“Tu non sei reale”, dice il piccolo visitatore a Dolores durante il primo episodio di Westworld, la serie di HBO ideata e scritta da Jonathan Nolan e Lisa Joy. Nell’innocente tentativo di verità del bambino e nello sguardo disorientato della protagonista, si concentra, già nelle prime sequenze, quello che, sotto molti punti di vista, può essere considerato il tema principale della serie.

Westworld è un parco a tema western, popolato da androidi che sono percettivamente indistinguibili dagli umani. Il loro comportamento viene determinato da molteplici linee narrative che si intrecciano; i visitatori possono interagire e giocare un ruolo in queste vicende pre-configurate, oppure scegliere di vagare attraverso il parco alla ricerca di nuovi e inesplorati territori. Ciò che caratterizza la relazione uomo-robot è il fatto che gli uomini possono ammazzare gli androidi – i quali verranno aggiustati e riprogrammati per ricominciare sempre daccapo il loro ciclo vitale – ma non viceversa. La dinamica di questa relazione sembra attivare un processo di reciproco adattamento: i visitatori perdono i loro tratti più culturalmente umani (la morale o la pietà, ad esempio), mentre i robot, programmati per rivivere continuamente la propria vita, e soprattutto la propria morte, cominciano a mettere in questione la loro stessa esistenza.

Se le emozioni, le passioni, i sentimenti possono essere gestiti da un programma, la possibilità per gli androidi di ricordare la propria vita passata diventa l’elemento che fa saltare ogni calcolo, avviando l’incerto processo di trasformazione degli androidi in umani, o meglio il processo che porterà alla totale indiscernibilità degli uni dagli altri. Questo, del resto, sembra essere l’obiettivo del genio-inventore del parco (il dott. Robert Ford, intrepretato da Anthony Hopkins): trovare un programma che possa stimolare il ricordo e l’autocoscienza dell’androide a tal punto da farlo non più “sembrare reale”, ma diventare tale, con tutte le conseguenze imprevedibili e drammatiche che esso comporta (vedi il finale di stagione). E non è un caso che l’unico androide che per lungo tempo lo spettatore crede “reale” sia Bernard, il robot-assistente (clone di Arnold, l’altro fondatore di Westworld morto in circostanze sospette) tormentato dal ricordo, costruito ad hoc da Ford, della morte del figlio.

Sotto questo profilo, dunque, Westworld si inserisce in un’ampia tradizione di science fiction – è basato sull’omonimo film del 1973 di Michael Crichton – in cui si indaga il rapporto tra uomo e tecnologia, lavorando sull’idea, enfatizzata e portata alle più estreme conseguenze, che il dispositivo tecnologico sia dotato di una propria agentività, che diventa “umana” nel momento in cui si trasforma in auto-riflessività. Lo sfasamento temporale (e culturale) che separa il mondo dei custodi-programmatori (un futuro relativamente a noi vicino) e quello del parco in cui si immergono i visitatori (il tempo del Far West) enfatizza ancor di più le caratteristiche specifiche delle nuove tecnologie. In una forma rimediata dell’immaginario west alla Sergio Leone, un convoglio ferroviario permette l’accesso al parco, mentre un piano meccanico riproduce, non le arie di Morricone, bensì i brani alieni e malinconici dei Radiohead.

Alla tecnica meccanizzata corrisponde il più evoluto esempio di androide, programmato per vivere nel passato del Far West e, allo stesso tempo, per relazionarsi con degli esseri umani proiettati verso il futuro. Ma questo è solo il primo, ed esplicito, gioco sul tempo che la serie ci presenta. Ad un certo punto della stagione e con non poco sconcerto, lo spettatore si accorge, infatti, che i piani temporali su cui si sviluppa la narrazione sono molteplici e che la storia che si sta svolgendo, apparentemente nel presente, fa parte dei ricordi del passato sollecitati, ma mai pienamente coscienti, degli androidi. Il gioco sul tempo che opera la serie diventa il vero protagonista e si incarna nel personaggio di William/Man in Black (gli androidi, del resto, non invecchiano), che diventa il corpo attraverso cui cogliere quel processo di reciproco adattamento che la serie tematizza.

Giunto nel West, animato dalle migliori intenzioni (si rifiuta di ammazzare gli androidi e pensa di poter salvare Dolores, di cui coglie il potenziale umano), William tornerà periodicamente nel parco per oltre trent’anni, ossessionato dalla ricerca di un labirinto, all’interno del quale viene custodito un mistero, il segreto del parco. Di questa storia noi vediamo quelli che apparentemente sembrano essere l’inizio e la fine, ovvero il primo soggiorno di William nel parco e la sua ultima visita e tutta la narrazione mira a sollecitare lo spettatore nella ricostruzione di ciò che è accaduto nel mezzo, disseminando indizi che sta a lui cogliere e mettere insieme, montare. Westworld, allora, sembra esplicitare ed estremizzare due aspetti specifici e fondamentali del dispositivo seriale.

Il primo è quello di aprire una diversa temporalità, frammentata e dilatata, rispetto al tempo tradizionalmente circoscritto e compatto del film, sia in termini di durata che di parabola narrativa rappresentata. Tuttavia, se per lungo tempo la serie è stata il luogo di una rinnovata forma di linearità narrativa, ora lo spettatore viene immerso in un’articolazione temporale in cui manca un’esplicita direzione vettoriale; in questo senso, la serie di Nolan – lo sceneggiatore di Memento (2000), è bene ricordarlo – coglie quello che sembra essere un potenziale intrinseco del dispositivo seriale e che può essere rintracciato anche in altri prodotti; basti citare il caso di This is Us (2016), serie di altro tenore narrativo, basata, però, essenzialmente sull’idea della compenetrazione narrativa di diversi piani temporali. Tuttavia, se in una serie come This is Us, il gioco sul tempo mira a mettere in chiaro gli eventi che continuano a trovare una propria sensatezza all’interno narrazione, in Westworld il rapporto tra passato e presente, continuamente rinnovato, ma mai risolto, fa saltare completamente il piano del racconto, lasciando allo spettatore ben poche certezze narrative a cui appigliarsi.

Questo spaesante gioco sul tempo, chiama, così, in causa, il secondo aspetto che caratterizza le serie tv, ovvero la loro naturale predisposizione ad uscire fuori di sé, ad aprirsi e a vivere nel mondo del web, dove gli spettatori si incontrano e in qualche modo vivificano il racconto, “aumentandolo” con la propria interattività. Proseguendo una linea segnata già da Game of Thrones (2011), anche Westworld vive delle interpretazioni, dei dettagli scoperti dai suoi spettatori e delle teorie condivise nella rete che, come la coscienza del lettore nella teoria di Iser (1987), diventa il correlato del testo seriale: una coscienza aumentata e partecipativa, il luogo in cui si formano quelle “configurazioni di senso” che nel prosieguo della visione possono essere confermate o disattese, producendo così una riconfigurazione sistemica dell’intera opera. La serie esce continuamente fuori di sé; il futuro e l’efficacia di Westworld si giocheranno sulla capacità di saper bilanciare questa dinamica tra il dentro e il fuori, di essere in grado di riportare ogni volta lo spettatore all’interno della narrazione.

Riferimenti bibliografici
W. Iser, L’ atto della lettura. Una teoria della risposta estetica, Il Mulino, Bologna 1987.

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