La tana è l’universo

Chi vuol sapere com’è fatto il mondo secondo Kafka non ha che da leggere La tana. In quel breve racconto, una ventina di pagine, troverà, compendiata più che mai sistematicamente, dettagliatamente, coerentemente nell’apparente incoerenza, la sua esperienza dello spazio, la regola secondo la quale gli esseri si dispongono, la mappa segreta che in ogni tempo e a ogni latitudine detterebbe ogni rapporto tra ogni cosa e ogni cosa, insomma quella che con una parola antica dovremmo chiamare la cosmologia di Kafka. 

La tana che dà titolo al racconto non è la tana della creatura che ci parla in questo racconto, creatura che resta indeterminata per tutta la durata del racconto, umana o animale indifferentemente, viva o prossima alla vecchiaia e alla morte, o forse già morta e proprio perciò immortale e consegnata a un ciclo senza tempo. La tana è la forma dell’universo. Per questo è la tana di qualsiasi essere, è lo spazio in cui qualsiasi cosa trova collocazione, e chi prende parola in questo racconto è una qualsiasi creatura, chi racconta la sua vita in queste pagine racconta l’esperienza che ogni cosa, umana animale e forse vegetale o minerale è destinata ad attraversare. La tana è la forma di ogni singola cosa, è la geometria di tutte le cose insieme, e di tutte le singole cose in quanto ripetono nel loro piccolo o grande corpo la disposizione, l’insieme dei rapporti, il tessuto di tutte le altre cose e corpi. 

È dunque Dio che parla

La tana ha un ingresso, ci racconta il suo autore, il suo progettista, quello che si presenta a noi nelle prime righe del testo come l’ideatore, l’architetto, Dio, se appunto la tana è l’universo, è la forma di ogni cosa, è il fatto che ogni cosa replica nel suo frattale ogni altra cosa e ogni rapporto di quella cosa con ogni altra cosa. È Dio dunque che parla. È Dio che ci dice che l’ingresso della tana è un buco, un buco senza profondità, un passaggio che subito ci porta a contatto con un fondo di roccia compatta, che non conduce da nessuna parte.

Come potrebbe del resto condurre da qualche parte, quel buco? Solo l’immaginazione umana immagina che muoversi significhi andare da un punto all’altro dello spazio, e che lo spazio sia una regione piana, attraversata da percorsi lineari, da traiettorie articolate secondo il prima e il dopo, la causa e l’effetto, l’origine e la destinazione. Dal punto di vista di Dio, dal punto di vista dell’universo, è abbastanza ovvio che in fondo al buco non c’è che dell’altro universo, che all’interno del buco non c’è che dell’altro esterno, e che muoversi significhi oscillare, consegnarsi a questo andirivieni, muoversi ma per così dire assolutamente, come del resto si conviene a un essere divino. 

Dentro, nel punto più profondo, nell’intimo della tana, non c’è che altro spazio, altra superficie, altre aperture, altro fuori. Si va dallo stesso allo stesso, questa è la regola dell’universo kafkiano. Non c’è trascendenza, come certi filosofi direbbero, che è come dire dell’altro, dell’altrove, delle altre dimensioni, degli altri funzionamenti, degli altri luoghi separati da quei luoghi in qualche senso precedenti. E dunque non c’è neppure immanenza. In che senso, infatti, ci sarebbe un luogo identico a sé, se non per differenza da un luogo ulteriore, differente, separato da quel primo luogo? C’è semmai insistenza, c’è semmai imminenza. E infatti tutto il racconto è intriso di questa sensazione di incombenza, di incombenza di un’ulteriorità che tuttavia non ha altra consistenza che questa sua incombenza, e che non esiste se non perché viene costruita dalla sua stessa attesa

Non c’è trascendenza, non c’è immanenza, c’è piuttosto qualcosa come un breve o magari lungo giro, ma che riporta sempre allo stesso punto, e c’è questo strano fatto, che quello stesso punto è lo stesso punto proprio perché guadagnato con un giro più o meno lungo, proprio attraverso quel piccolo iato che separa il finto ingresso dal fondo chiuso. Iato piccolo e insieme incommensurabile, prossimo allo zero e insieme tendente all’infinito perché introduce appunto dal nulla la dimensione dell’ampiezza, la non coincidenza, l’andirivieni. Breve o lungo giro compiuto il quale possiamo e anzi dobbiamo sperimentare la stessità dello stesso, il ritrovamento di qualcosa che a quel punto vediamo per la prima volta, non essendoci mai mossi dai suoi immediati dintorni.

Un solo ingresso, cioè due

C’è un secondo ingresso alla tana, scrive Kafka. È lontano mille passi dal primo ingresso, quello falso, quello che subito conduce a un fondo compatto e impervio, a una roccia che sbarra il passo. Ma di nuovo non dobbiamo dimenticare che è dal punto di vista di Dio che ci viene detto questo, e allo stesso tempo che tutto questo ci viene detto: viene detto a noi, viene detto venendoci incontro, viene detto alla luce delle nostre attese e delle nostre categorie. Che siano due, gli ingressi, è vero per noi, è il modo in cui noi ci raccontiamo la cosa. Ma gli ingressi non sono propriamente due. L’ingresso è uno solo. Ora appare sbarrato, ora invece praticabile, a seconda che noi ci aspettiamo che l’ingresso porti altrove, oppure no.

Se ci aspettiamo che l’ingresso porti altrove, ecco che sbattiamo il muso contro la rivelazione del fatto che non c’è alcun mondo al di là del mondo, che non c’è alcuna trascendenza, ed ecco che il buco si mostra cieco, otturato, ingannevole. Se invece ci aspettiamo che l’ingresso non porti affatto altrove, perché crediamo che esista un solo mondo, perché crediamo che l’universo sia privo di qualsiasi al di là, ecco che sperimentiamo che le cose stanno in tutt’altra maniera.

Se è vero che si va sempre e soltanto dallo stesso allo stesso, proprio per questo, però, si realizza un effetto di profondità, proprio andando dallo stesso allo stesso si disegna quel giro di cui dicevamo. Tornando allo stesso punto, ne sperimentiamo la stessità per nessun’altro motivo che proprio noi siamo cambiati, che proprio noi siamo quel giro, che proprio noi siamo qualcos’altro. Ecco che la stessità stessa diventa altro, e l’immanenza partorisce il suo frutto più intimo, più sprofondato nel buio delle sue pieghe, la trascendenza, il rovesciarsi del dentro nel fuori dell’esteriorità più vasta e abbacinante. 

L’ascolto come costruzione del brusio

L’animale arroccato nella tana che ha appena costruito è al sicuro e insieme è esposto al massimo pericolo, e il suo racconto è fatto allo stesso tempo di dolcezza e terrore. È al sicuro, perché non esiste alcun fuori. Nulla può venire a turbare quell’interno perfettamente interiore. Il silenzio, nella tana, è assoluto, come l’animale sperimenta e riafferma più volte. Ed è esposto al massimo pericolo. Perché se la tana è l’universo, se l’animale-architetto è Dio, se la tana coincide con l’universo e Dio stesso coincide con la tana-universo, allora ogni ascolto deve incontrare, quando si mette in ascolto, l’ascolto stesso. L’orecchio che si protende deve pur incontrare qualcosa, che è lui stesso, ma che non può non sentire come altro, come una cosa udibile per quanto silenziosa e ascoltatrice, come l’incipienza di un suono anziché come un suono vero e proprio, come il fondo inaudibile che è l’insorgenza stessa di ogni rumore.

E così il sospetto, che è un assoluto o che è l’assoluto, che è tutto ciò che c’è, che non ha nient’altro intorno a sé, incontra, dato che non può farne a meno, dato che il suo stesso escludere ogni cosa non può non incontrare se non altro quel suo gesto di esclusione, incontra, dicevamo, se stesso come sospettabile, se stesso come sospettato, se stesso come indubitabile indizio di minaccia, se stesso come nemico acclarato. 

È per questo che nel racconto di Kafka, per quante volte l’animale-Dio constata il silenzio, per altrettante volte avverte il brusio impercettibile del nemico o dei nemici, delle bestiole, come le chiama il Dio-narrante. Bestiole che scavano, che abitano la terra in cui la tana è scavata, che percorrono quell’oscuro spessore fabbricando gallerie, che insomma fanno esattamente le stesse cose che fa l’architetto assoluto, il grande progettista della tana. Anche loro, a ben vedere, sono aspetti del grande progettista, figure della voce che narra, articolazioni del soggetto del racconto, soggetto che qui dobbiamo intendere non tanto come qualcuno, ma come ciò che sta letteralmente e semplicemente sotto, come ciò che è in senso generalissimo sottostante. Mondo, vastità della terra, universo.

Universo che tuttavia non è mai tutto intero, non è mai tutto immanente a se stesso, non è mai un blocco unitario, ma appunto si muove, è increspato da eventi e sommovimenti, e muovendosi si addensa, e addensandosi precipita, prende corpo come precipitato, come intensificazione locale, come personificazione del tutto nella figura della parte, nella sembianza della particella, nel corpuscolo. Il tutto si rivela non unità ma legione, pulviscolo di minuzie che sono tutto l’intero nella loro volta a volta singolare versione, sciame di dettagli in cui Dio abita ogni volta tutto intero, sciame di bestiole, appunto. 

La forma-cunicolo

Il tunnel, la galleria, il cunicolo tortuoso, il corridoio lungo e oscuro, il percorso consegnato a un andamento in ultima analisi intestinale, da ogni parte gravato da una materia terragna e franosa, neppure tanto velatamente fecale: ecco qual è la forma peculiare dell’aperto, ecco la struttura del virtuale come continua imminenza del fuori, ecco il labirinto come edificio che non chiude affatto il passaggio ma al contrario moltiplica le aperture, e disorienta per un eccesso di linee di fuga.

Di nuovo, dobbiamo pensare che a muoversi, camminare, inoltrarsi, in questo cosmo kafkiano, non sia altri che Dio. Non un essere che si crede separato dal mondo e che si crede perciò umano. Non una talpa immaginata come un essere umano la immagina, nominando la talpa, la terra in cui la talpa scava, il cunicolo che risulta da questo suo scavo nella terra, e così via. Dobbiamo immaginare invece che sia Dio stesso a muovere un passo, a inoltrarsi nella terra che lui stesso è, a scavare un vuoto in quel pieno che suo tanto quanto il vuoto dello scavo è suo. Dobbiamo immaginare, detto altrimenti, che sia l’universo stesso, a inoltrarsi, dunque necessariamente a inoltrarsi in se stesso, a farsi largo nella propria strettoia. Dobbiamo immaginare, potremmo dire anche così, che sia un evento qualsiasi, a farsi strada in una materia che non può che essergli del tutto simile, anzi identica, cioè fatta di un insieme di eventi, coincidente un complesso di cose che accadono non senza relazione con quell’evento qualsiasi, anzi uno sciame di punti che ci sono proprio perché non sono altrove da quel punto d’osservazione, non sono altro che ciò che sono per quel punto d’osservazione, cosa del resto che dovremmo ripetere per ciascuno di quei punti. 

Immaginato tutto questo, ecco che vediamo con qualche chiarezza che Dio, se muove un passo, non muove un passo in una materia estranea, ma nella sua stessa materia, anzi in se stesso, e in un se stesso che inizia a farsi materia proprio perché lui ci si sta inoltrando, perché la sta svuotando, la sta smaterializzando. Vediamo con qualche chiarezza che l’universo non si inoltra se non nell’universo, e che ogni minuscolo moto dell’universo è il moto di tutto l’universo radunato in quel punto, e più esattamente è il moto grazie al quale tutto l’universo si incontra con se stesso in quel punto, producendosi da un lato in figura di passo che si inoltra, dall’altro in figura di materia in cui il passo si inoltra

Bisogna aggiungere subito che quei due lati sono la stessa cosa, lo stesso universo, che diviene due, si mostra in due figure, si sostanzia in due maschere concomitanti, e proprio così si verifica e si realizza come uno e uno solo. Proprio per questo a ogni passo le gallerie scavate dal Dio-talpa kafkiano franano su se stesse o su lui stesso. Proprio per questo quei cunicoli di cui la tana si compone non sono mai tracciate una volta per tutte, ma vanno scavate da capo o quasi da capo ogni giorno, vanno ripulite e consolidate quotidianamente. In effetti ogni passo suscita il vuoto del passaggio e insieme la frana della materia che sbarra quel passo. O se si preferisce guardare la cosa a rovescio, ogni passo suscita la massa della materia che farà ostacolo proprio perché un passo si è aperto un passaggio.

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