentazione di essere felici. Perché “la felicità non è una meta da raggiungere ma una casa a cui tornare. E non è davanti, è dietro. Non andare. Tornare”.

Perché è anche, il film di Amelio, un film sul tempo, sull’altra parte del tempo (il coma), sulla perdita e la difficoltà di accettare la morte – “se è morto non me lo dite, non lo voglio sapere”, dice l’amante di Lorenzo, Rossana (Maria Nazionale). E su ciò che rimane – “ci sono solo io” vorrebbe dire Lorenzo a Michela che non può sentirlo ed “è pur sempre mio padre” dice Elena al fratello che non la ascolta. La tenerezza, in un film così intimo e implicito sulla difficoltà umana a vivere il tempo che resta, è il nome della percezione profonda dell’infinità precarietà e fragilità della vita, della sua mancanza estrema; la tenerezza è molto più di un vago sentimento di vicinanza e di empatia, è una sorta di percezione partecipante al dolore altrui, e la voglia, forte e rivoluzionaria, per nulla svenevole e rinunciataria, di prendersi cura della fragilità dell’altro, di tendere una mano, che è un modo, indelebile, di lasciare un’impronta. Al posto di una ferita. Come quella di Luigino massacrato di botte dall’“angelo Lillo”, quell’altro “pezzo di carne tenera che pareva tagliarsi con un coltello” (p. 67).

Un romanzo muto, Politeama, che racconta per immagini e un film melodrammatico che si apre ad una struttura di tipo romanzesco. C’è, ne La tenerezza di Amelio, un tempo della storia, l’intreccio ben costruito in spazi che sembrano poter contenere i personaggi (gli interni dell’ospedale, del tribunale, delle case di Lorenzo, di Michela, di Rossana ma anche gli esterni insidiosi e claustrofobici come il negozio di giocattoli, i vicoli e il cantiere navale), in una Napoli borghese e non per questo meno infeltrita, fotografata (da Luca Bigazzi) come un caleidoscopio di immagini, odori, rumori e colori, in cui personaggi si muovono poggiandosi alle proprie debolezze, Fabio ai muri che lo sovrastano, come Lorenzo alle automobili nel traffico. E c’è poi un tempo del racconto, che si apre ad un tempo altro, quello delle cose non dette eppure avvenute, un tempo esperienziale in cui il ritmo degli eventi è bruscamente interrotto dal respiro cadenzato dei sentimenti. È un tempo nuovo in cui quel prendersi per mano, in una piazza col vento, sembra poter aprire a un fuori, come un prendere aria (anche) della forma che in tal modo si riscatta, in un finale non necessario, dunque immotivato e imprevedibile, in cui l’audacia di una scommessa (il rapporto padre-figlia) assume, senza dirlo, la serietà di una promessa.

Tornare alla tenerezza. Con un unico gesto che ha la forza di un sentimento, in un film che ha la forza, e il coraggio, di raccontarlo.

Riferimenti bibliografici
G. Amelio, Politeama, Mondadori, Milano 2016.
I. Guanzini, Tenerezza. La rivoluzione del potere gentile, Ponte alle Grazie, Milano 2017.
L. Marone, La tentazione di essere felici, Longanesi, Milano 2015.
Arleta, Mia fora thymamai (1966).

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