Moda – Io sono la Moda, tua sorella.
Morte – Mia sorella?
Moda – Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate nella Caducità?
Morte – Che m’ho a ricordare io che sono nemica capitale della memoria.
Moda – Ma io me ne ricordo bene; e so, che l’una e l’altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché tu vadi a questo effetto per una strada e io per un’altra.
Giacomo Leopardi, Dialogo della Moda e della Morte
È possibile scomparire dopo aver prestato il proprio corpo alla Visibilità? È possibile fuggire dal mondo dell’Immagine attraverso le immagini? Nel suo film d’esordio un giovane regista – Beniamino Barrese – lo chiede direttamente a sua madre – Benedetta Barzini, prima top model italiana negli anni sessanta, musa di Andy Warhol, Salvador Dalì, Irving Penn e Richard Avedon, ravveduta femminista negli anni settanta, poi e ancora oggi a 75 anni giornalista e antropologa della moda. Lui la rincorre con la macchina fotografica e con la videocamera da quand’era bambino; non sa perché, ma ora che sua madre ha deciso di scomparire è arrivato il momento di utilizzare quelle immagini per scavare in profondità nello stato di una relazione che per natura è indissolubile, ma per natura destinata a sciogliersi. A cavallo tra documentario e finzione, tra found footage e messa in scena, tra biografia familiare e fantasia, La scomparsa di mia madre è una riflessione sulla moda attraverso l’Antimoda, sul senso della presenza attraverso l’assenza, sulla necessità del legame attraverso l’ineluttabilità della separazione.
Lo aveva intuito già Leopardi nel suo ideale e sardonico dialogo fra due sorelle. Moda e Morte, figlie entrambe della Caducità, sono alleate nello stringere la vita e far soffrire il corpo, immutabili nel produrre l’incessante mutamento che rende ogni cosa decaduta a pochi istanti dal suo affacciarsi. Eppure il film oscilla su una scissione apparentemente contraddittoria. I provini, gli shooting fotografici e le copertine dell’epoca convivono con l’immagine ravvicinata, intima, inconfutabile dei solchi scolpiti dal tempo sul volto odierno di Benedetta. L’immagine benedetta di oggi vorrebbe negare l’immagine maledetta di ieri, ma non è possibile, l’unica strada per la riparazione è la scomparizione.
Al glamour opporre la semplicità; all’ossessione per la bellezza l’imperfezione; al mito della giovinezza la realtà della morte. Sono le opposizioni che la stessa Barzini evoca nella scena della lezione in università. Vecchio uguale Morte: ecco lo spauracchio del “sistema di oppressione” in cui è caduta la società della Moda, per cui la morte va nascosta sotto gli abiti dell’eterna giovinezza. Eppure, anche se le sue studentesse forse ancora non lo sanno, Moda e Morte vanno a braccetto. E quando Benedetta sfila alla London Fashion Week del 2017 assieme ad altre modelle degli anni sessanta, potrebbe sembrarci di vedere la Moda e la Morte nello stesso corpo, e invece il paradosso del tempo che disallinea giovinezza e bellezza incrina quel legame fraterno e lo trasforma nell’immagine della Moda e la Madre.
Ma Benedetta ripudia anche l’immagine patriarcale della Madre, ennesima scusa per l’oppressione dalla società maschilista che alla donna ha concesso la Moda come compensazione all’esclusione dalla vita sociale. Aborre l’iconografia della Madonna con bambino, a cui preferisce la Vergine leggente di tradizione rinascimentale, come per esempio nell’Annunciata di Palermo di Antonello da Messina. Eppure anche lei è madre con bambino oltre che donna intellettuale, e c’è un figlio che glielo ricorda con insistenza, mostrando le fotografie e i filmini, doppiamente biografici, della sua nascita. Ne è infastidita, non sopporta l’invadenza degli stessi obbiettivi da cui vorrebbe fuggire. “Non vedo l’ora che finisca col Buio”, dice a suo figlio. “Voglio ritrovare il mio Ben, non il suo ‘immaginifico’”. “L’obiettivo non sei tu, l’obiettivo è il nemico”. Alla durezza con cui spesso cerca di opporsi a quell’invadenza, si alterna la dolcezza di una madre e del suo sguardo amorevole, arresa alla volontà immaginifica del figlio. Ed è proprio qui che emerge il senso più profondo dell’operazione: “Il lavoro che stiamo facendo – dice al suo Ben – è un lavoro di separazione”, di accettazione dell’abbandono che prima o poi ogni madre impone ai figli con la propria dipartita. Separarsi dopo essersi saldamente riuniti. Scomparire come partire e come dipartire.
Da un lato Benedetta dice di voler scomparire come Immagine, negarsi alla vista di tutti rendendosi irreperibile. Come si può ancora vivere in “un mondo in cui tutto è delegato alla fotografia e non alla memoria?”. Non vuole più “lavorare per l’ambiguità” e risolvere il conflitto fra l’ostentazione del passato e il nascondimento cui ora aspira. A lei ora interessano le cose che non si vedono, le cose sfuggenti: l’Immagine le dà fastidio perché “è una bugia” che “pietrifica una cosa che ha un limite”. Il corpo si vede perché si può mostrare; la persona invece no: “Recitavo una parte, ma non ero io: la mia persona non è fotografabile”. La scissione è certamente l’esito di un rimorso. C’è un passato da sistemare e l’unico modo sembra seppellirlo sotto le foglie in un bosco immaginario. Ma qui c’è il paradosso di un film che mostra il desiderio della scomparsa. Nella civiltà dell’Immagine, è scomparso solo ciò che mostra di esserlo.
Scomparire mostrandosi, mostrare celandosi. Cos’è un abito se non un rivestimento che per nascondere mostra e per coprire rivela? Benedetta cerca ostinatamente (e un po’ burberamente) di ritrarsi da se stessa: non vuole un premio per il suo passato (“La bellezza non è un merito”), preferisce vestiti domestici e trascurati anche in pubblico, infliggendosi un contrappasso. La ricerca della sobrietà potrebbe sembrare una scelta forzata, un ribaltamento della vistosità del consumo come segno distintivo, e dunque ricaduta in un’altra delle dinamiche fagocitanti della moda (il contro-snobismo teorizzato da Steiner e Weiss sulla scia di Veblen e Simmel, le cui idee seminali sulla moda come fenomeno sociale e culturale ho più volte implicitamente evocato finora). Ma se per Benedetta la moda e il suo contrario sono una leva per scardinare l’ingiusta equazione Donna=Natura, Uomo=Ragione, il film di suo figlio la costringe a riformulare la priorità dei dualismi, sorprendendola disarmata e nuda di fronte alla Vita.
Nell’altro senso infatti scomparire è morire. Nel concedersi alla domanda di suo figlio, nell’accettare di mostrarsi per scomparire, Benedetta progetta il film assieme a Ben, si presta a una doppia recitazione. Da un lato concede di rivelare i propri tic, i propri difetti, una casa disordinata, i vestiti e l’igiene trascurata. Dall’altro si trasforma in sceneggiatrice e attrice pianificando e inscenando più ipotesi per la propria fuga: via mare, remando con una barca di legno verso l’orizzonte; oppure via terra, tra gli alberi di un bosco. In questi finali immaginari la scopriamo anche un po’ rea confessa fuggitiva, ma soprattutto capiamo che la scomparsa cui allude è anche congedo da sé e dai propri cari. “Lavoro per portare a termine la vita qui”; “Forse voglio solo morire”; ma “Non è un suicidio, è un’altra vita”: “Vorrei regalarmi il contrario di quello che ho conosciuto fino adesso”.
Forse Benedetta non ci riuscirà, ma ci è riuscito Ben. In particolare nelle sequenze meno documentaristiche e apparentemente accessorie del film; quelle in cui, all’inizio e quasi alla fine, esamina alcune modelle per interpretare il ruolo di sua madre nel film che sta realizzando. Durante il casting alle ragazze è chiesto di assumere le espressioni e le posture adottate da Benedetta nelle fotografie più famose degli anni sessanta; ma anche di leggere alcuni brani scritti da lei. Realizzando un’interessante operazione, Barrese chiede ad altri di provare a fingere di essere sua madre, ma poi usa proprio il materiale del casting per offrire a sua madre un poetico tributo e una via di fuga alternativa e inaspettata: scomparire nell’altro.
Riferimenti bibliografici
G. Leopardi, Dialogo della Moda e della Morte, in Id., Operette morali, Starita, Napoli 1835.
G. Simmel, La moda, in Id., La moda e altri saggi di cultura filosofica, Longanesi, Milano 1985.
R.J. Steiner, J. Weiss, Veblen revised in the light of countersnobbery, in “Journal of aesthetics and art criticism“, IX, marzo 1951.
T. Veblen, La teoria della classe agiata, Einaudi, Torino 1949.