Esistono lettori che divorano libri, ma anche libri che divorano chi li legge. È questo il caso di La strada (2007) di Cormac McCarthy, un romanzo post-apocalittico in cui si fondono drammaticamente due poli quasi opposti: ritmo e silenzio. Il ritmo è quello della marcia incessante di un uomo e di suo figlio, lungo la strada che porta verso sud. In un mondo grigio, uniforme e spoglio, annichilito da una catastrofe non meglio precisata, la coppia trascina un carrello della spesa carico di cibi in scatola e cianfrusaglie utili per la sopravvivenza. Ne sentiamo, pagina dopo pagina, il cigolio regolare. Ne avvertiamo il peso lungo l’asfalto dissestato. Nel fluire di un testo senza capitoli, i cambi di scena sono affidati a righe bianche che tagliano la pagina come lame di freddo. Quel freddo da cui scappano i protagonisti, vagabondi e coperti di cenci, verso un oceano che il bambino immagina blu.

E poi c’è il silenzio. È nella desolazione di un panorama fuligginoso, nell’assenza del canto degli uccelli, spazzati via dalla catastrofe insieme a ogni altra forma di vita animale. È nella natura che non produce più frutti, nei campi orfani di raccolti, su una terra da cui spuntano alberi inceneriti e morti, case diroccate come residui antropici di un pianeta ormai inadatto alla vita. È nell’ammasso di rottami lungo il cammino. «Cianfrusaglie sparse al bordo della strada. Elettrodomestici, mobili. Arnesi. Oggetti abbandonati in un lontano passato da pellegrini in cammino verso le loro morti collettive» (McCarthy 2007, p. 152).

Questo silenzio è interrotto dai colpi di tosse dell’uomo e da dialoghi quasi sussurrati, asciutti. L’uomo rassicura suo figlio nei momenti cupi della fame o negli incontri con i “cattivi”: bande armate o clan di cannibali da cui tenersi alla larga. La pioggia che accompagna il cammino, così come il crepitio del fuoco acceso ogni sera, scolpiscono un panorama sonoro ovattato intorno a paesaggi piatti e disperati:

Sul versante opposto della valle la strada attraversava un terreno incendiato nero e spoglio. Tronchi carbonizzati e senza rami che si susseguivano a perdita d’occhio. Cenere che aleggiava sopra la strada e grappoli di cavi ciechi che penzolavano dai pali della luce anneriti gemendo piano nel vento. Una casa bruciata in una radura e più in là una distesa di praterie livide e desolate e una montagnola fangosa di terra rossa grezza con dei lavori stradali lasciati a metà (ivi, pp. 6-7).

Ma che cos’è stato a devastare il mondo e spazzare via l’umanità? L’autore non ce lo rivela. Non certo una pandemia, come ne La peste scarlatta (1912) di Jack London, da alcuni evocata – a nostro avviso impropriamente – come modello del romanzo di McCarthy. La mascherina di cotone che i protagonisti indossano serve a proteggerli da un’aria irrespirabile, ma non risparmia all’uomo la bronchite che gli sarà fatale. Mentre avanziamo nella lettura, in attesa di un flashback che ci parli di una guerra nucleare o di un meteorite che ha colpito la Terra, ci rendiamo conto che questa spiegazione non è necessaria. Potrebbe, anzi, distrarci dall’anima del romanzo: un balletto tra vita e morte. La scomparsa della madre del bambino che, sopravvissuta all’apocalisse, non ha la forza per continuare a vivere in un mondo incenerito e privo di senso, lasciandoli soli nel viaggio. L’ostinazione del padre, nel cercare cibo e nello spingere il carrello, per far sopravvivere quel figlio che non ha conosciuto colori, versi degli animali, sapori che non siano quelli dello scatolame rinvenuto nelle cantine di case abbandonate.

La pistola, cui rimangono solo due proiettili, è il crocevia tra speranza e disperazione. L’uomo è pronto a esplodere i due colpi per porre fine alle loro vite e raggiungere la compagna. Il bambino è stato addestrato a usarla contro di sé, nel caso le cose volgano al peggio. Ma questo non avviene, e vediamo l’arma in azione solo a scopo difensivo. Invece di togliere la vita, la protegge. La strada, infine, li conduce all’oceano. Una distesa d’acqua deprimente, grigia come il cielo e la spiaggia:

La sua faccia tradiva la delusione. Mi dispiace che non sia blu, disse. Non fa niente, disse il bambino. Un’ora dopo erano seduti sulla spiaggia e fissavano il muro di smog all’orizzonte. Avevano i talloni piantati nella sabbia e guardavano quel mare triste che sciabordava ai loro piedi. Freddo. Deserto. Senza uccelli (ivi, p. 164).

È un traguardo deludente, in apparenza: la meta bramata per tutto il cammino non si rivela altro che un nuovo orizzonte di desolazione, in cui difendersi da altri nemici e dal continuo, imperante gelo. Eppure, da lì a poco, si giocherà una nuova partita tra la vita e la morte: vinceranno entrambe, con il bambino che potrà proseguire il suo viaggio portando “il fuoco” che il padre gli ha insegnato a riconoscere dentro di sé.

Non sorprende che un testo così cinematografico abbia guadagnato una trasposizione su pellicola già pochi anni dopo la sua pubblicazione. The Road (2009), diretto da John Hillcoat e interpretato da Viggo Mortensen, si distingue innanzitutto per la magistrale fotografia di Javier Aguirresarobe, capace di tradurre in immagini la desolante luce post-apocalittica del romanzo. Tuttavia, pur nella fedeltà al testo di McCarthy, il film dice troppo – o comunque più di quanto non dica l’autore – sulla catastrofe che annichilisce il pianeta e sulla madre assente. L’abuso di flashback guasta il ritmo del carrello che solca la strada, interrompe il suono e la fatica dei passi disperati del padre e del bambino. Che, senza nome, attraversano le pagine del romanzo con la loro nuda vita, capaci di resistere alla disperazione delle notti «più buie del buio».

Sia il libro che il film, ad ogni modo, riescono con efficacia a parlarci dell’amore paterno di un uomo che cerca con ogni forza di traghettare il figlio verso il futuro. Questo amore, insieme alla pretesa morale di mantenersi tra le schiere dei “buoni”, è un gesto disperato, quasi irrazionale, in un mondo morente popolato da fantasmi. Qualcuno, leggendo La strada in tempi pandemici, potrebbe chiedersi se abbiamo impiegato questa stessa ostinata energia per tutelare i più piccoli, o se nel preservare le nostre nude vite ci siamo scordati del loro domani.

Cormac McCarthy, La strada, Einaudi, Torino 2007.

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