L’ultimo lavoro di Catherine Malabou, La rivoluzione? Non c’è mai stata – che arriva in Italia grazie al prezioso lavoro di Elèuthera – prende le mosse da un’istanza chiara quanto puntuale: nonostante gli anni che ormai da essa ci separano, la critica mossa da Proudhon alle società europee della proprietà potrebbe custodire per noi qualcosa di ancora essenziale. Più precisamente, per Malabou è al classico della letteratura anarchica (e, in fondo, di tutti i prodromi ottocenteschi della teoria critica), Qu’est-ce que la propriété? che è «indispensabile» guardare per «l’elaborazione di una critica contemporanea della proprietà privata» (C. Malabou 2025, p. 13).
La tesi più famosa tra quelle di Proudhon è che «la proprietà è un furto». Quello che, però, di essa rimane da svolgere è il suo significato profondo: la proprietà privata non è semplicemente un furto materiale, ma è «innanzitutto un furto di memoria e di senso che trasforma l’asservimento – immemore e persistente – in una garanzia di emancipazione» (Malabou 2025, p. 14). Tutto ciò non solo traccia con precisione la linea di demarcazione che frappone Proudhon all’economicismo di Marx (opposizione esaminata alle pp. 55-94), ma porta anche l’autore all’identificazione di un nuovo perno teorico, che finirà per rappresentare la chiave di volta della sua intera impresa critica: il diritto d’albinaggio.
È proprio l’analisi – e la parziale risemantizzazione – di questa nozione e dei suoi concreti risvolti applicativi a permettergli di rinvenire una ragione di dominio comune nell’organizzazione e riproduzione di quel furto fondamentale che si rivela essere la proprietà privata, un furto «iscritto nel cuore del feudalesimo e falsamente cancellato della Rivoluzione» (ivi, p. 17). Il diritto d’albinaggio, infatti, pur presentandosi in prima istanza come una reinterpretazione proudhoniana della sottrazione, tanto denunciata dai marxisti, di plusvalore da parte del proprietario nei confronti dei salariati, invero è una nozione radicata nel diritto feudale francese, come mostra molto bene Malabou, e che indica anzitutto una condizione di “incapacità civile”, relativa non solo all’interdizione di determinate cariche politiche, ma soprattutto all’impossibilità di testare, e che per Proudhon gli ubenati (i sottoposti al diritto di albinaggio) condividono con servi e bastardi.
È in questo modo che una spoliazione materiale, si rivela radicata in realtà in un tessuto simbolico e mnestico, che finisce così per renderla totalizzante. La Rivoluzione francese non abolisce questa condizione ma la trasforma, mutando le strutture di uno stato che rimane difatti di servaggio. Di qui, l’altra celebre tesi di Proudhon, per cui la Rivoluzione non ci sarebbe mai stata. Dal servaggio feudale al sistema della proprietà privata ci sarebbe una variazione (pur significativa) di grado ma non di genere: «Proprio come gli ubenati, i servi e i bastardi sono esclusi dal lignaggio, i proletari, espropriati dal lavoro, sono esclusi dalla trasmissione del capitale» (ivi, pp. 23-24). Malabou è chiara: tutte «le forme di schiavitù presuppongono una cancellazione genealogica» (ibidem).
Ma è proprio nel cuore di questa espropriazione fondamentale, tanto interiore quanto esteriore, che si erge il suo stesso limite, ovvero il vuoto che le sottostà e la consegna all’infondatezza che resta la cifra di ogni sistema di dominio. Servi anche in assenza di servitù, la «miseria genealogica che li designa come deboli, poveri, senza lignaggio, e quindi sfruttabili a piacimento, soggetti alle taglie, alla manomorta, alle corvée, esibisce al tempo stesso il loro carattere fondamentalmente non appropriabile, facendo così vacillare per un momento la struttura stessa del dominio su di loro» (ivi, p. 134).
Insomma, è questo ciò che per Malabou è possibile cercare di interrogare attraverso (che è già sempre un “oltre”) Proudhon: la dimensione del “non-appropriabile”. La proprietà privata, questo spazio liminare per eccellenza – nella misura in cui rasenta il confine dell’istituzione fondamentale nelle società industrializzate – rappresenta la posta in gioco di una sfida anzitutto politica. Una sfida che dall’Ottocento (Qu’est-ce que la propriété? è del 1840) traccia una linea che giunge fino all’attuale ascesa del cosiddetto «tecno-feudalesimo» (ivi, pp. 155-162) dove, secondo le indicazioni date dallo stesso coniatore del termine, Cédric Durand, al controllo monopolistico della terra tipico del feudalesimo medievale, si sostituisce il controllo centralizzato dei dati.
È in questo senso, anche, che Malabou pone le proprie analisi a confronto con due dei filoni che ritiene massimamente esemplari, con stima o riserve a seconda degli aspetti, tra le attuali critiche della proprietà privata: la filosofia del “comune” di Dardot e Laval, da un lato, e tutto il dibattito sullo spossessamento decoloniale, dall’altro, che trova nell’opera di Nichols un piglio particolarmente affine a una lettura proudhoniana della contemporaneità. Queste sono particolarmente significative nella misura in cui, pur intaccando molte delle tematiche e delle argomentazioni che stanno alla base di Qu’est-ce que la propriété?, cionondimeno entrambe «si smarcano chiaramente dall’anarchismo», ovvero proprio dalla sfida lanciata al pensiero dal punto estremo della proprietà stessa, la sua non-appropriabilità.
Sintanto che la posta in gioco si limita a una ristrutturazione dei rapporti economici, a una condivisione dei beni incapace di mettere in questione il problema stesso del governo – che è anzitutto politico – qualsiasi proposta critica non potrà che rimanere prigioniera della propria incapacità di pensare lo spazio proprio, liminare e sempre al margine, del non-appropriabile. Questa in fondo è la pietra angolare dell’anarchismo che, secondo Malabou, Proudhon ancora oggi può invitarci a pensare, in tempi che paiono lontani da una pacifica risoluzione dei problemi che quasi duecento anni fa aveva posto: abitare quello spazio al di fuori del governabile, e per questa ragione al contempo mai appropriabile in definitiva. Abitarlo senza appropriarsene a propria volta, senza ricadere nella tacita seduzione del governo – come invece capita in correnti ideologiche come l’anarco-capitalismo o il libertarismo. «Questa è la sfida dell’anarchismo che si autodesigna: diventare il portavoce di ubenati, sevi, bastardi e operai restando uno straniero; interrogare la memoria rubata della servitù senza creare memoria servile né discepoli obbedienti. Restare l’altro, improprio e “improprietario”» (ivi, p. 226).
Catherine Malabou, La rivoluzione? Non c’è mai stata, Elèuthera, Milano 2025.