Nell’epoca della Peak Tv e dell’affollamento di contenuti seriali su diverse piattaforme, a loro volta differenti per formato, durata, consumo, Mindhunter fa parte di un gruppo di serie che potremmo definire accademiche. Ovviamente usiamo questo termine in maniera neutra, non peggiorativa, e anzi legata nel profondo a una dimensione della ricerca e degli interessi scientifici e umanistici.
I lavori di Jill Soloway, per esempio, hanno una evidente dimensione accademica, poiché drammatizzano e narrativizzano preoccupazioni da dipartimenti di gender e queer studies americani, pur senza nominarli esplicitamente. Sia il più noto e longevo Transparent sia I Love Dick hanno esibito questioni come la rappresentazione dell’intersessualità, la discussione e cittadinanza estetica delle forme transitorie del corpo, il continuo rimodellarsi delle comunità intellettuali di fronte ai cambiamenti sessuali delle persone care, le crisi e i conflitti portati dall’argomento anche dentro le comunità LGBT. Nel caso di I Love Dick, poi, pur circondati da personaggi secondari gay e queer, i protagonisti costruiscono e decostruiscono in maniera fantasmatica, psicanalitica, gli immaginari eterosessuali, rinegoziando ancora una volta mascolinità e femminilità in un contesto popolato da docenti universitari e artisti concettuali. Lo stesso si potrebbe dire – a gradi diversi su cui non ci soffermiamo (dalla storia della medicina alle autorappresentazioni etniche passando per la crisi del post-femminismo) – di The Handmaid’s Tale o The Knick ma anche di serie tinte di commedia come Easy, Dear White People o Master of None.
La serie diretta per ben quattro episodi su dieci da David Fincher porta questo concetto (prodotti televisivi che sono aggiornati sul dibattito accademico statunitense) a nuovi livelli. Anzitutto, la vicenda narrata inscrive la dimensione della ricerca nel soggetto stesso: è la storia di un giovane agente FBI che alla fine degli anni Settanta convince un riottoso e più anziano collega a imbarcarsi in una serie di interviste sul campo a serial killer detenuti, coinvolgendo anche una docente universitaria di sociologia comportamentale. La figura della studiosa è modellata su Ann Wolbert Burgess, pioniera degli studi sui traumi post-stupro e dei trattamenti legati agli abusi, effettivamente coinvolta negli anni ottanta in ricerche con l’FBI per la profilazione dei killer, quasi sempre figure abusate e traumatizzate o fortemente anempatiche.
L’interesse di Mindhunter per il panorama seriale contemporaneo è la scelta radicale di legare la detection, o le forme di azione narrativa, ad esclusivi confronti verbali. Non solo le interviste ai serial killer in prigione rappresentano il cuore del racconto, sostituendo di fatto gli elementi di suspense o di tensione altrove previsti, ma i risultati di de-briefing vengono discussi dal team di ricercatori di fronte allo spettatore, annegando il ritmo in una continua successione di confronti accademici. Anche nel plot sulla vita privata del protagonista, non c’è tregua: la fidanzata dell’agente è un’appassionata studentessa di sociologia, che cita Durkheim e Goffman con estrema disinvoltura e spinge il compagno sempre più verso una rete di conoscenze scientifiche e non legate alla pura dimensione foucaultiana del controllo e della punizione.
La scommessa di Fincher e degli showrunner è dunque trasformare questa materia in qualcosa di affrontabile dagli appassionati di serie e che non frustri, nella sua lentezza esibita, le leggi del binge watching. Su questo versante, la fretta con cui il giovane agente cerca di sfruttare le conoscenze acquisite a ricerca ancora in corso (facendo infuriare la docente) per risolvere casi in atto di probabili serial killer, serve a costruire alcune trame orizzontali di detection più tradizionale.
Ma ci sono ancora due aspetti a rendere Mindhunter una delle serie più importanti di questi anni. L’ambientazione nella seconda parte degli anni settanta fa sì che si ricorra, oltre che a una archeologia dei media analogici e a una ricostruzione socio-antropologica magari prevedibili, anche a un diretto coinvolgimento delle trasformazioni culturali e sociali del periodo nell’orizzonte di sapere dei personaggi. Tutto, dunque, comprese forse alcune delle pulsioni più distruttive degli assassini, tiene conto e deriva dalle discontinuità di immaginario e delle profonde modificazioni in atto, il femminismo sopra a tutto. Dimensione, questa, che entra anche nei delicati rapporti tra la studiosa, e il mondo degli agenti, tutti maschi.
Il secondo aspetto da citare riguarda più che altro i temi dell’autorialità cinematografica giocata in campo seriale e televisivo. Fincher sembra suggerire, in termini stilistici, fotografici e storici, una connessione diretta con Zodiac (2007), forse il più sottostimato dei suoi film (un’opera accademica, a sua volta). Se Zodiac è il modello, i primi due episodi ne sono al tempo stesso derivazione e pattern prototipico per le altre puntate, dirette da altri registi (fino al gran finale, nuovamente sotto le redini di Fincher). Questo rapporto di continua gemmazione strutturale ed estetica delle forme seriali è forse il modo giusto per comprendere come funzionano le operazioni di senso tra cinema e serialità, purtroppo affrontate in questi anni solo per accapigliarsi sul primato estetico dell’uno o dell’altra.
Mindhunter dunque funziona come un campo di forze apparentemente centripeto, che libera però un numero sorprendente di concetti e suggestioni in direzioni opposte, da quelle disciplinari a quelle testuali, da quelle mediali ad altre di tipo sintomatico, lasciandoci arricchiti e attraversati da una sana inquietudine.
Riferimenti bibliografici
A. Giddens, Durkheim, Il Mulino, Bologna 1998.
E. Goffman, L’interazione strategica, Il Mulino, Bologna 1988.